mercoledì 30 aprile 2025
Quisque faber fortunae suae.
Il primo maggio nasce come giornata di lotta del proletariato contro il capitalismo. Ricorda il grande scontro di classe che si svolse a Chicago nel maggio 1886, represso violentemente nel " paradiso democratico U.S.A."
Nel 1889 la seconda internazionale proclamò questa data giornata di lotta internazionale per la riduzione dell'orario di lavoro per legge, nel ricordo dei martiri di Chicago.
Attraverso i decenni e i continenti il primo maggio è diventato una tradizione di classe, costruita, conquistata e imposta con la lotta al di là delle divisioni nazionali, etniche o religiose.
Il primo maggio testimonia che la lotta per l'emancipazione della classe lavoratrice non è un problema nazionale, ma sociale e internazionale.
Il capitalismo è internazionale e la sua azione si espleta in tutto il pianeta.
La classe lavoratrice non può chiudersi nei confini nazionali per difendere le sue esigenze, ma deve essere unita e compatta a livello internazionale.
Coloro che portano avanti la dispersione della forza dei lavoratori nei recinti nazionali indeboliscono la lotta per condizioni migliori di lavoro e di vita della classe lavoratrice e portano acqua agli interessi del profitto.
Nel ricordo del maggio 1886 e dei martiri di Chicago, oggi è necessario che i lavoratori siano uniti a livello mondiale per contrastare i tempi bui che il sistema si accinge a mettere in atto per estrarre ancora più plusvalore e profitto dalle braccia e dai cervelli di tanti esseri umani, consapevoli che solo la lotta per una realtà economico-sociale senza rapporti di produzione potrà rendere la vita dell'intera umanità "umana", in cui "ogni essere umano possa dare secondo le sue capacità ed avere secondo le sue necessità.
martedì 29 aprile 2025
Primo maggio internazionalista.
Primo maggio internazionalista.
E’ in corso un riarmo globale e una lotta per nuovo ordine mondiale che tenga conto delle differenti forze emerse negli ultimi decenni. L’ordine scaturito dopo la seconda guerra mondiale non è più attuale e le nuove potenze cercano più spazio nella contesa mentre le vecchie si danno da fare per difendere il loro potere in decadenza. La guerra in Ucraina è uno scontro tra potenze imperialistiche. Lo stesso vale per la tragica realtà israeliana-palestinese-iraniana. Sono le prime di una lunga serie che segnerà la nuova era nelle relazioni tra le potenze. La classe lavoratrice è carne da macello in questa lotta imperialistica. L’ unico modo per fermare questa tragedia è far si che i lavoratori diventino potenza tra le potenze ed esprimano con forza la determinazione di lottare per un mondo nuovo. Sono 300 milioni i proletari europei, russi e ucraini; se uniti porterebbero al macero ogni imperialismo e ogni nazionalismo. La ferocia del sistema capitalistico si manifesta in tutte le sue guerre, attualmente vi sono 65 nel mondo, anche in quelle oscurate dai mass-media, come in Sudan e nello Yemen, e nel trattamento dei migranti che muoiono a centinaia nel Mediterraneo e nel mondo nella generale indifferenza. L’unica alternativa risolutiva a questo scempio è l’unità di tutti i lavoratori. Se si vuole la pace, bisogna lottare per superare i rapporti di classe, la produzione per il profitto e , come sarebbe nel mondo nuovo, per una società basata sul consumo. Non c’è bisogno di pacifismo, ma di comunismo! Il pacifismo è una parola vuota se rimane per il sistema l’unico obiettivo il profitto. Se rimangono i rapporti di classe. Se i lavoratori si rendessero conto del potere che avrebbero, se si appropriassero di conoscenza e organizzazione, il mondo sarebbe diverso e più aderente alle necessità spirituali e materiali dell’umanità intera in una società dove “Ogni essere umano possa dare secondo le sue capacità e ricevere secondo le sue necessità.”
Il primo maggio ricorda la lotta dei lavoratori per le otto ore, otto ore di lavoro, otto ore di svago, otto ore per dormire.
Le otto ore al giorno
La nascita del 1° Maggio, come Giornata internazionale dei lavoratori, è legata indissolubilmente alla lotta per l'introduzione per legge della giornata lavorativa di otto ore. Siamo nella seconda metà del 1800, agli albori del movimento organizzato dei lavoratori. Allora i capitalisti imponevano, anche ai fanciulli, di lavorare per un misero salario dalle 12 alle 16 ore al giorno pena il licenziamento.
Nel 1886 negli Stati Uniti per la prima volta fu avanzata questa importantissima rivendicazione. "La prima e grande necessità del presente - recitava la risoluzione del Congresso operaio generale di Baltimora - per liberare il lavoro di questo Paese dalla schiavitù capitalistica, è la promulgazione di una legge per la quale otto ore devono costituire la giornata normale in tutti gli Stati dell'Unione americana".
Nel settembre dello stesso anno, a Ginevra, la Prima Internazionale dei partiti operai guidata da Marx ed Engels assunse tale rivendicazione: "Dichiariamo - si leggeva nel testo di una risoluzione - che la limitazione della giornata lavorativa è una condizione preliminare, senza la quale non possono non fallire tutti gli altri sforzi di emancipazione (...) Proponiamo otto ore di lavoro come limite legale della giornata lavorativa".
Proprio per rivendicare le otto ore, il sindacato americano, che allora si chiamava "Nobile ordine dei Cavalieri del lavoro", organizzò il 1° Maggio del 1886 a Chicago una grande manifestazione cui presero parte 50 mila operai. La repressione governativa e padronale fu brutale e selvaggia. Intervennero la polizia e l'esercito. Sulla folla dei manifestanti si abbatté una pioggia di proiettili e venne fatta esplodere una bomba in mezzo al corteo. Morti e feriti si contarono a decine. Centinaia furono gli arrestati. Fra questi gli organizzatori e i leader del movimento, processati sommariamente e condannati alla pena capitale per impiccagione.
Tre anni dopo, si tenne il 14 luglio 1889 a Parigi lo storico Congresso della fondazione della Seconda Internazionale di cui Engels sarà dirigente e capo riconosciuto; presenti 391 delegati in rappresentanza delle organizzazioni operaie di 21 paesi. In quella sede fu istituita la Giornata internazionale dei lavoratori, in ricordo dell'eccidio degli operai di Chicago. Nel documento intitolato "Manifestazione internazionale del Primo Maggio 1890" è scritto: "Sarà organizzata una grande manifestazione internazionale a data fissa, in modo che contemporaneamente in tutti i Paesi e in tutte le città, lo stesso giorno convenuto, ingiungano ai poteri pubblici di ridurre legalmente a otto ore la giornata lavorativa e di applicare le altre risoluzioni del Congresso internazionale di Parigi".
In ricordo dell'eccidio di Chicago
Cosicché nel 1° Maggio del 1890 si tennero grandi manifestazioni di lavoratori nelle più importanti città degli Usa e dell'Europa sfidando in parecchie circostanze le cariche e gli arresti della polizia, serrate padronali e licenziamenti. Per la prima volta nella storia, nello stesso momento, in tutti i Paesi dell'occidente, la classe operaia organizzata manifestava per la propria emancipazione. Un avvenimento di grandissimo rilievo che non a caso nella prefazione del "Manifesto del Partito Comunista", datata 1° Maggio, Engels sottolineava con queste parole: "Oggi, mentre scrivo queste righe, il proletariato d'Europa e d'America passano in rivista le sue forze mobilitate per la prima volta come un solo esercito, sotto una sola bandiera, per un solo fine prossimo: la giornata lavorativa normale di otto ore, proclamata già dal congresso di Ginevra dell'Internazionale del 1886, e di nuovo dal congresso operaio di Parigi del 1889, da introdursi per legge. E lo spettacolo di questa giornata aprirà gli occhi ai capitalisti e ai proprietari terrieri di tutti i Paesi sul fatto che oggi i proletari di tutti i Paesi si sono effettivamente uniti. Fosse Marx accanto a me, a vederlo con i suoi occhi!".
Accanto alla repressione antioperaia della borghesia e dei governi reazionari, si mobilitò anche la Chiesa cattolica che temeva la lotta di classe, il marxismo e le idee del socialismo. Papa Leone XIII, il 15 maggio 1891, pubblicò l'enciclica "Rerum Novarum" che conteneva la dottrina sociale dei cattolici. Un dottrina interclassista, che predicava l'inviolabilità della proprietà privata e la conciliazione degli interessi tra sfruttati e sfruttatori. In essa il papa sosteneva che la proprietà privata rappresentava un "diritto di natura"; condannava il socialismo perché sovvertitore dell'ordine esistente; dipingeva la lotta di classe come lo "sconcio maggiore", da rigettare e sostituire con la "concordia sociale". Dato che, aggiungeva, si "deve supportare la condizione propria dell'umanità: togliere dal mondo le disparità sociali è cosa impossibile". Di conseguenza anche lo sciopero veniva definito nella stessa enciclica "sconcio grave e frequente". L'orientamento della Chiesa consisteva insomma nel "conciliare e mettere d'accordo fra loro i ricchi e i proletari, ricordando agli uni e agli altri i mutui doveri". Un orientamento che, non c'è dubbio ha fatto scuola non solo per i cattolici ma anche per i riformisti e i rinnegati del comunismo di tutti i tempi, fino ai nostri giorni.
Il 1° Maggio in Italia
In Italia la prima celebrazione del 1° Maggio (1890) ebbe un gran successo e dimensioni diffuse e imponenti. Scioperi e manifestazioni si tennero nelle principali città del Paese: a Livorno, nonostante che il governo Crispi l'avesse vietata esplicitamente prendendo a pretesto lo scoppio sospetto di una bomba; a Napoli, Torino, Genova, Palermo, Pavia; inoltre a Roma e Milano con migliaia e migliaia di lavoratori in piazza.
Da allora, il 1° Maggio ha segnato momenti storici di lotta incancellabili: le proteste del 1914 contro la prima guerra mondiale imperialista; le lotte operaie del 1920; gli scioperi del 1943 contro la dittatura mussoliniana; le folle immense che riempirono le piazze nel 1945 all'indomani della Liberazione dal nazifascismo; la manifestazione di Portella della Ginestra del '47 dove fu compiuta la prima strage di Stato; le grandi lotte del '68 e degli anni '70.
Così è stato anche in tutto il mondo. Non solo nel nostro Paese, non solo negli Usa e in Europa, ma anche in Asia, America Latina, Africa, Australia.
Che il 1° Maggio abbia sempre avuto un'impronta proletaria, rivoluzionaria, anticapitalista, antifascista e antimperialista è dimostrato anche dal fatto che sia Hitler che Mussolini appena saliti al potere abolirono tassativamente la celebrazione della ricorrenza. Il duce sostituì il 1° Maggio, con la "festa del lavoro" in chiave corporativa fascista, da tenersi il 21 aprile ricorrenza del "natale di Roma".
(...)
Ecco cosa diceva Lenin in un celebre discorso del 1905: "Compagni operai! Il giorno della grande festa degli operai di tutto il mondo è venuto. Il Primo Maggio gli operai festeggiano il loro risveglio alla luce e alla conoscenza, la loro unione in un'alleanza fraterna per lottare contro ogni oppressione, contro ogni arbitrio, contro ogni sfruttamento per dare un assetto socialista alla società".
Dello stesso tenore l'intervento del 1912 di Stalin dal titolo "Evviva il Primo Maggio" dove tra l'altro affermava: "Ogni classe ha le sue feste preferite. I nobili istituirono le loro feste, in cui proclamavano il loro `diritto' di spogliare i contadini. I borghesi hanno le loro, in cui `giustificano' il `diritto' di sfruttare gli operai. Anche i preti hanno le loro feste, ed esaltano in esse gli ordinamenti esistenti, per cui i lavoratori muoiono nella miseria e i fannulloni guazzano nel lusso.
Anche gli operai - concludeva - devono avere la loro festa e in essa devono proclamare lavoro per tutti, libertà per tutti, eguaglianza per tutti gli uomini. Questa è la festa del Primo Maggio.
Così decisero gli operai fin dal 1889".
________________________________________
www.vallarsa.com > indice > Storia del Primo Maggio
“ Per i suoi principi, il comunismo è al di sopra del dissidio tra borghesia e proletariato, poiché lo considera giustificato nel suo significato storico soltanto per il presente, non per il futuro; esso intende appunto sopprimere tale dissidio. Riconosce perciò, finchè il dissidio permane, che il risentimento del proletariato contro i suoi oppressori è una necessità, che rappresenta la leva più importante del movimento operaio ai suoi inizi; ma va oltre tale risentimento, perché il comunismo è appunto una causa di tutta l’umanità, non soltanto degli operai.”
F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra.
“ Noi ci chiamiamo comunisti. Che cos’è un comunista? Comunista è una parola latina. Comunista deriva dalla parola comune. La società comunista significa: tutto in comune, la terra, le fabbriche, il lavoro.
Ecco cos’è il comunismo!”
Lenin, I compiti delle associazioni giovanili.
La classe lavoratrice, se s’impossessa di organizzazione e coscienza, può aspirare a un mondo nuovo.
Se lo vogliamo, possiamo sognare!
Possiamo vivere la vita e non sopravvivere ad essa, se la realtà economico-sociale fa proprio il concetto:” Da ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo le sue necessità”.
martedì 22 aprile 2025
Seneca, De vita beata.
Seneca, De vita beata 1 Tutti, o fratello Gallione, vogliono vivere felici, ma quando poi si tratta di riconoscere cos'è che rende felice la vita, ecco che ti vanno a tentoni; a tal punto è così poco facile nella vita raggiungere la felicità, che uno, quanto più affannosamente la cerca, tanto più se ne allontana, per poco che esca di strada; che se poi si va in senso opposto, allora più si corre veloci e più aumenta la distanza. Perciò dobbiamo prima chiederci che cosa desideriamo; poi considerare per quale strada possiamo pervenirvi nel tempo più breve, e renderci conto, durante il cammino, sempre che sia quello giusto, di quanto ogni giorno ne abbiamo compiuto e di quanto ci stiamo sempre più avvicinando a ciò verso cui il nostro naturale istinto ci spinge. Finché vaghiamo a caso, senza seguire una guida ma solo lo strepito e il clamore discorde di chi ci chiama da tutte le parti, la nostra vita si consumerà in un continuo andirivieni e sarà breve anche se noi ci daremo giorno e notte da fare con le migliori intenzioni. Si stabilisca dunque dove vogliamo arrivare e per quale strada, non senza una guida cui sia noto il cammino che abbiamo intrapreso, perché qui non si tratta delle solite circostanze cui si va incontro in tutti gli altri viaggi; in quelli, per non sbagliare, basta seguire la strada o chiedere alla gente del luogo, qui, invece, sono proprio le strade più frequentate e più conosciute a trarre maggiormente in inganno. Da nulla, quindi, bisogna guardarsi meglio che dal seguire, come fanno le pecore, il gregge che ci cammina davanti, dirigendoci non dove si deve andare, ma dove tutti vanno. E niente ci tira addosso i mali peggiori come l'andar dietro alle chiacchiere della gente, convinti che le cose accettate per generale consenso siano le migliori e che, dal momento che gli esempi che abbiamo sono molti, sia meglio vivere non secondo ragione, ma per imitazione. Di qui tutta questa caterva di uomini che crollano gli unì sugli altri. Quello che accade in una gran folla di persone, quando la gente si schiaccia a vicenda (nessuno cade, infatti, senza trascinare con sé qualche altro, e i primi provocano la caduta di quelli che stan dietro), capita nella vita: nessuno sbaglia solo per sé, ma è la causa e l'origine degli errori degli altri; infatti è uno sbaglio attaccarsi a quelli che ci precedono, e poiché ognuno preferisce credere, piuttosto che giudicare, mai si esprime un giudizio sulla vita, ma ci si limita a credere: così l'errore, passato di mano in mano, ci travolge e ci fa precipitare. Gli esempi altrui sono quelli che ci rovinano; noi invece staremo bene appena ci staccheremo dalla folla. Ora, in verità, il popolo, contro la ragione, si fa difensore del proprio male. E succede come nei comizi quando, mutato che sia il volubile favore popolare, a meravigliarsi dell'elezione dei pretori sono proprio quelli che li hanno eletti: approviamo e nello stesso tempo disapproviamo le medesime cose; è questo il risultato di ogni giudizio che si dà secondo quel che dicono i più. 2 Quando, invece, si discuterà sulla vita felice, non mi si potrà rispondere come si fa nelle votazioni: "Sembra che la maggioranza sia da questa parte"; infatti proprio per questo è il parere peggiore. Le cose di questo mondo non vanno poi così bene al punto che i pareri migliori sono di gradimento ai più. La folla è la prova del peggio. Cerchiamo dunque quello che sia meglio da farsi, non quello che è più scontato, e quello che ci può portare al possesso dell'eterna felicità e non quello che ha l'approvazione del volgo, che è un pessimo interprete della verità. E chiamo volgo sia quelli che indossano la clamide che quelli che portano la corona; io non guardo al colore delle vesti con cui la gente si copre; non credo ai miei occhi nel giudicare un uomo, ho una luce migliore e più sicura con cui distinguere il vero dal falso; è l'animo che deve trovare il bene dell'animo. Questo, se avrà mai l'agio di respirare e di ritirarsi in se stesso, oh, quasi torturandosi da solo, confesserà la verità e dirà: "Tutto quello che ho fatto finora vorrei che non fosse mai stato fatto, e quando ripenso a ciò che ho detto invidio quelli che sono muti; tutto quello che ho desiderato lo ritengo una maledìzione dei miei nemici, tutto quello che ho temuto, santi numi, quanto meglio era di quel che ho bramato! Con molti ho avuto a che dire e dopo l'odio mi sono riconciliato (se mai ci può essere riconciliazione tra malvagi), ma ancora non sono diventato amico di me stesso. Ho fatto ogni cosa per innalzarmi sulla moltitudine e mettermi in evidenza per qualche mio pregio: ma che altro ho ottenuto se non di espormi ai dardi e mostrare alla malvagità dove mordere? Tu li vedi questi che lodano l'eloquenza, inseguono le ricchezze, adulano chi ha credito, esaltano il potere? Tutti, o sono nemici o, il che è lo stesso, possono esserlo: quanto numerosa è la folla degli ammiratori, tanto lo è quella degli invidiosi. Perché allora non cerco qualcosa che io realmente senta come un bene e che non debba mostrare? Queste cose che noi stiamo a guardare ammirati e dinanzi alle quali noi ci fermiamo, e che gli uni additano stupiti agli altri, brillano di fuori, ma dentro sono ben misere". 3 Cerchiamo un bene che non sia appariscente, ma solido e duraturo, e che abbia una sua bellezza tutta intima: tiriamolo fuori. Non è lontano; si troverà, bisogna soltanto che tu sappia dove allungare la mano; ora, invece, come se fossimo al buio, passiamo davanti alle cose che ci sono vicine, inciampando magari proprio in quelle che desideriamo. Ma per non fartela molto lunga, lascerò stare le opinioni degli altri (e infatti sarebbe lungo elencarle e discuterle): tu ascolta la nostra. E quando dico nostra non è che resto legato a qualcuno dei grandi stoici : anche io ho il diritto di dire la mia. Pertanto con qualcuno sarò d'accordo, a qualche altro suggerirò di difendere solo in parte la sua idea, e può darsi che, invitato a parlare per ultimo, io non avrò nulla da ribattere alle cose dette da quelli che mi hanno preceduto e aggiunga: "In più, ecco quel che io penso". lntanto, d'accordo con tutti gli stoici , io seguo la natura; è saggezza, infatti, non allontanarsi da essa e conformarsi alla sua legge e al suo esempio. È dunque felice una vita che segue la propria natura, che tuttavia non può realizzarsi se prima di tutto l'animo non è sano, anzi nell'ininterrotto possesso della sua salute, e poi forte ed energico, infine assolutamente paziente, adattabile alle circostanze, sollecito ma senza angoscia del suo corpo e di ciò che gli concerne, attento a tutte quelle cose che ornano la vita, senza però ammirarne alcuna, disposto a usare i doni della natura ma senza esserne schiavo. Tu capisci, anche se io non lo dico, che ne deriva una ininterrotta tranquillità e libertà, una volta rimosse le cose che ci irritano o ci atterriscono; infatti, ai piaceri e alle seduzioni, che sono ben meschini e fragili e dannosi per il loro stesso profumo, subentra una gioia infinita inestinguibile, costante e, ancora, la pace, l’armonia de animo e la grandezza insieme alla bontà: infatti ogni cattiveria deriva dalla debolezza. 4 La nostra felicità può essere anche definita altrimenti, nel senso che lo stesso concetto può essere espresso con parole diverse. Allo stesso modo che un esercito si può schierare ora su un fronte molto ampio, ora restringersi in uno spazio più angusto o rientrare al centro curvando le ali o spiegarsi su una linea diritta, esso sempre, comunque sia disposto, ha la medesima forza e la medesima volontà di battersi per la stessa causa: così la definizione del sommo bene può essere ampliata ed estesa o condensata e ristretta. E, quindi, sarà lo stesso se dirò: "Il sommo bene è l'animo che ha in dispregio i doni della fortuna e si compiace della virtù" oppure: "È un'indomita forza d'animo, esperta delle cose, serena nell'azione, dotata di grande umanità e sollecitudine nei riguardi degli altri". Ma si può definire ancora dicendo felice quell'uomo per il quale il bene e il male non sono se non un animo buono o un animo cattivo, che pratica l'onestà, che si compiace della virtù, che non si lascia esaltare né abbattere dagli eventi fortuiti, che non conosce altro bene più grande di quello che lui stesso è in grado di procurarsi, per cui il piacere più vero sarà il disprezzo dei piaceri. E se vuoi dilungarti, si può ancora presentare lo stesso concetto sotto vari e diversi aspetti, lasciandone intatto il valore; che cosa, infatti, ci vieta di dire che la felicità consiste in un animo libero, elevato, intrepido, saldo, che lascia fuori di sé timore e cupidigia, che considera unico bene l'onestà e unico male la turpitudine e tutto il resto un vile coacervo di cose che non tolgono né aggiungono nulla a una vita felice e che possono venire o andarsene senza accrescere o diminuire il sommo bene? A un comportamento così saldo, si voglia o no, seguirà una ininterrotta serenità e una profonda letizia che nasce dall'intimo, perché si rallegra di quel che ha e non desidera nulla di più di quanto le è proprio Ebbene, tutto questo non ripaga ampiamente i meschini, futili, effimeri moti del nostro fragile corpo? Il giorno in cui si sarà schiavi del piacere lo si sarà anche del dolore; e tu vedi a quale spietata e funesta schiavitù dovrà soggiacere colui che sarà posseduto alternativamente dai piaceri e dai dolori, i più capricciosi e dispotici dei padroni; quindi bisogna trovare un varco verso la libertà. E nessun'altra cosa può darcela se non l'indifferenza nei riguardi della sorte: allora nascerà quel bene inestimabile, la pace della mente che si sente al sicuro, e l'elevazione spirituale, e, una volta scacciati i timori, dalla conoscenza del vero una gioia grande e immutabile e l'amabilità e la disponibilità dell'animo, che di queste cose godrà non in quanto beni, ma in quanto nate da un bene che è suo proprio. 5 Visto che ormai ho cominciato a trattare l'argomento ampiamente, possiamo ancora definire felice chi, grazie alla ragione, non ha né timori né passioni. In effetti, né i sassi provano paura e tristezza né certamente gli animali. Non per questo si potrebbe dire che sono felici, dal momento che manca loro la consapevolezza della felicità. Vanno messi sullo stesso piano gli uomini che la loro stupidità e l'incoscienza di sé relegano tra le bestie. Non c'è nessuna differenza tra questi e quelle: infatti, le bestie non sono dotate di ragione, questi uomini ne hanno poca e per di più si ritorce a loro danno. Ora, nessuno può dirsi felice se sta fuori dalla verità. Dunque è beata la vita che si basa costantemente su un giudizio retto e fermo. E' allora infatti che la mente è pura, libera da ogni male, capace di sottrarsi sia alle ferite sia alle graffiature, decisa a restare dove si trova e a difendere la sua posizione anche contro le avversità e le persecuzioni della sorte. Per quanto poi concerne il piacere, se pure si spande tutto intorno e si insinua in ogni fessura, ci blandisce l'anima con sue lusinghe e ci mette davanti una tentazione dopo l'altra per sedurci completamente o almeno in parte, c'è forse un uomo, cui resti un briciolo di umanità, che vorrà lasciarsi trastullare giorno e notte e vorrà trascurare l'animo per dedicarsi solo al corpo? 6 "Ma anche l'animo" mi puoi dire "avrà i suoi piaceri". E li abbia pure, e sieda giudice del lusso e dei piaceri, si sazi di tutto quello che di solito alletta i sensi, poi rivolga il pensiero al passato e, memore dei piaceri trascorsi, si rallegri per le gioie passate e pregusti quelle future, organizzi le sue speranze e, mentre il corpo è ancora appesantito dal lauto pasto di oggi, corra già col pensiero a quello di domani. Tutto questo mi parrà davvero meschino, dato che preferire il male al bene è pura follia. Nessuno può essere felice se non è sano di mente e certo non lo è chi desidera quello che gli nuocerà. E' felice dunque chi giudica rettamente. E' felice chi è contento della sua condizione, qualsiasi essa sia, e gode di quello che ha. E' felice chi affida alla ragione la condotta di tutta la sua vita. 7 Anche quelli che hanno detto che il sommo bene risiede nei piaceri vedono in quale posto vergognoso l'hanno relegato. Per questo affermano che il piacere non può essere separato dalla virtù e sostengono che non vive con onore chi non vive anche con piacere e che non vive con piacere chi non vive anche con onore. Non vedo come si possano accoppiare cose tanto diverse. Per quale ragione, vi chiedo, non si può separare il piacere dalla virtù? Forse perché il principio di ogni bene deriva dalla virtù e dalle sue radici nasce anche quello che voi amate e desiderate? Ma se piacere e virtù non fossero separati non esisterebbero cose piacevoli ma disonorevoli né cose onorevolissime ma difficili e che si raggiungono solo a prezzo di sofferenze. Aggiungi poi che il piacere si accompagna anche alla vita più vergognosa ma la virtù non ammette una vita disonesta, poi che alcuni sono infelici non perché privi di piaceri ma proprio a causa dei piaceri: cosa che non accadrebbe se il piacere fosse mescolato alla virtù, che spesso ne è priva ma mai ne ha bisogno. Perché volete mettere insieme cose diverse, anzi opposte? La virtù è qualcosa di alto, eccelso, regale, invincibile, infaticabile, invece il piacere è una cosa bassa, servile, debole, effimera e sta di casa nei bordelli e nelle taverne. La virtù la troverai nel tempio, nel foro, nella curia, a difesa delle mura, impolverata, accaldata e coi calli alle mani. Il piacere se ne sta quasi sempre nascosto, in cerca del buio intorno ai bagni e alle stufe, nei luoghi che hanno paura degli edili, fiacco, snervato, madido di vino e di profumi, pallido, imbellettato e imbalsamato come un cadavere. Il sommo bene è immortale, non conosce fine, non dà sazietà né rimorso perché la mente retta non cambia, non prova odio per se stessa, non modifica ciò che è già ottimo. Al contrario il piacere si esaurisce sul più bello, è limitato perciò sazia subito, viene a noia e dopo il primo slancio si affloscia. Non può essere stabile quello che per natura è in movimento. Allo stesso modo non può avere nessuna consistenza quello che va e viene in un baleno, destinato a finire nell'attimo stesso in cui si consuma: infatti tende al punto in cui cessa e quando comincia ha già presente la fine. 8 E poi perché mai il piacere esiste tanto tra i buoni che tra i malvagi e gli scellerati godono della loro infamia come gli onesti delle buone azioni? Per questo gli antichi ci hanno insegnato a seguire la vita migliore e non la più piacevole, in modo che il piacere sia compagno e non guida di una buona e retta volontà. E' la natura infatti che dobbiamo prendere come guida: a lei si rivolge la ragione, a lei chiede consiglio. Allora vivere felici e secondo natura è lo stesso. Ti spiego cosa intendo: se sapremo conservare con cura e serenità le doti fisiche e le inclinazioni naturali come beni di un solo giorno e fugaci, se non saremo loro schiavi né soggetti al potere delle cose esterne, se le occasionali gioie del corpo per noi avranno lo stesso posto che hanno le truppe ausiliarie e quelle armate alla leggera nell'esercito (devono servire, non comandare), allora di certo saranno utili alla mente. L'uomo non deve lasciarsi corrompere e dominare dagli eventi esterni e deve fare affidamento solamente su se stesso, sicuro di sé e pronto a tutto, insomma artefice della propria vita. La sua sicurezza non manchi di conoscenza e la conoscenza di costanza. Siano sempre saldi i suoi principi e le sue decisioni non subiscano modifiche. Si capisce, anche se non lo dico, che un uomo così sarà equilibrato e ordinato in ogni sua azione, magnifico ma non senza benevolenza. La ragione si interroghi stimolata dai sensi e li prenda come punto di partenza (del resto non ha altro da cui cominciare per prendere slancio verso la verità) ma poi torni in sé. Infatti anche l'universo che tutto abbraccia e Dio che governa il mondo tendono verso l'esterno, e tuttavia sempre rientrano in sé. Così deve fare la nostra mente: anche quando seguendo i sensi si spinge all'esterno deve avere il controllo su questi e su se stessa. In questo modo si realizzerà una forza unica e un'armonia tra le sue facoltà e nascerà quella razionalità sicura che è senza contraddizioni e che non ha incertezze sulle sue opinioni, conoscenze e convinzioni, quella razionalità che, quando si è organizzata ed è concorde in tutte le sue parti e, per così dire, agisce all'unisono, allora ha toccato il sommo bene. Perché non c'è più niente di riprovevole, niente di incerto, niente che la faccia inciampare e scivolare. Farà tutto secondo il proprio volere e non gli capiterà nulla che non abbia previsto. Tutte le sue azioni avranno buon esito in modo facile, agevole e senza ripensamenti: infatti, pigrizia e indecisione denotano contrasto e incoerenza. Perciò si può affermare senza esitazione che il sommo bene è l'armonia dell'animo, infatti le virtù dovranno stare dove c'è accordo e unità: sono i vizi che non vanno d'accordo. 9 "Ma anche tu" mi puoi dire "non coltivi la virtù per altro se non perché speri di ricavarne qualche piacere." Per prima cosa, anche se la virtù procurerà piacere, non è per questo che la si cerca. Infatti non procura piacere, ma "anche" piacere, e non si affatica per questo, ma la sua fatica, per quanto miri ad altro, ha come conseguenza anche questo. Come in un campo seminato a frumento nascono qua e là i fiori, ma non è per queste piantine (anche se sono belle da guardare) che è stata fatta tanta fatica (diverso era il proposito di chi seminava, il resto è venuto da sé), allo stesso modo il piacere non è il prezzo né la causa della virtù ma un suo accessorio e non piace perché diletta, ma, se piace, allora diletta. Il sommo bene consiste proprio nella convinzione e nel comportamento di una mente perfetta che, quando ha compiuto il suo corso e fissati i suoi limiti, ha pienamente realizzato il sommo bene e non desidera niente di più: fuori del tutto non esiste nulla, nulla oltre la fine. Per questo sbagli a chiedere il motivo che mi spinge ad aspirare alla virtù: cerchi qualcosa al di sopra di ciò che è sommo. Vuoi sapere cosa mi aspetto dalla virtù? La virtù. Infatti non ha nulla di più prezioso del suo stesso valore. Ti sembra poco? Se ti dico: "il sommo bene è la fermezza di un animo saldo e la sua previdenza e la sua elevatezza e il suo equilibrio e la sua libertà e la sua armonia e la sua dignità", pretendi ancora qualcosa di più grande cui riferire questi beni? Perché mi nomini il piacere? lo cerco il bene dell'uomo, non del ventre, che, del resto, è più capiente negli animali." 10 "Travisi" mi puoi dire "quello che dico. Infatti, io affermo che non si può vivere con piacere se non si vive anche con onore, e questo non può accadere né agli animali né a chi misura la felicità dal cibo. Affermo con molta chiarezza che la vita che definisco piacevole non può che essere associata alla virtù." Ma chi è che non sa che sono proprio i più stolti a essere stracolmi dei vostri piaceri, che la malvagità è ricca di soddisfazioni e che l'animo stesso suggerisce tanti tipi di piaceri vergognosi? Prima di tutto l'arroganza e l'eccesso di stima di sé, l'orgoglio che disprezza tutti e l'amore cieco e incauto per le sue cose, l'esaltazione per i più piccoli e futili motivi e poi la maldicenza e la superbia che si compiacciono di offendere, l'inerzia e l'indolenza dell'animo che, fiaccato dalla profusione dei godimenti, si addormenta su se stesso. Tutto questo la virtù lo spazza via, ci dà una tiratina di orecchie, fa una valutazione dei piaceri prima di accettarli e non tiene neanche in gran conto quelli che approva: infatti non li accetta per goderseli, al contrario, si rallegra di poterli moderare? Siccome però la moderazione limita i piaceri, è un'offesa per il sommo bene. Tu il piacere lo tieni stretto, io lo tengo a freno. Tu godi del piacere, io me ne servo. Tu credi che sia il sommo bene, io neanche un bene. Tu fai tutto per il piacere, io niente." 11 Quando dico che non faccio nulla per il piacere, mi riferisco a quel sapiente al quale soltanto concediamo il piacere. Ma non chiamo sapiente chi ha qualcosa sopra di sé, tantomeno il piacere. Perché, se è tutto preso da questo, come farà a resistere alla fatica, al pericolo, alla povertà e alle tante minacce che strepitano intorno alla vita umana? Come potrà sopportare la vista della morte, come i dolori, come il rumore del mondo e di nemici tanto violenti se cede davanti a un avversario così debole? "Farà tutto ciò che il piacere lo persuaderà a fare." Ma via, non vedi di quante cose lo persuaderà? "Non potrà persuaderlo di niente di turpe" puoi dire "perché è unito alla virtù." Ma ancora non vedi che razza di sommo bene è, se ha bisogno di un guardiano per essere un bene? Come potrà la virtù guidare il piacere mentre lo segue, se è ai subordinati che tocca seguire e ai comandanti guidare? Tu metti in coda chi comanda. Ha davvero un illustre incarico la virtù secondo voi: assaggiare i piaceri! Ma vedremo se la virtù, da loro così maltrattata, sarà ancora virtù, perché non può conservare il suo nome se ha abbandonato il suo posto. Intanto, per restare in argomento, ti mostrerò molti uomini assediati dai piaceri che la sorte ha coperto di tutti i suoi doni ma che, devi riconoscere, sono malvagi. Guarda Nomentano e Apicio che vanno a ricercare i beni (così li chiamano loro) della terra e del mare e fanno sfilare sulla mensa animali di ogni paese; li vedi che dal trono adorno di rose contemplano la loro tavola e si deliziano le orecchie al suono dei canti, gli occhi con spettacoli e il palato con ghiottonerie . Hanno tutto il corpo carezzato da stoffe morbide e delicate e, per evitare che le narici nel frattempo restino inerti, viene impregnato dei più svariati profumi il luogo dove la dissolutezza si celebra. Puoi dire che sono in mezzo ai piaceri, ma non ne ricaveranno un bene, perché non godono di un bene. 12 "Sarà male per loro" dirai "perché interverranno molte cose a sconvolgere l'animo e le opinioni contrastanti renderanno inquieta la inente." E' così, te lo concedo. Comunque, anche se stolti e volubili e soggetti al pentimento, proveranno grandi piaceri al punto che si deve ammettere che sono lontani allo stesso modo da qualsiasi inquietudine e serenità e, come succede ai più, sono preda di un'allegra follia e impazziscono dalle risate. Al contrario i piaceri dei saggi sono miti e pacati, quasi affievoliti, controllati e appena percettibili in quanto sopraggiungono senza che siano stati chiamati e, nonostante si presentino da sé, non sono accolti con onore né con particolare gioia da chi li riceve. Infatti il saggio li mescola con la vita come il gioco e il divertimento con le cose serie. La devono smettere, allora, di associare cose incompatibili e di confondere piacere e virtù. E' con questo vizio che lusingano gli uomini peggiori. Chi si è lasciato andare in mezzo ai piaceri e va ruttando sempre ubriaco, siccome sa di vivere col piacere, crede di vivere anche con la virtù: infatti sente dire che virtù e piacere non possono essere separati e così fregia i suoi vizi col nome di sapienza ed esibisce ciò che dovrebbe nascondere. Non è Epicuro che li spinge a essere dissoluti, sono loro che, dediti al vizio, nascondono in grembo alla filosofia la loro dissolutezza e si precipitano dove sentono che si loda il piacere. Non considerano però quanto sia sobrio e moderato il piacere di Epicuro (questo, per Ercole, è quello che penso io) ma accorrono al solo nome, sperando di trovare giustificazione e copertura per le loro dissolutezze. Così perdono anche l'unico bene che possedevano fra tanti mali: il pudore del peccato. Infatti lodano ciò per cui arrossivano e si vantano del vizio. E non può neppure risvegliarsi il pentimento, perché si è dato un nome nobile a una turpe ignavia. Per questo è pericolosa l'esaltazione del piacere, perché i nobili insegnamenti restano nascosti e le fonti di corruzione emergono. 13 Personalmente sono del parere (e lo esprimerò anche se i nostri compagni non sono d'accordo) che gli insegnamenti di Epicuro siano venerabili, retti, a ben guardare perfino austeri. Infatti il piacere è ridotto a una piccola ed esigua cosa e la stessa legge cui noi assoggettiamo la virtù, egli la impone al piacere: obbedire alla natura. E ciò che basta alla natura è certo poco per il vizio. E allora? Chiunque chiami felicità l'inoperosità oziosa e l'alternanza dei piaceri della gola e dei sensi, cerca un valido sostenitore della sua cattiva condotta e, quando si avvicina, attratto dal bel nome, non segue il piacere di cui ha sentito parlare ma quello che già portava con sé. Quando poi comincia a credere i suoi vizi conformi agli insegnamenti, indulge a questi non più timidamente e di nascosto, anzi, si lascia andare ormai senza pudore. Così non dirò, d'accordo con la maggior parte dei nostri, che la scuola di Epicuro è maestra di perdizione. Dico, piuttosto, che è screditata, che ha una cattiva fama e a torto. Chi può saperlo se non è un iniziato? E' anche il suo aspetto che dà luogo a dicerie e suscita speranze distorte. E' come quando un uomo forte si veste da donna: il tuo onore è intatto, la tua virilità è salva, il tuo corpo è libero da qualsiasi indecente tentazione, però hai in mano il tamburello. Occorre dunque scegliere un nome decoroso e un'insegna che di per sé sollevi l'animo, perché quella che c'è adesso attira i vizi. Chiunque si avvicina alla virtù si dimostra di indole nobile, chi invece segue il piacere è snervato, fiacco, degenerato, pronto ad abbandonarsi ai vizi più turpi se non gli si fa vedere una distinzione fra i piaceri in modo che sappia quali si mantengono nei limiti del bisogno naturale e quali sono sfrenati e senza fine, tanto più insaziabili quanto più si cerca di appagarli. 14 Allora sia la virtù a precedere, così ogni passo sarà sicuro. E poi il piacere nuoce se è troppo, al contrario la virtù non c'è pericolo che sia troppa perché contiene in sé la misura. Non può essere un bene quello che risente della sua stessa grandezza. Inoltre, a coloro che hanno ricevuto in sorte una natura razionale, cosa si puo offrire di meglio della ragione? Se poi questo abbinamento risulta gradito, che si vada cioè insieme verso la vita felice, dovrà essere la virtù a precedere e il piacere a seguirla e a starle vicino come l'ombra al corpo. Ma fare della virtù (signora per eccellenza) la serva del piacere è proprio di un animo incapace di grandezza. La virtù vada avanti per prima e sia lei a portare le insegne. Avremo comunque il piacere ma potremo dominarlo e farne uso moderato: qualche volta ci indurrà a cedere ma mai potrà costringerci. Quelli che invece hanno messo al primo posto il piacere restano privi di tutti e due: la virtù la perdono e il piacere non sono loro a tenerlo in pugno, al contrario è il piacere che tiene in pugno loro perché se manca li tormenta, se è in eccesso li soffoca. Infelici se li abbandona, ancor più infelici se li travolge. Come chi viene sorpreso dalla tempesta nel mar delle Sirti, o finisce come un relitto sulla riva o resta in balìa della violenza delle onde. E' questo il risultato della troppa intemperanza e dell'amore cieco per qualche cosa. Infatti chi preferisce il male al bene corre dei rischi se ottiene il suo scopo. Con fatica e non senza pericolo andiamo a caccia di fiere e, anche dopo averle catturate, dobbiamo stare molto attenti perché spesso sbranano i padroni; così sono i grandi piaceri: vanno a finire in grandi disgrazie e chi li possiede ne è posseduto. E poi, quanto più sono numerosi e grandi tanto più è meschino e servo di più padroni l'uomo che il volgo chiama felice. Mi sembra bello soffermarmi ancora su questa immagine di caccia: chi va a stanare belve e considera gran cosa "prendere le bestie coi lacci" e "accerchiare coi cani ampie radure" per seguirne le tracce, viene meno a impegni molto più importanti e lascia da parte molti doveri. Così chi insegue il piacere lo antepone a tutto il resto e trascura, per prima, la libertà facendola dipendere dalla gola e non si compra i piaceri, si vende ai piaceri. 15 "Tuttavia" dirai "che cosa impedisce di fondere insieme virtù e piacere in modo che il sommo bene risulti allo stesso tempo dignitoso e piacevole?" Ma una parte di dignità non può non essere degna e inoltre il sommo bene non sara più integro se vedrà al suo interno qualche elemento meno che ottimo. Neppure la gioia che deriva dalla virtù, per quanto sia un bene, fa parte del bene assoluto e così la letizia e la tranquillità, anche se nascono dalle più nobili cause. Infatti è certo che questi sono beni ma non realizzano il sommo bene, ne sono solo la conseguenza. Chi mischia la virtù col piacere anche se non alla pari, indebolisce il vigore che c'è in un bene con la fragilità di un altro e manda sotto il giogo la libertà, che è imbattibile se non conosce qualcosa di più prezioso di se stessa. Infatti si comincia ad aver bisogno del favore della sorte e questa è la peggiore schiavitù. Ne consegue una vita piena di ansie, sospetti e trepidazioni, timorosa degli eventi e condizionata dalle circostanze. Tu non offri alla virtù una base solida e stabile, anzi, la costringi a una condizione precaria. E cosa c'è di più precario dell'attesa di eventi accidentali e della mutevolezza delle condizioni fisiche e di quello che sul corpo influisce? Come è possibile che quest'uomo possa obbedire a Dio, accettare di buon animo ogni evenienza, non lamentarsi del suo destino e trovare il lato positivo in ogni situazione se anche il più piccolo stimolo piacevole e doloroso può sconvolgerlo? E non può essere neppure un buon difensore o salvatore della patria né proteggere gli amici se tende al piacere. Dunque, il sommo bene deve salire fino a un luogo da cui nessuna forza possa farlo precipitare e a cui non abbiano accesso dolore speranza e timore né alcuna altra emozione che possa intaccare il valore del sommo bene. Ma soltanto la virtù può salire fin là. Dovrà vincere questa salita col suo passo, terrà duro e sopporterà ogni evento non con rassegnazione ma di buon grado, ben sapendo che le avversità della vita sono una legge di natura e, da buon soldato, sopporterà le ferite, conterà le cicatrici e, anche in punto di morte, trafitto dalle frecce, amerà il comandante per cui è caduto. Avrà sempre in mente l'antica massima: segui Dio. Invece chi si lamenta, piange e si dispera è costretto a forza a eseguire gli ordini ed è obbligato lo stesso a obbedire, anche controvoglia. Ma che sciocchezza è questa di farsi trascinare invece di seguire? Così, per Ercole, è stupidità e incoscienza della propria condizione affliggerti se qualcosa ti manca o ti è difficile da sopportare e stupirsi o indignarsi di quanto capita ai buoni come ai malvagi: intendo malattie, lutti, infermità e tutte le altre traversìe della vita umana. Affrontiamo dunque, con grande forza d'animo, tutto quello che per legge universale dobbiamo sopportare. E' un dovere che siamo tenuti ad assolvere: accettare le sofferenze umane e non lasciarsi sconvolgere da quello che non è in nostro potere evitare. Siamo nati sotto una monarchia: obbedire a Dio è l'unica libertà possibile. 16 Dunque la vera felicità risiede nella virtù. Ma quali consigli ti darà questa virtù? Di considerare bene solo ciò che è legato alla virtù e male ciò che è legato alla malvagità. Poi di restare ben saldo di fronte al male e al seguito del bene in modo da imitare Dio nei limiti del possibile. E che premio ti promette per questa impresa? Privilegi grandi e degni degli dei: non sarai costretto a nulla, non avrai bisogno di nulla, sarai libero sicuro e inviolabile, non tenterai niente invano e non sarai mai ostacolato, tutto andrà secondo il tuo desiderio, nulla ti sarà avverso né contrario al tuo intento e alla tua volontà. "Allora basta la virtù per essere felici?" Perfetta e divina com'è, perché non dovrebbe essere sufficiente, anzi più che sufficiente? Cosa può mancare infatti a chi è al di là di ogni desiderio? Di cosa può aver bisogno dall'esterno chi ha raccolto tutto in se stesso? Ma chi ancora non ha raggiunto la virtù, anche se ha fatto molta strada, ha bisogno che la sorte gli sia benevola finché si dibatte in mezzo ai difetti umani e non riesce a sciogliere questo nodo e ogni vincolo mortale. Allora che differenza c'è? Che questi sono ben bene legati stretti e incatenati e invece a chi ha cercato di arrivare più in alto si è allentata la catena e anche se non è ancora libero è come se già lo fosse. 17 A questo punto qualcuno di quelli che abbaiano contro la filosofia ripeterà il solito ritornello: "Perché c'è più coraggio nei tuoi discorsi che nella tua vita? Perché abbassi la voce di fronte ai superiori, consideri il denaro una necessità, ti lasci abbattere dalle sconfitte, piangi se ti muore la moglie o un amico, ci tieni al tuo buon nome e sei sensibile alle insinuazioni? Perché le tue terre producono più di quanto richiede la tua necessità? Perché i tuoi pasti non sono coerenti con le tue teorie? Perché hai suppellettili così raffinate? Perché a casa tua si beve vino più vecchio di te? Perché ti sei fatto costruire un'uccelliera? Perché hai fatto piantare alberi che daranno solo ombra? Perché tua moglie porta appeso alle orecchie un valore pari a tutto il patrimonio di un ricco casato? Perché i tuoi giovani schiavi indossano vesti tanto eleganti? Perché a casa tua servire a tavola è un'arte e non si dispone l'argenteria come capita, ma con estrema perizia, e c'è addirittura un esperto per il taglio delle vivande?". Se vuoi puoi anche proseguire: "Perché hai proprietà oltre mare e non sai neppure quante? Ma che vergogna: o sei così trasandato da non conoscere i pochi schiavi che hai, o sei talmente ricco che ne hai più di quanti puoi ricordare". Più tardi rincarerò da me la dose e farò un elenco dei miei difetti che neanche immagini; per ora ti risponderò così: non sono saggio e (così mi dò in pasto da solo alla tua ostilità) mai lo sarò. E' questo che puoi pretendere da me: non che io sia all'altezza dei migliori, ma migliore dei peggiori. Mi basta togliere un po' di terreno ai miei vizi tutti i giorni e castigare i miei difetti. Non sono guarito e non guarirò. Infatti non mi preparo medicamenti per la gotta ma solo calmanti, ben contento se gli attacchi sono meno frequenti e i dolori meno atroci. Certo, in confronto alla vostra andatura, anche se debilitato, sono un velocista. Ma non parlo per me che sono in un mare di vizi, parlo per chi ha già raggiunto qualche risultato. 18 Dirai: "Parli in un modo e agisci in un altro". Questo, lingue biforcute velenose e ostili alle persone più degne, è stato contestato anche a Platone, a Epicuro e a Zenone. Dicevano tutti di vivere non come loro vivevano, ma come loro stessi avrebbero dovuto. Parlo della virtù, non di me, e quando condanno i vizi, per primi condanno i miei. Appena potrò, vivrò come si deve. Non sarà la vostra velenosa malignità a dissuadermi dalle più alte ambizioni, né il veleno che sputate addosso agli altri, e che però uccide voi, mi impedirà di continuare a lodare non la vita che conduco ma quella che so bene dovrei condurre, a onorare la virtù e a seguirla anche arrancando da lontano. Forse dovrei sperare che scampi qualcosa a quella cattiveria che non ha risparmiato neanche Rutilio e Catone? Ma vale proprio la pena di non sembrare troppo ricco a chi pensa che Demetrio, il cinico, non è povero abbastanza? Anche di un uomo così risoluto nella lotta contro tutte le esigenze naturali e più povero di tutti gli altri cinici, perché non solo si privava di possedere ma persino di chiedere, dicono che non è povero abbastanza. Lo vedi da te: non ha professato la teoria della virtù ma della povertà. 19 Di Diodoro, il filosofo epicureo che si è suicidato qualche giorno fa, dicono che a tagliarsi la gola non ha rispettato gli insegnamenti di Epicuro : c'è chi dice il suo gesto folle chi sconsiderato. Intanto lui, beato, con la coscienza tranquilla ha lasciato con la vita anche la sua testimonianza e ha lodato la quiete di tutta un'esistenza trascorsa ormeggiato nel porto. Ha pronunciato parole che avete ascoltato malvolentieri, quasi vi si fosse chiesto di fare altrettanto: "Ho vissuto, ho compiuto il cammino che la sorte mi ha dato". State a discutere della vita di uno, della morte di un altro e quando sentite nominare qualcuno che ha meritato di essere riconosciuto grande, abbaiate come cagnolini che sentono avvicinarsi qualche estraneo. La verità è che vi fa comodo se non ne risulta buono neanche uno, perché vi sembra che la virtù degli altri rinfacci delle colpe a voi. Per invidia paragonate la loro grandezza alle vostre meschinità e non capite quanto vi danneggia la vostra insolenza. Ora, se gli uomini che aspirano alla virtù sono avari, dissoluti e ambiziosi, che cosa siete mai voi che la virtù non sopportate neppure di sentirla nominare? Sostenete che nessuno di loro fa quello che dice e non vive in conformità con le sue parole. Non è strano: le loro sono parole eroiche, grandiose e superiori a tutte le tempeste umane. Anche se non riescono a staccarsi dalle croci su cui ognuno di voi conficca i suoi chiodi, tuttavia, quando sono condotti al supplizio, pendono ciascuno da un solo palo. Invece questi che badano soltanto a se stessi, hanno una croce per ogni passione. Ma i maldicenti si fanno belli a offendere gli altri. Potrei credere che non abbiano questo difetto se non ci fosse chi sputa sul pubblico anche dalla forca. 20 "I filosofi non fanno quello che dicono." E invece fanno già molto a dire quello che dicono e che pensano onestamente. Se poi il comportamento fosse all'altezza delle parole, chi sarebbe più felice di loro? Intanto non sono da disprezzare le parole buone e l'animo colmo di buone intenzioni. Coltivare benefiche inclinazioni è coniunque lodevole al di là del risultato. Niente di strano se non arriva in cima chi ha tentato una scalata difficile. Se sei un uomo guarda con rispetto a chi si cimenta in grandi prove, anche se fallisce. Un animo nobile, senza contare sulle proprie forze, ma su quelle che la sua natura gli può fornire, cerca di mirare in alto e di concepire progetti irrealizzabilí per chi non abbia un animo davvero grande. Chi si è proposto questo: "guarderò in faccia la morte con lo stesso stato d'animo che ho quando ne sento parlare, sopporterò qualsiasi fatica con forza d'animo, disprezzerò le ricchezze, ci siano o non ci siano e non sarò più triste o più superbo a seconda che brillino intorno a me o altrove. Tratterò con indifferenza la sorte favorevole e quella avversa. Guarderò tutte le terre come se fossero mie, le mie come se fossero di tutti. Vivrò nella convinzione di essere nato per gli altri e ringrazierò la natura per questo: come avrebbe potuto agire meglio nel mio interesse? Ha dato me a tutti gli altri e tutti gli altri a me solo. Se poi avrò qualcosa non sarò spilorcio ma neanche scialacquatore. Crederò veramente mio quello che ho fatto bene a donare e non valuterò i benefici dal numero o dal peso ma dalla stima che avrò per chi li riceve: non sarà mai troppo quello che potrò dare a chi lo merita. Farò tutto secondo coscienza senza basarmi sull'opinione degli altri e, anche se sarò solo io a sapere quello che faccio, mi comporterò come se tutti mi potessero vedere. Mangerò e berrò soltanto per soddisfare i miei bisogni naturali e non per riempirmi e svuotarmi lo stomaco. Sarò affabile con gli amici e mite e indulgente con i nemici. Cercherò di prevenire ogni richiesta dignitosa e di anticipare ogni preghiera. Considererò il mondo la mia patria e gli dei la mia guida, loro che sempre sono presenti e giudicano ogni mio gesto e ogni mia parola. E quando la natura verrà a riprendersi la mia anima o sarà la ragione a decidere di lasciarla libera, me ne andrò potendo dire di aver sempre amato la rettitudine morale e i nobili intenti senza aver mai limitato la libertà di nessuno e tanto meno la mia". Chi si prefiggerà questi obiettivi, desidererà di raggiungerli e farà tutto il possibile, percorrerà la strada che porta al cielo e, anche se non conquisterà la vetta, tuttavia è caduto nel mezzo di una grande impresa. Ma voi che odiate la virtù e chi la coltiva non fate davvero niente di nuovo. Anche chi ha problemi agli occhi non sopporta la luce e gli animali notturni evitano lo splendore del giorno. Non appena sorge il sole corrono a nascondersi nelle loro tane e, per timore della luce, si rifugiano in qualche fessura. Lagnatevi, sprecate il fiato a insultare i buoni, spalancate la bocca, mordete: vi spezzerete i denti senza neppure lasciare il segno. 21 Com'è che quel tale è dedito alla filosofia eppure è tanto ricco? Perché dice che si devono disprezzare i beni materiali, però ne ha, giudica spregevole la vita, però è vivo, spregevole la salute, però cerca di preservarla con ogni riguardo e la desidera perfetta? E perché, ancora, giudica l'esilio una parola senza senso e dice: "Che male c'è a cambiare paese?" però, se gli riesce, invecchia in patria?" E ancora, sostiene che non c'è nessuna differenza tra una vita lunga e una breve, però, se niente glielo impedisce, cerca di vivere il più a lungo possibile e di mantenersi vigoroso e sereno durante la lunga vecchiaia?Afferma che tutte queste sono cose spregevoli, non nel senso che non si debbano possedere ma possedere senza ansie, non le respinge ma, se svaniscono, va avanti tranquillo. D'altra parte la sorte dove meglio metterà al sicuro le ricchezze se non dove potrà andarle a riprendere senza che chi le restituisce si lamenti? Marco Catone, anche se lodava Curio e Coruncanio e i bei tempi in cui possedere un po' d'argenteria era un reato punito dai censori, aveva di suo quattro milioni di sesterzi: senza dubbio meno di Crasso ma più di Catone il censore. Per fare un paragone, aveva superato il bisnonno più di quanto Crasso avesse superato lui e, se anche gli fosse capitato di entrare in possesso di altri beni, certo non li avrebbe rifiutati. Infatti il saggio non crede di non meritare i doni della sorte: non ama le ricchezze ma le accetta volentieri, le lascia entrare nella sua casa non nella sua anima e non le respinge, anzi, le tiene e fa in modo che offrano maggiori occasioni alla sua virtù. 22 Infatti non c'è dubbio che si presentino al saggio maggiori occasioni di sviluppare le sue attitudini nella ricchezza che nella povertà. Nella povertà l'unica possibile virtù sta nel non farsi piegare o schiacciare, nella ricchezza, invece, hanno campo libero temperanza, generosità, accortezza, ordine e magnificenza. Il saggio non avrà poca stima di sé se sarà di bassa statura, tuttavia desidererà essere alto. Anche se gracile e privo di un occhio manterrà la consapevolezza del suo valore, preferirà tuttavia essere robusto, senza però dimenticare che i valori che ha in sé sono ben altri. Sopporterà la malattia ma si augurerà la salute. Infatti ci sono molte cose che, anche se nel complesso risultano di poco conto e possono venire a mancare senza danno per il bene principale, tuttavia procurano qualche vantaggio alla serenità duratura che deriva dalla virtù. Così le ricchezze sono gradite al saggio: come un vento favorevole ai naviganti, come una giornata di sole nel freddo dell'inverno. E poi nessuno tra i sapienti (intendo fra i nostri per cui la virtù è l'unico vero bene) sostiene che anche questi vantaggi, che definiamo indifferenti, non abbiano un loro proprio valore e che alcuni non siano preferibili ad altri: li consideriamo di maggiore o minore pregio. Non ti ingannare: la ricchezza è tra i vantaggi più desiderabili. "Allora" dirai "perché mi deridi se per te ha la stessa importanza che per me?". Vuoi vedere che non è proprio la stessa importanza? Se le mie ricchezze dovessero svanire, non mi porteranno via altro che loro stesse, tu, invece, resterai stordito e ti sentirai privato di te stesso, se ti dovessero abbandonare: per me le ricchezze hanno una certa importanza, per te una grandissima. Infine le ricchezze appartengono a me, tu, al contrario, appartieni a loro. 23 Smettila, dunque, di vietare ai filosofi di possedere denaro: nessuno ha condannato la saggezza alla povertà. Il filosofo potrà possedere grandi ricchezze purché non siano rubate, macchiate di sangue, frutto di ingiustizie o di sporchi guadagni. Le uscite siano pulite come le entrate in modo che nessuno, a parte i maligni, si potrà lamentare. Accumulane quante ne vuoi: sono pulite perché non ce ne sarà nessuna che qualcuno potrebbe dir sua, anche se ce ne saranno molte che chiunque vorrebbe dir sue. Di certo il saggio non respingerà il favore della sorte e non si vanterà né si vergognerà di un patrimonio onestamente acquisito. E avrà anche motivo di vantarsi se, aperta la sua casa e invitata tutta la città a vedere i suoi beni, potrà dire: "se uno di voi riconosce qualcosa di suo se lo porti via". O uomo davvero grande e giustamente ricco, se dopo questo invito avrà quello che aveva prima! Voglio dire che, se in piena tranquillità e senza preoccupazioni avrà consentito al popolo di indagarlo e se nessuno avrà trovato nulla da rivendicare, allora potrà essere ricco con orgoglio e a testa alta. Il saggio non lascerà entrare in casa sua danaro sospetto ma, con lo stesso criterio, non rifiuterà di certo ricchezze, anche grandi, dono della sorte e frutto della virtù. Perché poi dovrebbe privarle di una degna sistemazione? Vengano pure: saranno ben accette. Non le ostenterà ma neanche le terrà nascoste: in un caso è da sciocchi, nell'altro da meschini e pusillanimi che credono di avere per le mani un gran bene però, come ho già detto, non le metterà alla porta. Cosa dovrebbe dire: "Siete inutili" o forse "io non sono capace di amministrare le ricchezze?". Come, anche potendo fare un percorso a piedi, preferirà farlo su un mezzo, così non vorrà certo essere povero se potrà essere ricco. Ma terrà le sue ricchezze consapevole che sono leggere e volatili e non lascerà che diventino un peso né per gli altri né per sé. Sarà generoso, non drizzate le orecchie non stendete la mano, sarà generoso con chi ne è degno o con chi ha la possibilità di diventarlo, scegliendo con la massima cura i più meritevoli perché sa che bisogna render conto sia delle uscite che delle entrate. Sarà generoso nelle giuste occasioni, infatti un dono sbagliato è un inutile spreco, avrà la manica larga non le mani bucate da cui esce molto ma niente va perso. 24 Sbaglia chi pensa che donare sia facile: tutt'altro, presenta grandi difficoltà se lo si fa in modo sensato e non a caso o per istinto. Con qualcuno vado a credito, con qualcun altro mi sdebito, a questo vengo incontro,di questo, invece, ho compassione. Do un aiuto a quell'altro che non merita che la fame gli impedisca di pensare, a questo invece non darò proprio niente anche se ne avrebbe bisogno perché, per quanto possa dargli, gli mancherà sempre qualcosa. Con qualcuno poi mi limiterò a offrire, altri insisterò perché accettino. Non posso dare con leggerezza perché quando dono faccio il mio migliore investimento. Dirai: "Allora dai per ricevere?". "No, per non perdere": si deve fare in modo che un dono non debba essere rinfacciato ma possa essere restituito. Il favore va trattato come un tesoro che si tiene gelosamente nascosto e non si tira fuori se non è proprio necessario. E poi anche la casa stessa dell'uomo ricco offre infinite occasioni di fare del bene. Chi dice che bisogna essere generosi solo con la gente di rango? La natura mi impone di fare del bene agli uomini, schiavi o liberi che siano, nati liberi o no. Che differenza fa se è una libertà legale o concessa per amicizia? Dove c'è un uomo c'è anche la possibilità di fare del bene. Si possono fare elargizioni in danaro anche tra le mura di casa ed esercitare la liberalità, che non si chiama così perché è rivolta a uomini liberi ma perché scaturisce da un animo libero. L'uomo saggio non rivolge mai la sua generosità verso chi non la merita, ma la sua fonte è inesauribile ogni volta che incontra qualcuno che invece la merita. Pertanto, non è possibile che fraintendiate le parole rette forti e coraggiose di colui che persegue la saggezza. Ma state bene attenti: una cosa è cercare di diventare saggi e un'altra esserlo. Quello dirà: "Parlo bene ma mi dibatto ancora tra moltissime difficoltà. Non mi puoi mettere a confronto con i miei princìpi quando io faccio del mio meglio, cerco di migliorare e aspiro a un ideale davvero grande. Solo quando avrò fatto i progressi che ho intenzione di fare potrai confrontare quello che dico con quello che faccio". Chi invece sarà arrivato alla perfezione parlerà diversamente: "Prima di tutto non ti puoi permettere di dar giudizi su chi è migliore di te". Finisco per essere malvisto dai malvagi e già questa è la prova che sono nel giusto. Ma per darti una spiegazione, che non si nega a nessuno, ascolta quello che sto per dirti e che valore do io a ciascuna cosa. Dico che le ricchezze non sono beni: se lo fossero farebbero diventare buoni. Ora, mi rifiuto di definire bene ciò che si può trovare anche tra persone malvagie. D'altra parte sono convinto che possederle sia lecito, utile e che migliori la qualità della vita. 25 Allora ascoltate perché non includo le ricchezze fra i beni e perché il mio comportamento nei riguardi di queste è così diverso dal vostro (ormai che si è convenuto che possederle è lecito). Mettimi in una casa che più ricca non si può, dove non si fa differenza tra oro e argento: non penserò per questo di valere di più. Infatti le ricchezze stanno intorno a me, non sono parte di me. Ora cambiami di posto e sbattimi sul ponte Sublicio in mezzo ai poveri: non penserò per questo di valere di meno solo perché sto in mezzo a quelli che chiedono l'elemosina. E allora, cosa cambia? Non hanno un tozzo di pane ma non gli è tolto di poter vivere. In conclusione, preferisco una casa splendida a un ponte. Circondami di mobili pregiati, di raffinate suppellettili, non mi crederò più fortunato perché posso adagiarmi sul morbido o perché faccio sedere i miei convitati sulla porpora. Cambiami il materasso: non sarò più infelice se potrò distendere le membra stanche sopra un po' di fieno o se potrò dormire su un pagliericcio da circo che magari perde l'imbottitura dai rammendi della tela vecchia. Anche qui, preferisco esprimere il mio parere calzato e vestito. Supponiamo che tutti i miei giorni si susseguano secondo le mie speranze e che nuove gioie subentrino sempre alle precedenti, non per questo mi compiacerò di me stesso. Ribalta ora questa favorevole situazione e il mio animo sia colpito da ogni parte da disgrazie, lutti e avversità di ogni genere. Ogni istante sia nuovo motivo di pianto: non per questo penserò di essere infelice, pur in mezzo ad avvenimenti così infelici, non maledirò neanche un giorno della mia vita. Ho predisposto il mio animo in anticipo in modo che anche il giorno più tetro non riuscisse a turbarlo. Comunque preferisco dover moderare il piacere che lenire il dolore. Dirà Socrate: "Immaginami vincitore di tutto il mondo mentre l'elegante carro di Libero mi porta in trionfo dall'Oriente fino a Tebe, immagina tutti i re che mi consultano: non dimenticherò che sono un uomo proprio mentre mi osannano come un dio. Di colpo, da queste altezze, fammi precipitare nella più profonda rovina: caricami su un carretto come ornamento per la parata di un vincitore fiero e superbo. Non mi riterrò più umile dietro al carro di un altro di quando stavo in piedi sul mio. Però preferisco vincere che esser fatto prigioniero. Disprezzerò la sorte con tutti i suoi domini ma, se mi sarà permesso di scegliere, prenderò il meglio. Qualsiasi cosa mi capiterà sarà un bene per me, ma sarà meglio se si tratterà di eventi lieti e piacevoli e che procurino il minor numero di disagi. Certo non crederai esista una virtù senza fatica, solo che con alcune virtù servono sproni, con altre freni. Nello stesso modo c'è bisogno in discesa di trattenere il corpo, di spingerlo in salita. Non c'è dubbio che costanza, tenacia e perseveranza comportino fatica, sforzo e resistenza come qualsiasi altra virtù che si opponga alle avversità e tenti di piegare la sorte. Ed è altrettanto chiaro che liberalità, temperanza e mansuetudine vanno in discesa. Qui dobbiamo frenare l'animo perché non scivoli, là dobbiamo spingerlo e incitarlo con forza. Dunque per la povertà dovremo utilizzare le virtù più forti nella lotta, per le ricchezze quelle più prudenti, che procedono con cautela e che non perdono l'equilibrio. Stabilita questa differenza, preferisco avere a che fare con quelle che possono essere coltivate in tranquillità invece che con quelle che richiedono sudore e sangue. Insomma (dice il saggio) non sono io che parlo in un modo e vivo in un altro, siete voi che capite una cosa per un'altra: sentite solo il suono delle parole senza comprenderne il senso". 26 "Che differenza c'è, allora, tra me sciocco e te saggio, se tutti e due miriamo al possesso?" Enorme: infatti le ricchezze sono al servizio del saggio e al comando dello sciocco. Il saggio non permette niente alle ricchezze, quelle a voi tutto. Voi, come se qualcuno ve ne avesse assicurato il possesso eterno, ci fate l'abitudine e vi ci attaccate, invece il saggio pensa alla povertà proprio quando si trova in mezzo alla ricchezza. Mai un generale si fida della pace al punto da non tenersi pronto per una guerra che, anche se non si combatte ancora, è già dichiarata. Basta a farvi diventare arroganti una bella casa, come se non potesse andare a fuoco o crollare. Le ricchezze vi inebriano perché pensate possano superare qualsiasi ostacolo e che la sorte non abbia armi per annientarle, così invincibili come sembrano a voi. Spensierati, ve la spassate tra le ricchezze senza nessun presentimento del pericolo, come fanno di solito i barbari assediati che, non conoscendo l'uso delle macchine da guerra, stanno a guardare indifferenti l'affaccendarsi degli assedianti e non capiscono a cosa servono quelle costruzioni realizzate a distanza. Così succede a voi: vi infiacchite in mezzo ai vostri averi e non pensate a quante sventure incombono da ogni parte e stanno già per strapparvi la preziosa preda. Chiunque potrà portare via le ricchezze all'uomo saggio, ma non togliergli i suoi veri beni, perché egli vive lieto nel presente e incurante del futuro. Dice Socrate o un altro di pari autorevolezza, se si parla di vicende umane: "Ho una profonda convinzione: il mio comportamento non può essere condizionato dai vostri giudizi. Rivolgetemi i soliti attacchi, non penserò che mi insultate ma che piagnucolate come lattanti". Parlerà così chi ha raggiunto la saggezza perché, libero da vizi, si sente spinto a rimproverare gli altri, e non per astio, ma anzi a fin di bene. E aggiungerà: "Le vostre critiche mi colpiscono, ma non per me, per voi, perché se continuate a imprecare contro la virtù e a perseguitarla allora non vi rimane nessuna speranza. A me non fate nessun affronto. Infatti neppure chi distrugge gli altari fa torto agli dèi, ma sono chiare le sue cattive intenzioni anche se non può nuocere. Tollero le vostre idiozie come Giove Ottimo Massimo le sciocchezze dei poeti: uno gli mette le ali, un altro le corna, un altro ancora lo rappresenta come un adultero che va in giro di notte, uno implacabile con gli dèi, un altro iniquo con gli uomini e ancora uno sequestratore di uomini liberi e perfino di parenti, un altro parricida e usurpatore del regno paterno. A credere tali gli dèi, non hanno fatto altro che togliere agli uomini il pudore del peccato." Ma anche se neppure mi scalfite lo dico per voi: guardate con ammirazione alla virtù, fidatevi di quelli che, dopo averla perseguita a lungo, affermano che si tratta di qualcosa di grande e che diventa ogni giorno più grande. Anzi veneratela come gli dèi e venerate i suoi maestri come i sommi sacerdoti e tutte le volte che saranno nominati i testi sacri acconsentite in silenzio. Questo modo di dire non va inteso (come credono i più) nel senso di acconsentire davvero, semplicemente impone il silenzio in modo che il rito si possa celebrare secondo le regole e senza schiamazzi oltraggiosi. Infatti è davvero necessario che vi sia imposto, così, quando l'oracolo darà qualche responso, potrete ascoltare con attenzione e a bocca chiusa. Quando qualcuno agita il sistro e racconta frottole su commissione, quando qualche impostore finge di ferirsi le membra e si insanguina appena appena braccia e spalle, oppure quando una donna si trascina per strada sulle ginocchia e urla o un vecchio bardato di lino e di alloro, con in mano una lucerna, in pieno giorno, grida che qualche dio è adirato, voi accorrete e siete pronti a giurare che è ispirato dagli dèi, alimentando così uno lo sbalordimento dell'altro. 27 Ed ecco Socrate che dal carcere, purificato dalla sua presenza e reso più onorabile di qualsiasi curia, proclama: "Che follia è questa, che istinto avverso agli uomini e agli dèi, di disonorare la virtù e con voci maligne profanare cose sacre? Se potete, lodate le persone virtuose, se non potete, astenetevi. Se però vi piace far mostra della vostra vergognosa insolenza, insultatevi fra voi. Quando vi infuriate contro il cielo, non dico che commettete un'empietà, ma che sprecate fatica. Un tempo ho dato modo ad Aristofane di prendersi gioco di me. Tutta quella banda di poeti comici mi ha scagliato contro le sue battute velenose: ma la mia virtù ha acquistato splendore proprio grazie ai colpi che hanno cercato di ferirla. Infatti le ha giovato essere messa in mostra e alla prova e nessuno ne ha capito il valore come chi, non dandole tregua, ne ha sperimentato la forza. Nessuno come i tagliapietre conosce la durezza della roccia. Dimostro di essere come uno scoglio solo in mezzo a una secca che le onde flagellano continuamente da ogni parte, ma neanche secoli di ripetuti assalti possono smuoverlo o scalfirlo. Assalitemi dunque, attaccatemi: vi vincerò sopportandovi. Chi si scaglia contro uno scoglio irremovibile e insuperabile rivolge la forza a suo danno. Perciò cercate un bersaglio molle e cedevole dove conficcare le vostre frecce. Ma voi avrete il tempo di andare a scovare i difetti degli altri e di dar giudizi su chiunque: "Perché questo filosofo ha una casa così grande? Perché questo offre pranzi così eleganti?". State a guardare i brufoli degli altri e voi siete pieni di piaghe. E' come se uno divorato da una scabbia tremenda deridesse nei e verruche in un corpo perfetto. Biasimate Platone perché ha mirato al danaro, Aristotele perché lo ha accettato, Democrito perché non l'ha tenuto in nessun conto, Epicuro perché ne ha fatto spreco. Anche a me rinfacciate Alcibiade e Fedro, però sareste felicissimi appena vi capitasse di imitare i miei vizi. Perché piuttosto non guardate ai vostri difetti che vi assillano, a volte colpendo dall'esterno a volte bruciandovi nelle viscere? Non dura così a lungo la vita umana (anche se voi non siete consapevoli della vostra condizione) da lasciare il tempo per dar fiato ai denti offendendo chi è migliore di voi". 28 Questa è una cosa che voi non capite e assumete un atteggiamento che non si addice alla vostra condizione, come tutti quelli che stanno senza far nulla al circo o a teatro e ancora non sanno che, intanto, la loro casa è in lutto. Ma io, che guardo dall'alto, vedo quante tempeste minacciano di rovesciarsi a momenti su di voi con i loro nembi o, ormai vicinissime, stanno per trascinare via voi e le vostre ricchezze. E non tra poco, già ora, anche se non ve ne accorgete, un vortice travolge le vostre anime, che anche mentre cercano di sfuggire non rinunciano ai loro desideri e ora vengono sollevate in alto, ora sprofondate nell'abisso.
domenica 20 aprile 2025
"Le religioni sono figlie dell'ignoranza e non sopravvivono a lungo alla madre." Arthur Schopenhauer
La religione è il sospiro della creatura oppressa, è l’anima di un mondo senza cuore, di un mondo che è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigere la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni. La critica della religione, dunque, è, in germe, la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l’aureola. La critica ha strappato dalla catena i fiori immaginari, non perché l’uomo porti la catena spoglia e sconfortante, ma affinché egli getti via la catena e colga i fiori vivi. La critica della religione disinganna l’uomo affinché egli pensi, operi, dia forma alla sua realtà come un uomo disincantato e giunto alla ragione, affinché egli si muova intorno a se stesso e, perciò, intorno al suo sole reale. La religione è soltanto il sole illusorio che si muove intorno all’uomo, fino a che questi non si muove intorno a se stesso. E’ dunque compito della storia, una volta scomparso l’al di la della verità, quello di ristabilire la verità dell’al di qua” [Karl Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel.
Le atrocità della Bibbia
Antico Testamento
Genesi, 34:13 – Sichem si unì carnalmente – in un atto prematrimoniale – a Dina, figlia di Giacobbe, destando la collera degli altri suoi figli. L’unione previa circoncisione era considerata da Giacobbe un disonore e, per questo, a Sichem, a suo padre Camor, e ad ogni maschio della città fu richiesta la circoncisione, che avrebbe reso ogni uomo idoneo all’unione con le altre sue figlie. Tre giorni dopo, mentre gli uomini ancora pativano i dolori dell’operazione, “due dei figli di Giacobbe, Simeone e Levi, fratelli di Dina, presero ciascuno la propria spada, assalirono la città che si riteneva sicura, e uccisero tutti i maschi.” – “Passarono a fil di spada anche Camor e suo figlio Sichem, presero Dina dalla casa di Sichem, e uscirono.” – “I figli di Giacobbe si gettarono sugli uccisi e saccheggiarono la città, perché la loro sorella era stata disonorata” – “presero le loro greggi, i loro armenti, i loro asini, quanto era nella città e nei campi.” – “Portarono via come bottino tutte le loro ricchezze, tutti i loro bambini, le loro mogli e tutto quello che si trovava nelle case.“
Genesi, capitoli 6 e 7 – Malcontento della malvagità dell’uomo, Dio sterminò ogni creatura del pianeta risparmiando soltanto la famiglia di Noè. Uomini, donne, bambini ed animali morirono annegati in una impensabile agonia.
Genesi, 19:6 – Una sera, Lot ospitò due angeli nella sua casa a Sodoma. Quella stessa sera la casa di Lot fu assalita da una folla di delinquenti omosessuali in cerca di esperienze carnali con gli angeli. Lot cedette volontariamente le sue figlie vergini alla folla, esortandola: “Vi prego, fratelli miei, non fate questo male!” – “Ecco, ho due figlie che non hanno conosciuto uomo: lasciate che io ve le conduca fuori, e voi farete di loro quel che vi piacerà; ma non fate nulla a questi uomini, perché sono venuti all’ombra del mio tetto.”
Genesi, 19:26 – Dio, impassibile davanti alla proposta di stupro delle figlie vergini di Lot, trasformò sua moglie in una statua di sale per aver commesso il nefando crimine di essersi guardata le spalle.
Genesi, 38: 8-10 – Giuda pregò Onan di dormire con la moglie di suo fratello – ucciso da Dio per la sua malvagità – incoraggiandolo: “Va’ dalla moglie di tuo fratello, prenditela in moglie come cognato e suscita una discendenza a tuo fratello.” Onan ottemperò, “ma ogni volta che si univa alla moglie del fratello, disperdeva per terra, per non dare una posterità al fratello.” Dio ritenne questo un gesto malvagio e lo punì con la morte.
Esodo, 2:12 – Mosè scorse un egiziano che picchiava un ebreo. Si guardò intorno e, non trovandovi testimoni, “uccise l’Egiziano e lo nascose nella sabbia.“
Esodo, 7:2-4 – Dio “indurì” il cuore del faraone e pianificò i suoi “prodigi nel paese d’Egitto.“
Esodo, 7:20-21 – Dio trasformò l’acqua del Nilo in sangue. Tutti i pesci morirono e l’acqua divenne imbevibile.
Esodo, 8: 6-7 – Dio inviò una piaga di rane che “coprirono il paese d’Egitto.“
Esodo, 8:16 – Dio inviò una piaga di zanzare.
Esodo, 8:24 – Dio inviò una piaga di mosche velenose. “La terra fu devastata.“
Esodo, 9:5 – Dio, con l’ennesima epidemia, sterminò tutto il bestiame d’Egitto; “ma del bestiame dei figli d’Israele non morì neppure un capo.“
Esodo, 9:10 – Dio inviò una piaga di “ulceri che si trasformarono in pustole sulle persone e sugli animali.“
Esodo, 9:22-25 – Dio inviò una piaga di grandine che colpì uomini e animali, e che spogliò i campi.
Esodo, 12: 29 – Dio uccise il primogenito di ogni famiglia egiziana la cui casa non fosse stata contrassegnata da sangue d’agnello.
Esodo, 17:13 – Il bastone di Dio, retto dalle mani di Mosè sulla vetta del colle, permise a Giosuè di sterminare Amalec e la sua gente “passandoli a fil di spada“.
Esodo, 21:20-21 – Per la legge di Dio “se uno bastona il suo schiavo o la sua schiava fino a farli morire sotto i colpi, il padrone deve essere punito” – “ma se sopravvivono un giorno o due, non sarà punito, perché sono denaro suo.” – Dio approvava la schiavitù.
Esodo, 32:27 – Alla vista del vitello d’oro, Dio comandò ai figli di Levi: “Ognuno di voi si metta la spada al fianco; percorrete l’accampamento da una porta all’altra di esso, e ciascuno uccida il fratello, ciascuno l’amico, ciascuno il vicino.” – “In quel giorno caddero circa tremila uomini” e Dio ne fu compiaciuto.
Levitico, 26:7-8 – Dio ricompensò l’obbedienza assicurando che ogni nemico sarebbe perito per la spada.
Levitico, 26:22 – Dio ammonì la popolazione che, qualora non lo avessero ascoltato, avrebbe inviato loro le bestie feroci: “che vi rapiranno i figli, stermineranno il vostro bestiame, vi ridurranno a un piccolo numero, e le vostre strade diventeranno deserte.“
Levitico, 26:27-29 – “E se, nonostante tutto questo, non volete darmi ascolto, ma con la vostra condotta mi resisterete” – “anch’io vi resisterò con furore e vi castigherò sette volte di più per i vostri peccati.” – “Mangerete la carne dei vostri figli e delle vostre figlie.“
Numeri, 12:9-14 – Dio si stufò della presenza di Maria e, per questo, la colpì con la lebbra, bandendola dall’accampamento per sette giorni.
Numeri, 15:32-26 – Un uomo raccolse della legna di sabato. Per ordine divino dato a Mosè, “tutta la comunità lo condusse fuori dal campo e lo lapidò, e quello morì.“
Numeri, 16:27-33 – Gli uomini si dimostrarono indocili, perciò Dio fece sì che la terra si aprisse ed inghiottisse uomini, donne e bambini.
Numeri, 16:35 – Il fuoco di Dio “divorò i duecentocinquanta uomini che offrivano l’incenso.“
Numeri, 16:49 – Con una piaga, Dio sterminò quattordicimilasettecento uomini.
Numeri, 21:3 – Il Signore affidò i Cananei ad Israele, che “votò allo sterminio i Cananei e le loro città.“
Numeri, 21:6 – Il Signore “mandò tra il popolo dei serpenti velenosi i quali mordevano la gente, e gran numero d’Israeliti morirono.“
Numeri, 21:35 – Con l’approvazione di Dio gli Israeliti si recarono nella città di Og, ne uccisero il re Basan – senza risparmiare i figli – sterminarono l’esercito senza lasciare superstiti, e assunsero il controllo del territorio.
Numeri, 25:4 – “Il Signore disse a Mosè: Prendi tutti i capi del popolo e falli impiccare davanti al Signore, alla luce del sole, affinché l’ardente ira del Signore sia allontanata da Israele.“
Numeri, 25:8 – Fineas, figlio di Eleazar, figlio del sacerdote Aaronne, si recò in una tenda occupata da un uomo israelita ed una donna madianita e “li trafisse tutti e due, l’uomo d’Israele e la donna, nel basso ventre.“
Numeri, 25:9 – Una pestilenza divina sterminò ventiquattromila persone.
Numeri, 31:9 – Su comando divino gli israeliti sequestrarono le donne ed i bambini madianiti, e “presero tutte le spoglie e tutta la preda.“
Numeri, 31:17-18 – Dio ordinò a Mosè di uccidere ogni maschio madianita tra i bambini, e “ogni donna che ha avuto rapporti sessuali con un uomo” – “ma tutte le fanciulle che non hanno avuto rapporti sessuali con uomini, lasciatele in vita per voi.” – Nota: sarebbe interessante scoprire l’astuzia con cui i soldati riconoscevano le donne vergini.
Numeri, 31:31-40 – Dio spartì il bottino di guerra tra i soldati, i sacerdoti e gli israeliti senza tralasciare il tributo al Signore: “seicentosettantacinquemila pecore, settantaduemila buoi, sessantunmila asini e trentaduemila persone, ossia donne che non avevano avuto rapporti sessuali con uomini.“
Deuteronomio, 2:33-34 – Sotto la guida di Dio, gli israeliti sterminarono completamente gli uomini, le donne ed i bambini di Sicon. – “Non vi lasciammo nessuno in vita.“
Deuteronomio, 3:6 – Sotto la guida di Dio, gli israeliti sterminarono completamente gli uomini, le donne ed i bambini di Og. Saccheggiarono il bestiame ed i possedimenti.
Deuteronomio, 7:2 – Dio parlò ad ogni uomo d’Israele e, riguardo i nemici, proclamò: “Tu li voterai allo sterminio; non farai alleanza con loro e non farai loro grazia.”
Deuteronomio, 20:13-14 – Dio stabilì le regole della guerra ordinando il massacro di tutti gli uomini. Tralasciò le donne, i bambini, il bestiame ed i possedimenti che potevano essere tenuti come preda.
Deuteronomio, 20:16 – “Nelle città di questi popoli che il Signore, il tuo Dio, ti dà come eredità, non conserverai in vita nulla che respiri.”
Deuteronomio, 21:10-13 – Secondo la legge di Dio, se un uomo israelita, durante una guerra, avesse avvistato una donna attraente, avrebbe potuto catturarla e tenerla per moglie. La donna, quindi, avrebbe dovuto radersi il capo, tagliarsi le unghie e togliersi i vestiti che indossava al momento della cattura. Avrebbe dovuto piangere suo padre e sua madre per un mese intero. E qualora il soldato non fosse rimasto soddisfatto, avrebbe potuto lasciarla andare “dove vorrà.“
Deuteronomio, 28:53 – La punizione di Dio per i disobbedienti prevedeva che questi mangiassero “il frutto del proprio seno, le carni dei propri figli e delle proprie figlie.“
Giosuè, 6:21-27 – Sotto la direzione di Dio Giosuè distrusse l’intera città di Gerico con la punta della spada; uomini, donne e bambini inclusi. Tenne l’argento, l’oro, il bronzo ed il ferro per Dio e, infine, diede fuoco alla città.
Giosuè, 7:19-26 – Acan rubò “un mantello di Scinear, duecento sicli d’argento e una sbarra d’oro del peso di cinquanta sicli.” – Giosuè e gli israeliti portarono Acan, il bottino, i suoi figli, le sue figlie, il bestiame, gli asini, le mule e tutti i suoi possedimenti sulla valle di Acor, dove li lapidarono e bruciarono vivi.
Giosuè, 8:22-25 – Dio appoggiò Giosuè nel combattere e sterminare dodicimila uomini e donne nella città di Ai. Nessuno sopravvisse.
Giosuè, 10:10-27 – Dio aiutò Giosuè nel massacro dei Gabaoniti.
Giosuè, 10:28 – Con l’approvazione di Dio, Giosuè passò la città di Machedda ed il suo re “a fil di spada” – “Li votò allo sterminio con tutte le persone che vi si trovavano; non ne lasciò scampare una.“
Giosuè, 10:30 – Dio mise la città di Libna nelle mani di Giosuè. “Giosuè la mise a fil di spada con tutte le persone che vi si trovavano; non ne lasciò scampare una.“
Giosuè, 10:32-33 – Dio diede la sua approvazione affinché Giosuè uccidesse ogni uomo, donna e bambino della città di Lachis. Con la spada.
Giosuè, 10:34-35 – Tutti gli abitanti della città di Eglon furono falciati dalle spade di Giosuè e della sua armata.
Giosuè, 10:36-37 – Dio lasciò che Giosuè uccidesse il re di Ebron ed il suo villaggio con ogni suo abitante. – “Non ne lasciò sfuggire una, esattamente come aveva fatto a Eglon; la votò allo sterminio con tutte le persone che vi si trovavano.“
Giosuè, 10:38-39 – “Poi Giosuè con tutto Israele tornò verso Debir, e l’attaccò.” – Morirono tutti.
Giosuè, 11:6 – Dio ordinò a Giosuè di sconfiggere il nemico presso le acque di Merom. “Tu taglierai i garretti ai loro cavalli e darai fuoco ai loro carri.“
Giosuè, 11:8-15 – L’esercito di Giosuè, sotto il comando di Dio, sterminò il nemico “senza lasciarne scampare nessuno.“
Giosuè, 11:20 – “Infatti il Signore faceva sì che il loro cuore si ostinasse a dar battaglia a Israele, perché Israele li votasse allo sterminio senza che ci fosse pietà per loro, e li distruggesse come il Signore aveva comandato a Mosè.“
Giudici, 1:4 – Il Signore mise nelle mani di Giuda i Cananei e i Ferezei. Diecimila vittime.
Giudici, 1:6 – Adoni-Bezec – dei Cananiti – si diede alla fuga, ma l’esercito di Giuda lo raggiunse e “gli tagliarono i pollici e gli alluci.“
Giudici, 1:8 – Dio approvò l’attacco di Giuda alla città di Gerusalemme. L’esercito di Giuda mise la città a ferro e fuoco.
Giudici, 1:17 – “Poi Giuda partì con Simeone suo fratello, e sconfissero i Cananei che abitavano in Sefat; distrussero interamente la città.“
Giudici, 3:29 – Il signore mise i moabiti nelle mani degli israeliti. “In quel tempo sconfissero circa diecimila Moabiti, tutti robusti e valorosi; non ne scampò neppure uno.“
Giudici, 4:21 – Iael, con un martello, piantò un piuolo nella testa di Sisera, “tanto che esso penetrò in terra.“
Giudici, 7:19-25 – Sotto la guida del Signore la gente di Gedeone sconfisse i madianiti. Uccise e decapitò il loro principe e ne consegnò la testa a Gedeone.
Giudici, 8:15-21 – Gedeone castigò gli uomini di Succot con rovi e spine del deserto. Quindi “abbatté la torre di Penuel e uccise la gente della città.“
Giudici, 9:5 – Abimelec assassinò i suoi fratelli.
Giudici, 9:45 – Abimelec e i suoi seguaci uccisero tutti gli uomini della città. Poi li cosparsero di sale.
Giudici, 9:53-54 – Abimelec riposava tranquillo nella città di Tebes quando “una donna gettò giù un pezzo di macina sulla testa di Abimelec e gli spezzò il cranio.” – “Egli chiamò subito il giovane che gli portava le armi, e gli disse: «Estrai la spada e uccidimi, affinché non si dica: “Lo ha ammazzato una donna!”» Il suo servo allora lo trafisse ed egli morì.“
Giudici, 11:29-39 – Iefte sacrificò sull’altare del Signore la sua amata figliuola per ringraziarlo di avergli concesso la vittoria in battaglia.
Giudici, 15:15 – Sansone uccise mille uomini con “una mascella d’asino ancora fresca.“
Giudici, 16:27-30 – Dio concesse a Sansone la forza per buttare giù le colonne del tempio ed uccidere tremila persone.
Giudici, 18:27 – I daniti giunsero a Lais, “da un popolo che se ne stava tranquillo e senza timori; lo passarono a fil di spada e diedero la città alle fiamme.“
Giudici, 19:22-29 – Un viaggiatore di Betlemme, la sua compagna ed un servo erano ospiti nella dimora di un anziano signore a Ghibea quando “gente perversa” circondò l’abitazione chiedendo di “abusare” dell’ospite maschio. L’anziano padrone di casa offrì agli assalitori la sua figlia vergine e la compagna del suo ospite, implorandoli: “Ecco qua mia figlia che è vergine, e la concubina di quell’uomo; io ve le condurrò fuori e voi abusatene e fatene quel che vi piacerà; ma non commettete contro quell’uomo una simile infamia!” – La signora subì uno stupro e morì. Il viaggiatore caricò il corpo senza vita della donna su un asino, tornò a casa, “si munì di un coltello, prese la sua concubina e la divise, membro per membro, in dodici pezzi, che mandò per tutto il territorio d’Israele.“
Giudici, 20:43-48 – Gli israeliti uccisero venticinquemila uomini. Seicento fuggirono nel deserto. Gli israeliti li raggiunsero e “li passarono a fil di spada, dagli abitanti delle città al bestiame, a tutto quello che si trovava; e diedero alle fiamme tutte le città che trovarono.“
Giudici, 21:10-12 – La comunità uccise ogni uomo e ogni donna non vergine di Iabes in Galaad. Trovarono quattrocento vergini da portare con sé.
1 Samuele, 4:10 – I filistei uccisero trentamila soldati israeliti.
1 Samuele, 5:6-9 – Come punizione per aver rubato l’Arca dell’Alleanza, “il Signore colpì gli uomini della città, piccoli e grandi, e un flagello d’emorroidi scoppiò in mezzo a loro.“
1 Samuele, 6:19 – “Il Signore colpì gli abitanti di Bet-Semes, perché avevano guardato dentro l’arca del Signore; colpì settanta uomini fra i cinquantamila del popolo.“
1 Samuele, 7:7-11 – Il Signore aiutò gli uomini di Samuele ad uccidere i filistei, che li inseguirono “e li batterono fin sotto Bet-Car.“
1 Samuele, 11:11 – Sotto la benedizione di Dio, Saul ed il suo esercito massacrarono gli Ammoniti “finché il giorno si fece caldo.“
1 Samuele, 14:31 – Giònata e i suoi uomini sconfissero i filistei, “si gettarono sulla preda e presero pecore, buoi e vitelli e li macellarono e li mangiarono con il sangue.“
1 Samuele, 15:7-8 – Dio ordina a Saul: “Va’ dunque e colpisci Amalek e vota allo sterminio quanto gli appartiene, non lasciarti prendere da compassione per lui, ma uccidi uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini.“
1 Samuele, 15:33 – “Samuele trafisse Agag davanti al Signore in Gàlgala.“
1 Samuele, 18:27 – Davide ed i suoi uomini uccisero duecento filistei, prelevando “i loro prepuzi“, che Davide “contò davanti al re per diventare genero del re. Saul gli diede in moglie la figlia Mikal.“
1 Samuele, 30:17 – Davide lasciò in vita solo quattrocento filistei, che riuscirono a fuggire.
2 Samuele, 2:23 – Abner colpì Asaèl “con la punta della lancia al basso ventre, così che la lancia gli uscì di dietro ed egli cadde sul posto.“
2 Samuele, 3:30 – Ioab e Abisai vendicarono la morte di Asaèl uccidendo Abner.
2 Samuele, 4:7-8 – Is-Bàal riposava indisturbato nel suo letto quando Recàb e Baanà entrarono nella stanza. “Lo colpirono, l’uccisero e gli tagliarono la testa; poi, portando via la testa di lui, presero la via dell’Araba, camminando tutta la notte.” – Davide non sopportava che un uomo innocente fosse stato ucciso.
2 Samuele, 4:12 – Davide punì Recàb e Baanà uccidendoli, tagliando loro le mani e i piedi ed appendendoli presso la piscina di Ebron.
2 Samuele, 6:6-7 – Il bue che trasportava l’Arca cadde a terra sfinito, e Uzzà accorse per rimetterlo in piedi. “L’ira del Signore si accese contro Uzzà; Dio lo percosse per la sua colpa ed egli morì sul posto, presso l’arca di Dio.“
2 Samuele, 6:22-23 – Davide subì le beffe di Mikal per essersi “scoperto davanti agli occhi delle serve dei suoi servi, come si scoprirebbe un uomo da nulla.” – Così Dio punì Mikal, figlia di Saul, che “non ebbe figli fino al giorno della sua morte.” – Si noti la contraddizione con 2 Samuele 21:8, dove è narrato che Mikal ebbe cinque figli.
2 Samuele, 8:1-18 – Le imprese di Davide compresero l’uccisione di due terzi dei soldati Moabiti, l’azzoppamento di seimilanovecento cavalli, lo sterminio di di ventiduemila siriani e di diciottomila edomiti. Il verso 6 recita: “Il Signore rendeva vittorioso Davide dovunque egli andava.“
2 Samuele, 10:18 – Davide uccise settecento pariglie di cavalli e quarantamila Aramei.
2 Samuele, 11:14-27 – Davide desiderò ardentemente la moglie di Uria, quindi lo fece uccidere in battaglia perché potesse avere Betsabea tutta per sé.
2 Samuele, 12:1 – “Ma ciò che Davide aveva fatto era male agli occhi del Signore.” – Per punirlo il Signore uccise il suo bambino.
2 Samuele, 13:1-15 – Il figlio di Davide – e di Betsabea – Amnòn si innamorò di sua sorella Tamàr, vergine. Tamàr protestò i corteggiamenti del fratello, ma – verso 14 – “egli non volle ascoltarla: fu più forte di lei e la violentò unendosi a lei.“
2 Samuele, 13:28-29 – Il fratello di Tamàr, Absalom, ordinò ai suoi uomini di rendere ebbro Amnòn per poi ucciderlo e vendicare lo stupro di sua sorella.
2 Samuele, 18:6-7 – L’armata di Davide sterminò ventimila uomini nella foresta di Efraim.
2 Samuele, 18:15 – Ioab “prese in mano tre dardi e li immerse nel cuore di Assalonne, che era ancora vivo nel folto del terebinto.” – “Poi dieci giovani scudieri di Ioab circondarono Assalonne, lo colpirono e lo finirono.“
2 Samuele, 20:10-12 – Ioab conficcò un pugnale nello stomaco di Amasà, rovesciandone l’intestino per terra. Amasà morì nel bel mezzo della strada rotolandosi nel suo stesso sangue.
2 Samuele, 24:15 – Dio mandò una pestilenza sulla città di Israele per punire Davide del suo peccato. Morirono settantamila innocenti.
1 Re, 2:24-25 – Solomone uccise Adonia.
1 Re, 2:29-34 – Solomone uccise Ioab.
1 Re, 13-15-24 – Un profeta mentì ad un uomo, convincendolo a bere acqua e mangiare pane in un posto in cui il Signore aveva precedentemente proibito lui di farlo. L’uomo, rassicurato, mangiò e bevve in quel posto. Dio mandò un leone a punirlo, “il suo cadavere rimase steso sulla strada.“
1 Re, 20:29-30 – Gli israeliti si batterono contro i siriani. L’ammontare di vittime per ogni singolo giorno fu di centomila. Sulle restanti ventisettemila crollò un muro di pietra.
2 Re, 1:10-12 – Elia richiamò un fuoco dal cielo, invocando l’aiuto di Dio, e cinquanta uomini furono consumati dalle fiamme.
2 Re, 2:23-24 – Eliseo camminava per strada quando quarantadue bambini si presero gioco della sua calvizie. “Egli si voltò, li guardò e li maledisse nel nome del Signore. Allora uscirono dalla foresta due orse, che sbranarono quarantadue di quei fanciulli.“
2 Re, 5:27 – Eliseo maledice Ghecazi e i suoi discendenti, per sempre, con la lebbra. “Egli si allontanò da Eliseo, bianco come la neve per la lebbra.“
2 Re, 6:18-19 – Il nemico si incamminò verso Eliseo ed egli, rivolgendosi al Signore, supplicò: “Oh, colpisci questa gente di cecità!. E il Signore li colpì di cecità secondo la parola di Eliseo.” – “Disse loro Eliseo: Non è questa la strada e non è questa la città. Seguitemi e io vi condurrò dall’uomo che cercate. Egli li condusse in Samaria.” – “Quando giunsero in Samaria, Eliseo disse: Signore, apri i loro occhi; essi vedano!. Il Signore aprì i loro occhi ed essi videro. Erano in mezzo a Samaria!“
2 Re, 6:29 – Una donna si lamentò di patire la fame davanti al re di Israele. Era triste perché aveva accettato di cucinare e mangiare suo figlio.
2 Re, 9:24 – Ieu tradì Ioram, poi lo uccise colpendolo con arco e freccia nel mezzo delle spalle. “La freccia gli attraversò il cuore.“
2 Re, 9:27 – Ieu ordinò ai suoi uomini di inseguire ed uccidere Acazia, re di Giuda.
2 Re, 9:30-37 – Ieu fece uccidere Gezebele. “Il suo sangue schizzò sul muro e sui cavalli. Ieu passò sul suo corpo, poi entrò, mangiò e bevve; alla fine ordinò: Andate a vedere quella maledetta e seppellitela, perché era figlia di re.” – “Andati per seppellirla, non trovarono altro che il cranio, i piedi e le palme delle mani.” – “Tornati, riferirono il fatto a Ieu, che disse: Si è avverata così la parola che il Signore aveva detta per mezzo del suo servo Elia il Tisbita: Nel campo di Izreèl i cani divoreranno la carne di Gezabele.” – “E il cadavere di Gezabele nella campagna sarà come letame, perché non si possa dire: Questa è Gezabele.“
2 Re, 10:7 – Ieu ordinò che i settanta figli di Acab venissero decapitati. “Quindi posero le loro teste in panieri e le mandarono da lui.“
2 Re, 10:14 – Ieu ordinò la morte della famiglia di Acab, settantadue persone in totale.
2 Re, 10:17 – Secondo il racconto di Dio Ieu si recò a Samaria e sterminò “tutti i superstiti della casa di Acab fino ad annientarla, secondo la parola che il Signore aveva comunicata a Elia.“
2 Re, 10:19-27 – Ieu intrappolò gli adoratori di Baal nel tempio, poi disse alle guardie: “Entrate, uccideteli. Nessuno scappi.“
2 Re, 11:1 – Atalia distrusse la famiglia reale.
2 Re, 14:5 – Amazia fece giustiziare gli ufficiali che uccisero suo padre.
2 Re, 14:3-5 – Dio si arrabbiò con Amazia, anche se egli aveva fatto ciò che era giusto agli occhi del Signore. Le alte cariche non erano ancora state eliminate, e Dio era geloso dei loro sacrifici sull’altare. Così, Egli punì Azaria con la lebbra.
2 Re, 15:16 – Menachem attaccò la città di Tifsach, distruggendola, e “fece sventrare tutte le donne incinte.“
2 Re, 19:35 – Un angelo del signore sterminò centottantacinquemila uomini nei campi assiri.
2 Cronache, 13:17 – Dio diede il controllo degli israeliti ad Abia e Giuda. Cinquecentomila nemici morirono.
2 Cronache, 21:4 – “Ioram prese in possesso il regno di suo padre e quando si fu rafforzato, uccise di spada tutti i suoi fratelli e, con loro, anche alcuni ufficiali di Israele.“
Isaia, 13:15 – Isaia vide una profezia sulle sorti di Babilonia. “Quanti saranno trovati, saranno trafitti, quanti saranno presi, periranno di spada. I loro piccoli saranno sfracellati davanti ai loro occhi;
saranno saccheggiate le loro case, disonorate le loro mogli.“
Isaia, 13:18 – “Con i loro archi abbatteranno i giovani, non avranno pietà dei piccoli appena nati, i loro occhi non avranno pietà dei bambini.“
Isaia, 14:21-23 – “Preparate il massacro dei suoi figli a causa dell’iniquità del loro padre e non sorgano più a conquistare la terra e a riempire il mondo di rovine. Io insorgerò contro di loro – parola del Signore degli eserciti -, sterminerò il nome di Babilonia e il resto, la prole e la stirpe – oracolo del Signore -. Io la ridurrò a dominio dei ricci, a palude stagnante; la scoperò con la scopa della distruzione – oracolo del Signore degli eserciti -.“
Isaia, 49:26 – La punizione di Dio contro coloro che attaccano Israele: “Farò mangiare le loro stesse carni ai tuoi oppressori, si ubriacheranno del proprio sangue come di mosto.“
Geremia, 16:4 – La parola del Signore a proposito dei bambini nati in questa terra: “Moriranno di malattie strazianti, non saranno rimpianti né sepolti, ma saranno come letame sulla terra. Periranno di spada e di fame; i loro cadaveri saranno pasto degli uccelli dell’aria e delle bestie della terra.“
Esdra, 6:12-13 – Il decreto del re Dario stabilì che, qualora qualcuno avesse cambiato il suo editto, “si tolga una trave dalla sua casa, la si rizzi ed egli vi sia impiccato. Poi la sua casa sia ridotta a letamaio.“
Ezechiele, 20:26 – Israele insorse, e la punizione di Dio fu sobria. “Feci sì che si contaminassero nelle loro offerte facendo passare per il fuoco ogni loro primogenito, per atterrirli, perché riconoscessero che io sono il Signore.“
Ezechiele, 23:34 – Dio predispose che le prostitute bevessero una coppa di sdegno e si lacerassero i seni.
Ezechiele, 23:45-47 – Dio punì l’adulterio: “Si farà venire contro di loro una folla ed esse saranno abbandonate alle malversazioni e al saccheggio. La folla le lapiderà e le farà a pezzi con le spade; ne ucciderà i figli e le figlie e darà alle fiamme le case. Eliminerò così un’infamia dalla terra e tutte le donne impareranno a non commettere infamie simili.“
Osea, 13:16 – In seguito alla ribellione di Israele: “si alzerà dal deserto il soffio del Signore e farà inaridire le sue sorgenti, farà seccare le sue fonti, distruggerà il tesoro di tutti i vasi preziosi.“
Nuovo Testamento
Matteo, 5:17 – “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento.” – Gesù appoggia gli omicidi di massa, gli stupri, le schiavitù, le torture e gli incesti descritti nel Vecchio Testamento.
Matteo, 8:12 – Gesù avverte delle torture eterne dell’inferno: “i figli del regno saranno cacciati fuori nelle tenebre, ove sarà pianto e stridore di denti.“
Matteo, 10:35-36 – Gesù motiva la sua venuta: “Non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a metter pace, ma spada. Perché sono venuto a dividere il figlio da suo padre, la figlia da sua madre, la nuora dalla suocera; e i nemici dell’uomo saranno quelli stessi di casa sua.“
Matteo, 11:21-24 – Le opere di Gesù non impressionarono le città di Corazid, Betsaida e Capernaum. Gesù disse: “Guai a te!” e le destinò ad una sorte peggiore di quella toccata a Sodoma.
Matteo, 8:21 – Un uomo decise che, prima di seguire Gesù nella sua impresa, avrebbe seppellito suo padre appena deceduto. Gesù rispose: “Seguimi, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti.“
Marco, 4:10 – Nella parabola del seminatore Gesù spiegò ai suoi discepoli che era solito utilizzare parabole al fine di accrescere la loro confusione, “affinché non si convertano, e i peccati non siano loro perdonati.“
Marco, 7:10 – Secondo la legge dell’Antico Testamento ogni bambino che avesse dimostrato odio nei confronti dei genitori sarebbe stato condannato a morte.
Luca, 8:32-33 – Gesù trasferì dei demoni dal corpo di un uomo nudo ad un branco di porci, “e quel branco si gettò a precipizio giù nel lago e affogò.” – Gli abitanti supplicarono Gesù di abbandonare la città.
Luca, 12:47 – Gesù avvertì che un servo di Dio che non avesse rispettato la volontà del suo Padrone avrebbe ricevuto “molte percosse.“
Luca, 19:26 – Nella parabola delle dieci mine il padrone – Dio – disse di quelli che avessero deciso di non seguirlo: “conduceteli qui e uccideteli in mia presenza.“
Giovanni, 6:53-66 – Gesù invitò i suoi discepoli a mangiare la sua carne e bere il suo sangue. Malgrado il tono metaforico molti discepoli non condivisero l’idea e decisero di abbandonarlo.
Atti, 5:1-9 – Anania mentì sull’ammontare ricavato dalla vendita della sua proprietà per tenere per sé parte di quella somma. Dio uccise lui e sua moglie.
Romani, 1:26-27 – Paolo dice che lesbiche ed omosessuali meritano la dannazione eterna.
Lettera agli efesini, 1:4-5 – Malgrado le istruzioni elargite da Gesù sul come riconoscerlo come salvatore, Egli dice che Dio ha già “predestinato” coloro i quali saranno salvati secondo la Sua volontà.
Ebrei, 12:20 – Dio predispose che ogni animale accampato sul monte Sion venisse lapidato.
1 Pietro, 1:20 – Dopo il fallimento dell’esperimento di Dio nel giardino dell’Eden, la catastrofe di Noè e la soluzione finale del sacrificio di Cristo, scopriamo che Gesù fu predestinato alla morte fin dal principio. Fu tutto “già designato prima della creazione del mondo.“
Apocalisse, 6:8 – Alla fine dei tempi, Dio autorizzerà la Morte a falciare il 25% della popolazione terrestre “con la spada, con la fame, con la mortalità e con le belve della terra.“
Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione
Karl Marx (1844)
________________________________________
Per la Germania, la critica della religione nell'essenziale è compiuta, e la critica della religione è il presupposto di ogni critica.
L'esistenza profana dell'errore è compromessa dacché è stata confutata la sua celeste oratio pro aris et focis. L'uomo il quale nella realtà fantastica del cielo, dove cercava un superuomo, non ha trovato che l'immagine riflessa di se stesso, non sarà più disposto a trovare soltanto l'immagine apparente di sé, soltanto il non-uomo, là dove cerca e deve cercare la sua vera realtà.
Il fondamento della critica irreligiosa è: l'uomo fa la religione, e non la religione l'uomo. Infatti, la religione è la coscienza di sé e il sentimento di sé dell'uomo che non ha ancora conquistato o ha già di nuovo perduto se stesso. Ma l'uomo non è un essere astratto, posto fuori del mondo. L'uomo è il mondo dell'uomo, Stato, società. Questo Stato, questa società producono la religione, una coscienza capovolta del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto. La religione è la teoria generale di questo mondo, il suo compendio enciclopedico, la sua logica in forma popolare, il suo point d'honneur spiritualistico, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo solenne compimento, il suo universale fondamento di consolazione e di giustificazione. Essa è la realizzazione fantastica dell'essenza umana, poiché l'essenza umana non possiede una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque mediatamente la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l'aroma spirituale.
La miseria religiosa è insieme l'espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l'oppio del popolo.
Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale. L'esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l'esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni. La critica della religione, dunque, è, in germe, la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l'aureola.
La critica ha strappato dalla catena i fiori immaginari, non perché l'uomo porti la catena spoglia e sconfortante, ma affinché egli getti via la catena e colga i fiori vivi. La critica della religione disinganna l'uomo affinché egli pensi, operi, configuri la sua realtà come un uomo disincantato e giunto alla ragione, affinché egli si muova intorno a se stesso e perciò, intorno al suo sole reale. La religione è soltanto il sole illusorio che si muove intorno all'uomo, fino a che questi non si muove intorno a se stesso.
È dunque compito della storia, una volta scomparso l'al di là della verità, quello di ristabilire la verità dell'al di qua. È innanzi tutto compito della filosofia, la quale sta al servizio della storia, una volta smascherata la figura sacra dell'autoestraneazione umana, quello di smascherare l'autoestraneazione nelle sue figure profane. La critica del cielo si trasforma così nella critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica.
La seguente esposizione - un contributo a tale lavoro - si rifà inizialmente non già all'originale ma ad una copia, alla filosofia tedesca del diritto e dello Stato, per nessun'altra ragione se non quella che essa si rifà alla Germania.
Se ci si volesse ricollegare allo stesso status quo tedesco, sia pure nell'unico modo adeguato, cioè negativamente, il risultato rimarrebbe sempre un anacronismo. Anche la negazione del nostro presente politico si trova già come un vecchio arnese polveroso nella soffitta storica dei popoli moderni. Se nego i codini incipriati, mi rimangono pur sempre i codini non incipriati. Se nego le condizioni del 1843, mi trovo appena, secondo il calendario francese, nell'anno 1789, ben lungi dunque dal punto focale del presente.
Anzi, la storia tedesca si vanta di un moto che nessun popolo all'orizzonte della storia ha fatto prima e che nessuno farà dopo. Noi abbiamo infatti condiviso le restaurazioni dei popoli moderni senza condividere le loro rivoluzioni. Abbiamo subìto la restaurazione, in primo luogo, perché altri popoli osarono una rivoluzione, in secondo luogo, perché altri popoli subirono una controrivoluzione, la prima volta perché i nostri signori avevano paura e la seconda volta perché i nostri signori non avevano paura. Noi, coi nostri pastori alla testa, ci trovammo tuttavia una sola volta in compagnia della libertà, nel giorno della sua sepoltura.
Una scuola che legittima l'infamia di oggi con l'infamia di ieri, una scuola che dichiara ribelle ogni grido dei servi della gleba contro lo staffile, purché lo staffile sia uno staffile annoso, avito, storico, una scuola alla quale la storia mostra soltanto il suo a posteriori, così come il Dio d'Israele al suo servo Mosé, la scuola storica del diritto, avrebbe perciò inventato la storia tedesca, se non fosse essa stessa un'invenzione della storia tedesca. Come Shylock, ma uno Shylock servo, essa giura per ogni libbra di carne che viene tagliata dal cuore del popolo, sul suo titolo di credito, sul suo titolo storico, sul suo titolo cristiano-germanico.
Viceversa, entusiasti generosi, teutomani per sangue e liberi pensatori per riflessione, cercano la nostra storia della libertà al di là della nostra storia, nelle foreste vergini teutoniche. Ma come potrà la nostra storia della libertà distinguersi dalla storia della libertà del cinghiale, se la si può trovare soltanto nelle foreste? Inoltre, è noto che l'eco della foresta ci rimanda il nostro stesso grido. Pace dunque alle teutoniche foreste vergini!
Guerra alle condizioni tedesche! Senza dubbio! Esse stanno sotto il livello della storia, sono al disotto di ogni critica, ma rimangono un oggetto della critica, così come il delinquente che sta sotto il livello dell'umanità rimane un oggetto del boia. In lotta con esse, la critica non è una passione del cervello, essa è il cervello della passione. Essa non è un coltello anatomico, è un'arme. Il suo oggetto è il suo nemico, che essa non vuole confutare bensì annientare. Infatti, lo spirito di quelle condizioni è confutato. In sé e per sé non sono oggetti memorabili, ma spregevoli quanto spregiate esistenze. Per sé, la critica non ha bisogno di venire in chiaro nei confronti di questo oggetto, poiché è già in chiaro con esso. Essa non si pone più come fine a se stessa, ma ormai soltanto come mezzo. Il suo pathos essenziale è l'indignazione, il suo compito essenziale è la denuncia.
Bisogna descrivere la reciproca, sorda pressione di tutte le sfere sociali l'una sull'altra, il generale inerte disaccordo, la limitatezza che altrettanto si riconosce quanto si misconosce, il tutto racchiuso nella cornice di un sistema di governo che, vivendo della conservazione di ogni meschinità, non è esso stesso altro se non la meschinità al governo.
Quale spettacolo! Una società divisa all'infinito nelle razze più svariate, le quali si contrastano con piccole antipatie, cattiva coscienza e brutale mediocrità, e che appunto per la reciproca posizione ambigua e sospetta chiedono di essere trattate tutte senza distinzione, se pur con differenti formalità, dai loro signori come esistenze consentite. E lo stesso fatto di essere dominate, governate, possedute, esse devono riconoscerlo e professarlo come una concessione dal cielo! Dall'altra parte stanno quegli stessi signori, la cui grandezza sta in rapporto inverso al loro numero!
La critica che si cimenta con questo contenuto è la critica che sta in mezzo alla mischia, e nella mischia non si tratta di sapere se l'avversario è nobile, di pari condizione, se è un avversario interessante, si tratta di colpirlo. Si tratta di non concedere ai tedeschi un solo attimo di illusione su di sé e di rassegnazione. Bisogna rendere ancor più oppressiva l'oppressione reale con l'aggiungervi la consapevolezza dell'oppressione, ancor più vergognosa la vergogna, dandole pubblicità. Si deve raffigurare ciascuna sfera della società tedesca come la partie honteuse della società tedesca, bisogna far ballare questi rapporti mummificati cantando loro la loro propria musica! Bisogna insegnare al popolo a spaventarsi di se stesso, per fargli coraggio. Si soddisfa con ciò un imprescindibile bisogno del popolo tedesco, e i bisogni dei popoli sono di per se stessi i motivi ultimi del loro appagamento.
E anche per i popoli moderni, questa lotta contro il ristretto contenuto dello status quo tedesco non può essere priva di interesse, perché lo status quo tedesco costituisce l'aperto compimento dell'ancien régime, e l'ancien régime è la tara occulta dello Stato moderno. La lotta contro il presente politico tedesco è la lotta contro il passato dei popoli moderni, ed essi sono pur sempre molestati dalle reminiscenze di questo passato. È per essi istruttivo vedere l'ancien régime che visse da loro la sua tragedia, recitare ora la sua commedia come replica tedesca. Tragica fu la sua storia fino a quando esso era il vecchio potere preesistente del mondo mentre la libertà era una idea personale, in una parola, fino a quando esso credeva e doveva credere nella propria giustificazione. Fino a che l'ancien régime, in quanto ordine mondiale vigente lottò contro un mondo ancora in divenire, dalla sua parte stava un errore storico universale non personale. Perciò il suo tramonto fu tragico.
Invece l'attuale regime tedesco, un anacronismo, una flagrante contraddizione con assiomi universalmente riconosciuti, la nullità dell'ancien régime esposta alla vista del mondo, si immagina ancora di credere in sé stesso e pretende dal mondo la stessa immaginazione. Ma se credesse alla sua propria essenza, la celerebbe sotto l'apparenza di un'essenza estranea, e cercherebbe la sua salvezza nell'ipocrisia e nel sofisma? L'ancien régime moderno non è più che il commediante di un ordine mondiale, i cui eroi reali sono morti. La storia è radicale e percorre parecchie fasi, quando deve seppellire una figura vecchia. L'ultima fase di una figura storica universale è la sua commedia. Gli dei della Grecia, che già una volta erano stati tragicamente feriti a morte nel Prometeo incatenato di Eschilo, dovettero ancora una volta morire comicamente nei Dialoghi di Luciano. Perché la storia procede così? Affinché l'umanità si separi serenamente dal suo passato. Questa serena destinazione storica noi rivendichiamo alle forze politiche della Germania.
Ma non appena la moderna realtà politico-sociale viene essa stessa sottoposta alla critica, non appena dunque la critica si innalza a problemi veramente umani, essa si trova al di fuori dello status quo tedesco, altrimenti essa coglierebbe il suo oggetto al di sotto del suo oggetto. Un esempio! Il rapporto dell'industria, del mondo della ricchezza in generale, con il mondo politico è un problema capitale dell'epoca moderna. Sotto quale forma questo problema comincia ad occupare i tedeschi? Sotto la forma dei dazi protettivi, del sistema vincolistico, dell'economia nazionale. Il nazionalismo germanico è passato dall'uomo alla materia, e così un bel mattino i nostri cavalieri del cotone e i nostri eroi del ferro si trovarono trasformati in patrioti. In Germania si comincia dunque a riconoscere la sovranità del monopolio verso l'interno conferendo ad esso sovranità verso l'esterno. In Germania si sta cominciando dunque nel modo in cui in Francia e in Inghilterra sì sta per finire. La vecchia, putrida condizione contro cui questi paesi sono teoreticamente in rivolta, e che ancora sopportano soltanto come si sopportano le catene, viene salutata in Germania come la nascente aurora di un roseo futuro, che ancora quasi non osa passare dalla scaltrita [1] teoria alla più implacabile pratica. Mentre il problema in Francia e in Inghilterra suona: economia politica o dominio della società sulla ricchezza, in Germania suona: economia nazionale o dominio della proprietà privata sulla comunità nazionale. Si tratta dunque, in Francia e in Inghilterra, di abolire il monopolio, che è andato innanzi sino alle sue ultime conseguenze, si tratta in Germania di proseguire fino alle ultime conseguenze del monopolio. Là si tratta della soluzione, qui si tratta appena della collisione. Un esempio sufficiente questo, della forma tedesca dei problemi moderni, un esempio di come la nostra storia, simile ad una recluta maldestra, sin qui abbia avuto soltanto il compito di esercitarsi a ripetere storie trite.
Se dunque lo sviluppo complessivo della Germania non procedesse oltre lo sviluppo politico della Germania, un tedesco potrebbe partecipare ai problemi del presente al massimo quanto vi può partecipare un russo. Ma se il singolo individuo non è legato dai limiti della nazione, ancor meno l'intera nazione viene liberata dalla liberazione di un solo individuo. Gli sciti non progredirono di un solo passo verso la cultura greca per il fatto che la Grecia annovera uno scita tra i suoi filosofi.
Per fortuna, noi tedeschi non siamo sciti.
Come i popoli antichi vivevano la loro preistoria nell'immaginazione, nella mitologia, così noi tedeschi abbiamo vissuto la nostra storia futura nel pensiero, nella filosofia. Noi siamo i contemporanei filosofici del presente, senza esserne i contemporanei storici. La filosofia tedesca é il prolungamento ideale della storia tedesca. Se dunque noi critichiamo anziché le oeuvres incomplétes della nostra storia reale le oeuvres postumes della nostra storia ideale, la filosofia, la nostra critica si trova invero in mezzo ai problemi dei quali il presente dice: that is the question. Ciò che presso i popoli progrediti è rottura pratica con le moderne condizioni dello Stato, in Germania, dove tali condizioni ancora non esistono neppure, è innanzi tutto rottura critica con il riflesso filosofico di tali condizioni.
La filosofia tedesca del diritto e dello Stato è l'unica storia tedesca che stia al pari [2] col moderno presente ufficiale. Il popolo tedesco, perciò deve abbattere questa sua storia sognata, insieme con le proprie attuali condizioni, e sottoporre alla critica non soltanto queste attuali condizioni ma insieme anche la loro astratta prosecuzione. Il suo futuro non può limitarsi né alla immediata negazione delle sue reali condizioni giuridico-statali né all'immediato compimento di quelle ideali, poiché la immediata negazione delle sue condizioni reali esso la possiede già nelle sue condizioni ideali, e il compimento immediato delle sue condizioni ideali a sua volta esso lo ha già quasi sopravanzato contemplando i popoli suoi vicini. A ragione, perciò, il partito politico pratico in Germania esige la negazione della filosofia. Il suo torto non consiste in tale esigenza, ma nel fermarsi ad essa senza seriamente soddisfarla né poterla soddisfare. Esso crede di compiere quella negazione voltando le spalle alla filosofia e, mormorando con disapprovazione contro di essa qualche frase ingiuriosa e banale. La ristrettezza del suo orizzonte non annovera la filosofia neppure nella cerchia della realtà tedesca, o addirittura vaneggia che sia al di sotto della prassi tedesca e delle teorie che la servono. Voi pretendete che ci si riallacci a germi reali di vita, ma dimenticate che il reale germe di vita del popolo tedesco fino ad oggi ha germogliato soltanto dentro il suo cervello. In una parola: voi non potete eliminare la filosofia senza realizzarla.
Lo stesso torto, ma invertendo i fattori, lo ha commesso il partito politico teorico, che prende le mosse appunto dalla filosofia.
Nella lotta odierna, esso ha visto unicamente la lotta critica della filosofia contro il mondo tedesco, e non ha considerato che anche la filosofia avutasi finora appartiene a questo mondo e ne è il completamento, sia pure ideale. Critico verso il suo avversario, si è comportato acriticamente verso se stesso, poiché è partito dalle premesse della filosofia, e si è arrestato ai suoi risultati dati, ovvero ha spacciato come immediate esigenze e risultati della filosofia, esigenze e risultati presi altrove, sebbene questi al contrario - ammessa la loro giustificazione - si possano ottenere soltanto attraverso la negazione della filosofia avutasi finora, della filosofia in quanto filosofia. Ci riserviamo una più approfondita descrizione di questo partito. Il suo difetto fondamentale si può quindi così riassumere: esso credeva di poter realizzare la filosofia senza eliminarla.
La critica della filosofia tedesca dello Stato e del diritto, che con Hegel ha ricevuto la sua ultima forma più conseguente e più ricca, è l'una e l'altra cosa, sia l'analisi critica dello Stato moderno e della realtà ad essa connessa, sia la decisa negazione di tutto il modo precedente della coscienza politica e giuridica tedesca, la cui espressione più eminente, più universale, elevata a scienza, è appunto la filosofia speculativa del diritto. Se solo in Germania è stata possibile la filosofia speculativa del diritto, questo astratto ed esaltato pensamento dello Stato moderno, la cui realtà rimane un aldilà, questo aldilà può risiedere anche soltanto al di là del Reno: inversamente, la concezione tedesca dello Stato moderno, che astrae dall'uomo reale, fu possibile a sua volta soltanto e in quanto lo Stato moderno stesso astrae dall'uomo reale, ovvero soddisfa in modo soltanto immaginario l'uomo totale. 1 tedeschi nella politica hanno pensato ciò che gli altri popoli hanno fatto. La Germania fu la loro coscienza teorica. L'astrattezza e la presunzione del suo pensiero andarono sempre di pari passo con la unilateralità e inferiorità della loro realtà. Se dunque lo status quo del sistema statale tedesco esprime il compimento dell'ancien régime, questa spina nella carne dello Stato moderno, lo status quo della scienza statale tedesca esprime l'incompiutezza dello Stato moderno, la piaga della sua stessa carne.
Come deciso avversario del modo precedente della coscienza politica tedesca, la critica della filosofia speculativa del diritto non si esaurisce in se stessa, ma in compiti per la cui soluzione esiste un unico mezzo: la prassi.
Il problema è se la Germania possa pervenire ad una prassi à la hateur des principes, cioè ad una rivoluzione che la innalzi non soltanto al livello ufficiale dei popoli moderni, ma all'altezza umana che sarà il prossimo futuro di questi popoli.
L'arme della critica non può certamente sostituire la critica delle armi, la forza materiale dev'essere abbattuta dalla forza materiale, ma anche la teoria diviene una forza materiale non appena si impadronisce delle masse. La teoria è capace di impadronirsi delle masse non appena dimostra ad hominem, ed essa dimostra ad hominem, non appena diviene radicale, Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per l'uomo, è l'uomo stesso. La prova evidente del radicalismo della teoria tedesca, dunque della sua energia pratica, è il suo partire dalla decisa eliminazione positiva della religione. La critica della religione finisce con la dottrina per cui l'uomo è per l'uomo l'essere supremo, dunque con l'imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l'uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole, rapporti che non si possono meglio raffigurare che con l'esclamazione di un francese di fronte ad una progettata tassa sui cani: poveri cani! Vi si vuole trattare come uomini!
Anche storicamente, l'emancipazione teorica ha una importanza specificamente pratica per la Germania. Il passato rivoluzionario della Germania è infatti teorico, è la Riforma. Come allora fu il monaco, così oggi è il filosofo colui nel cui cervello ha inizio la rivoluzione.
Lutero, in verità, vinse la servitù per devozione mettendo al suo posto la servitù per convinzione. Egli ha spezzato la fede nell'autorità, restaurando l'autorità della fede. Egli ha trasformato i preti in laici, trasformando i laici in preti. Egli ha liberato l'uomo dalla religiosità esteriore, facendo della religiosità l'interiorità dell'uomo. Egli ha emancipato il corpo dalle catene, ponendo in catene il cuore.
Ma se il protestantesimo non fu la vera soluzione, fu tuttavia la vera impostazione del problema. Adesso bisognava non più che il laico lottasse contro il prete al di fuori di lui, ma contro il suo proprio prete interiore, contro la sua natura pretesca. E se la trasformazione protestante dei laici tedeschi in preti emancipò i papi laici, cioè i prìncipi insieme con il loro clero, i privilegiati e i filistei, la trasformazione filosofica dei preteschi tedeschi in uomini emanciperà il popolo. Ma come l'emancipazione non si fermò ai prìncipi, così la secolarizzazione dei beni non si fermerà alla spoliazione delle Chiese, che prima di tutti l'ipocrita Prussia pose in opera. Allora, la guerra dei contadini, il fatto più radicale della storia tedesca, fece naufragio contro la teologia. Oggi che la stessa teologia ha fatto naufragio, il fatto più illiberale della storia tedesca, il nostro status quo, si infrangerà contro la filosofia. Il giorno prima della Riforma, la Germania ufficiale era il più incondizionato servo di Roma. Il giorno prima della sua rivoluzione, essa è il servo incondizionato di qualcosa di meno di Roma: della Prussia e dell'Austria, dei nobilucci di campagna e dei filistei.
Contro una rivoluzione radicale della Germania sembra ergersi però una difficoltà capitale.
Le rivoluzioni, infatti, hanno bisogno di un elemento passivo, di un fondamento materiale. Sempre la teoria viene realizzata in un popolo soltanto nella misura in cui essa ne realizza i bisogni. All'enorme divario tra le domande del pensiero tedesco e le risposte della realtà tedesca, corrisponderà il medesimo dissidio della società civile con lo Stato e con se stessa? I bisogni teorici diverranno immediatamente bisogni pratici? Non basta che il pensiero tenda a realizzarsi, la realtà deve tendere se stessa verso il pensiero.
Ma la Germania non ha salito contemporaneamente ai popoli moderni i gradini intermedi della emancipazione politica. Essa non ha neppure raggiunto praticamente i gradini che ha superato teoricamente. Come potrebbe con un salto mortale [3] balzare non soltanto oltre i suoi propri limiti ma, insieme, oltre i limiti dei popoli moderni, oltre limiti che in realtà essa deve sentire e perseguire come una liberazione dai propri limiti reali? Una rivoluzione radicale può essere soltanto la rivoluzione dei bisogni radicali, dei quali sembrano mancare proprio i presupposti e il terreno da cui sorgere.
Ma se la Germania ha accompagnato lo sviluppo dei popoli moderni soltanto con l'astratta attività del pensiero, senza prendere parte attiva alle lotte reali di questo sviluppo, d'altra parte essa ha condiviso i dolori di questo sviluppo senza condividerne i piaceri, la parziale soddisfazione. All'attività astratta da un lato corrisponde l'astratto dolore dall'altro. La Germania perciò, un bel giorno si troverà al livello della decadenza europea, prima di essere mai stata al livello della emancipazione europea. La si potrebbe paragonare ad un feticista che deperisce per le malattie del cristianesimo.
Si considerino innanzi tutto i governi Tedeschi e vi si vedrà che le circostanze attuali, le condizioni della Germania, la situazione della cultura tedesca e finalmente il loro proprio felice istinto, li spinge a combinare i civilizzati difetti del moderno mondo statale, i cui vantaggi noi non abbiamo, con i barbarici difetti dell'ancien régime, di cui pienamente godiamo, cosicché la Germania deve sempre più partecipare se non alla razionalità, almeno alla irrazionalità anche di quelle formazioni statali che stanno al di là del suo status quo. Vi è, ad esempio, nel mondo un paese che condivida ingenuamente tutte le illusioni del sistema politico costituzionale senza condividerne la realtà, come la cosiddetta Germania costituzionale? O forse non ci voleva una trovata del governo tedesco per collegare le angherie della censura con le angherie delle leggi francesi del settembre, che presuppongono la libertà di stampa? Come nel Pantheon romano si trovavano gli Dei di tutte le nazioni, così oggi nel Sacro Romano Impero tedesco si troveranno i peccati di tutte le forme statali. Che questo eclettismo debba raggiungere un'altezza fino ad oggi impensata, ce lo garantisce segnatamente la gourmanderie [4] politico-estetica di un re tedesco, che medita di sostenere tutte le parti della monarchia, di quella feudale come di quella burocratica, di quella assoluta come di quella costituzionale, di quella autocratica come di quella democratica, se non attraverso la persona del popolo certo nella sua propria persona, se non per il popolo certamente per se stesso. La Germania come deficienza del presente politico costituitasi in un proprio mondo non potrà abbattere le proprie barriere senza abbattere le barriere generali del presente politico.
Non la rivoluzione radicale è per la Germania un sogno utopistico, non la universale emancipazione umana, ma piuttosto la rivoluzione parziale, la rivoluzione soltanto politica, la rivoluzione che lascia in piedi i pilastri della casa. Su che cosa si fonda una rivoluzione parziale, una rivoluzione soltanto politica? Sul fatto che una parte della società civile si emancipa e perviene al dominio generale, sul fatto che una determinata classe intraprende la emancipazione generale della società partendo dalla propria situazione particolare. Questa classe libera l'intera società, ma soltanto a condizione che l'intera società si trovi nella situazione di questa classe, dunque, ad esempio, possieda denaro e cultura, ovvero possa a suo piacere acquistarli.
Nessuna classe della società civile può sostenere questa parte, senza provocare un momento di entusiasmo in sé e nella massa, un momento nel quale essa fraternizza e confluisce nella società in generale, si scambia con essa e viene intesa e riconosciuta come sua rappresentante universale, un momento nel quale le sue esigenze e i suoi diritti sono diritti ed esigenze della società stessa, nel quale essa è realmente la testa e il cuore della società. Soltanto nel nome dei diritti universali della società, una classe particolare può rivendicare a se stessa il dominio universale. Per espugnare questa posizione emancipatrice e quindi per sfruttare politicamente tutte le sfere della società nell'interesse della propria sfera, non sono sufficienti soltanto energia rivoluzionaria e autocoscienza spirituale. Affinché la rivoluzione di un popolo e la emancipazione dì una classe particolare della società civile coincidano, affinché uno stato sociale valga come lo stato dell'intera società, bisogna al contrario che tutti i difetti della società siano concentrati in un'altra classe, bisogna che un determinato stato sia lo stato dello scandalo universale, impersoni le barriere universali, bisogna che una particolare sfera sociale equivalga alla manifesta criminalità dell'intera società, cosicché la liberazione da questa sfera appaia come la universale autoliberazìone. Affinché uno stato divenga lo stato della liberazione par excellence, bisogna al contrario che un altro stato diventi manifestamente lo stato dell'assoggettamento. L'importanza negativa universale della nobiltà francese e del clero francese condizionò l'importanza positiva universale della classe immediatamente confinante e contrapposta, della borghesia.
Ma ad ogni classe particolare in Germania manca non soltanto la coerenza, il rigore, il coraggio, la spregiudicatezza che potrebbero contrassegnarla come rappresentante negativa della società. Ad ogni stato mancano parimenti quell'ampiezza dell'anima che si identifica, sia pure momentaneamente, con l'anima del popolo, quella genialità che ispira la forza materiale fino al potere politico, quell'ardire rivoluzionario che scaglia in faccia all'avversario le parole di sfida: io non sono nulla e dovrei essere tutto. Il sostegno principale della morale e della onorabilità tedesca, non soltanto degli individui ma anche delle classi, è costituito piuttosto da quel modesto egoismo che fa valere e lascia far valere contro di sé la sua limitatezza. Il rapporto tra le differenti sfere della società tedesca perciò non è drammatico, ma epico. Ciascuna di esse comincia a sentire se stessa e ad accamparsi accanto alle altre con le proprie particolari esigenze non quando venga oppressa, ma quando senza suo apporto le circostanze creano una base sociale sulla quale essa da parte sua possa esercitare la sua pressione. Perfino la consapevolezza morale della classe media tedesca riposa unicamente sulla consapevolezza di essere la rappresentante universale della mediocrità filistea di tutte le altri classi. Perciò non soltanto i re tedeschi sono pervenuti sul trono mal-à-propos, ma ciascuna sfera della società civile esperimenta la propria disfatta prima di aver celebrato la propria vittoria, sviluppa le sue proprie barriere prima di aver superato le barriere contrappostele, mette in luce l'angustia del proprio essere, cosicché, anche l'occasione di sostenere un grande ruolo è sempre già passata prima di esser stata presente, cosicché ogni classe, non appena inizia la lotta contro la classe che sta sopra di essa, è implicata nella lotta con la classe che sta sotto di essa. Perciò i prìncipi si trovano in lotta con la monarchia, il burocrate in lotta con la nobiltà, il borghese in lotta contro tutti loro, mentre il proletario comincia già a trovarsi in lotta con il borghese. La classe media osa appena concepire dal suo punto di vista il pensiero della emancipazione, e già lo sviluppo delle condizioni sociali così come il progresso della teoria politica mostrano come questo stesso punto di vista sia antiquato o almeno problematico.
In Francia è sufficiente che uno sia qualcosa perché voglia essere tutto. In Germania non si può essere qualcosa se non si rinuncia a tutto. In Francia l'emancipazione parziale è il fondamento di quella universale. In Germania l'emancipazione universale è conditio sine qua non di ogni emancipazione parziale. In Francia è la realtà, in Germania l'impossibilità della liberazione progressiva che deve generare la libertà totale. In Francia ogni classe del popolo è un idealista politico, e innanzi tutto sente se stessa non come classe particolare, ma come rappresentante dei bisogni sociali in generale. La funzione di emancipatore passa successivamente con movimento drammatico alle differenti classi del popolo francese, finché perviene infine alla classe che realizza la libertà sociale non più sotto il presupposto di condizioni che sono al di fuori dell'uomo, e tuttavia sono create dalla società umana, ma piuttosto organizza tutte le condizioni della esistenza umana sotto il presupposto della libertà sociale. In Germania invece, dove la vita pratica è altrettanto priva di spirito quanto poco pratica è la vita spirituale, nessuna classe della società civile ha il bisogno e la capacità della emancipazione generale, finché non sia a ciò costretta dalla sua immediata situazione, dalla necessità materiale, dalle sue stesse catene.
Dov'è dunque la possibilità positiva della emancipazione tedesca?
Risposta: nella formazione di una classe con catene radicali, di una classe della società civile la quale non sia una classe della società civile, di uno stato che sia la dissoluzione di tutti gli stati, di una sfera che per i suoi dolori universali possieda un carattere universale e non rivendichi alcun diritto particolare, poiché contro di essa viene esercitato non una ingiustizia particolare bensì l'ingiustizia senz'altro, la quale può fare appello non più ad un titolo storico ma al titolo umano, che non si trova in contrasto unilaterale verso le conseguenze, ma in contrasto universale contro tutte le premesse del sistema politico tedesco, di una sfera, infine, che non può emancipare se stessa senza emanciparsi da tutte le rimanenti sfere della società e con ciò stesso emancipare tutte le rimanenti sfere della società, la quale, in una parola, è la perdita completa dell'uomo, e può dunque guadagnare nuovamente se stessa soltanto attraverso il completo riacquisto dell'uomo. Questa dissoluzione della società in quanto stato particolare è il proletariato.
Il proletariato comincia per la Germania a diventar tale soltanto con l'irrompente movimento industriale, poiché non la povertà sorta naturalmente bensì la povertà prodotta artificialmente, non la massa di uomini meccanicamente oppressa dal peso della società ma la massa di uomini che proviene dalla sua acuta dissoluzione, anzi dalla dissoluzione del ceto medio, costituisce il proletariato, sebbene gradualmente entrino nelle sue file, com'è naturale, anche la povertà naturale e la cristiano-germanica schiavitù della gleba.
Se il proletariato annunzia la dissoluzione dell'ordinamento tradizionale del mondo, esso esprime soltanto il segreto della sua propria esistenza, poiché esso è la dissoluzione effettiva di questo ordinamento del mondo. Se il proletariato richiede la negazione della proprietà privata, esso eleva a principio della società solo ciò che la società ha elevato a suo principio, ciò che in esso è già impersonato senza suo apporto, in quanto risultato negativo della società. Il proletariato quindi rispetto al mondo in divenire si trova nello stesso diritto in cui il re tedesco si trova rispetto al mondo già divenuto, quando egli chiama suo popolo il popolo, così come chiama suo cavallo il cavallo. Il re dichiarando il popolo sua proprietà privata, esprime soltanto il fatto che il proprietario privato è re.
Come la filosofia trova nel proletariato le sue armi materiali, così il proletariato trova nella filosofia le sue armi spirituali, e una volta che il lampo del pensiero sia penetrato profondamente in questo ingenuo terreno popolare, si compirà l'emancipazione dei tedeschi a uomini.
Riassumiamo il risultato.
L'unica possibile liberazione pratica della Germania è la liberazione dal punto di vista di quella teoria che proclama l'uomo la più alta essenza dell'uomo. In Germania l'emancipazione dal Medioevo è possibile unicamente in quanto sia insieme l'emancipazione dai parziali superamenti del Medioevo. In Germania non si può spezzare nessuna specie di servitù senza spezzare ogni specie di servitù. La Germania radicale non può fare la rivoluzione senza compierla dalle radici. L'emancipazione del tedesco è l'emancipazione dell'uomo. La testa di questa emancipazione è la filosofia, il suo cuore è il proletariato. La filosofia non può realizzarsi senza l'eliminazione del proletariato, il proletariato non può eliminarsi senza la realizzazione della filosofia.
Quando siano adempite tutte le condizioni interne, il giorno della resurrezione tedesca verrà annunziato dal canto del gallo francese.
Iscriviti a:
Post (Atom)