Una luce nel labirinto

Una luce nel labirinto
Non arrendersi mai.

una luce nel labirinto

una luce nel labirinto
Non sottomettersi mai.

domenica 30 aprile 2023

L 'essere umano ha diritto alla vita.

Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell' impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione." Dichiarazione universale dei diritti umani,1948. " Verba volant, scripta manent". "Da ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo le sue necessità." Marx "Quando il pensiero se ne resta nell'universalità delle idee, come accade nei primi filosofi, a ragione gli si fa rimprovero di formalismo" Hegel Più passa il tempo e sempre più vi é necessità di comprendere che l'anatomia di questa società risiede nell'economia. Bisogna però andare oltre e comprendere come si muove, come si nutre, come le sensazioni ed i concetti divengano da forma sostanza. E' necessario studiare minuziosamente il capitalismo per conoscere tutti gl' ingranaggi di questo sistema. Studiare, studiare, studiare per non cadere nelle grinfie ideologiche dei vari piazzisti della politica borghese, che promettono il paradiso e sempre più spingono chi vive, vendendo il proprio cervelllo o le proprie braccia, verso l'inferno dello sfruttamento, del lavoro precario, del lavoro nero, deĺla miseria. Bisogna che chi lavora conti su se stesso, suĺla propria intelligenza, sulla forza del numero e dell'organizzazione per andare verso nuove frontiere, ove ogni essere umano possa sentirsi tale e possa dare cibo alla mente ed al corpo. Il marxismo ci fornisce gli strumenti di analisi per individuare e prevedere le tendenze di sviluppo capitalistico, i suoi contrasti, le sue contraddizioni, le sue lacerazioni. Il marxismo è una scienza! Ma l'analisi e le previsioni sono il presupposto dell'azione. Per questo il marxismo é la scienza del mondo nuovo. La scienza del rapporto tra situazioni oggettive determinate ed azioni soggettive coscienti per il superamento di questo sistema. "Per i suoi principi, il comunismo é al di sopra del dissidio tra borghesia e proletariato, poiché lo considera giustificato nel suo significato storico soltanto per il presente; esso intende appunto sopprimere tale dissidio. Riconosce perciò, finché il dissidio permane, che il risentimento del proletariato contro i suoi oppressori é una necessità, che rappresenta la leva piu importante del movimento operaio: ma va oltre tale risentimento, perché il comunismo é appunto una CAUSA DI TUTTA L'UMANITÀ." F. Engels

venerdì 28 aprile 2023

Primo maggio internazionalista.

Primo maggio internazionalista. E’ in corso un riarmo globale,secondo il Sipri nel 2022 si sono spesi 2240 miliardi di dollari per la spesa in armi, e una lotta per nuovo ordine mondiale che tenga conto delle differenti forze emerse negli ultimi decenni. L’ordine scaturito dopo la seconda guerra mondiale non è più attuale e le nuove potenze cercano più spazio nella contesa mentre le vecchie si danno da fare per difendere il loro potere in decadenza. La guerra in Ucraina è uno scontro tra potenze imperialistiche. E’ la prima di una serie che segnerà la nuova era nelle relazioni tra le potenze. La classe lavoratrice è carne da macello in questa lotta imperialistica. L’ unico modo per fermare questa tragedia è far si che i lavoratori diventino potenza tra le potenze ed esprimano con forza la determinazione di lottare per un mondo nuovo. Sono 300 milioni i proletari europei, russi e ucraini; se uniti porterebbero al macero ogni imperialismo e ogni nazionalismo. La ferocia del sistema capitalistico si manifesta in tutte le sue guerre, attualmente vi sono 65 nel mondo, anche in quelle oscurate dai mass-media, e nel trattamento dei migranti che muoiono a centinaia nel Mediterraneo nella generale indifferenza. L’unica alternativa risolutiva a questo scempio è l’unità di tutti i lavoratori. Se si vuole la pace, bisogna lottare per superare i rapporti di classe, la produzione per il profitto e non, come sarebbe nel mondo nuovo, per il consumo. Non c’è bisogno di pacifismo, ma di comunismo! Il primo maggio ricorda la lotta dei lavoratori per le otto ore, otto ore di lavoro, otto ore di svago, otto ore per dormire. Le otto ore al giorno La nascita del 1° Maggio, come Giornata internazionale dei lavoratori, è legata indissolubilmente alla lotta per l'introduzione per legge della giornata lavorativa di otto ore. Siamo nella seconda metà del 1800, agli albori del movimento organizzato dei lavoratori. Allora i capitalisti imponevano, anche ai fanciulli, di lavorare per un misero salario dalle 12 alle 16 ore al giorno pena il licenziamento. Nel 1886 negli Stati Uniti per la prima volta fu avanzata questa importantissima rivendicazione. "La prima e grande necessità del presente - recitava la risoluzione del Congresso operaio generale di Baltimora - per liberare il lavoro di questo Paese dalla schiavitù capitalistica, è la promulgazione di una legge per la quale otto ore devono costituire la giornata normale in tutti gli Stati dell'Unione americana". Nel settembre dello stesso anno, a Ginevra, la Prima Internazionale dei partiti operai guidata da Marx ed Engels assunse tale rivendicazione: "Dichiariamo - si leggeva nel testo di una risoluzione - che la limitazione della giornata lavorativa è una condizione preliminare, senza la quale non possono non fallire tutti gli altri sforzi di emancipazione (...) Proponiamo otto ore di lavoro come limite legale della giornata lavorativa". Proprio per rivendicare le otto ore, il sindacato americano, che allora si chiamava "Nobile ordine dei Cavalieri del lavoro", organizzò il 1° Maggio del 1886 a Chicago una grande manifestazione cui presero parte 50 mila operai. La repressione governativa e padronale fu brutale e selvaggia. Intervennero la polizia e l'esercito. Sulla folla dei manifestanti si abbatté una pioggia di proiettili e venne fatta esplodere una bomba in mezzo al corteo. Morti e feriti si contarono a decine. Centinaia furono gli arrestati. Fra questi gli organizzatori e i leader del movimento, processati sommariamente e condannati alla pena capitale per impiccagione. Tre anni dopo, si tenne il 14 luglio 1889 a Parigi lo storico Congresso della fondazione della Seconda Internazionale di cui Engels sarà dirigente e capo riconosciuto; presenti 391 delegati in rappresentanza delle organizzazioni operaie di 21 paesi. In quella sede fu istituita la Giornata internazionale dei lavoratori, in ricordo dell'eccidio degli operai di Chicago. Nel documento intitolato "Manifestazione internazionale del Primo Maggio 1890" è scritto: "Sarà organizzata una grande manifestazione internazionale a data fissa, in modo che contemporaneamente in tutti i Paesi e in tutte le città, lo stesso giorno convenuto, ingiungano ai poteri pubblici di ridurre legalmente a otto ore la giornata lavorativa e di applicare le altre risoluzioni del Congresso internazionale di Parigi". In ricordo dell'eccidio di Chicago Cosicché nel 1° Maggio del 1890 si tennero grandi manifestazioni di lavoratori nelle più importanti città degli Usa e dell'Europa sfidando in parecchie circostanze le cariche e gli arresti della polizia, serrate padronali e licenziamenti. Per la prima volta nella storia, nello stesso momento, in tutti i Paesi dell'occidente, la classe operaia organizzata manifestava per la propria emancipazione. Un avvenimento di grandissimo rilievo che non a caso nella prefazione del "Manifesto del Partito Comunista", datata 1° Maggio, Engels sottolineava con queste parole: "Oggi, mentre scrivo queste righe, il proletariato d'Europa e d'America passano in rivista le sue forze mobilitate per la prima volta come un solo esercito, sotto una sola bandiera, per un solo fine prossimo: la giornata lavorativa normale di otto ore, proclamata già dal congresso di Ginevra dell'Internazionale del 1886, e di nuovo dal congresso operaio di Parigi del 1889, da introdursi per legge. E lo spettacolo di questa giornata aprirà gli occhi ai capitalisti e ai proprietari terrieri di tutti i Paesi sul fatto che oggi i proletari di tutti i Paesi si sono effettivamente uniti. Fosse Marx accanto a me, a vederlo con i suoi occhi!". Accanto alla repressione antioperaia della borghesia e dei governi reazionari, si mobilitò anche la Chiesa cattolica che temeva la lotta di classe, il marxismo e le idee del socialismo. Papa Leone XIII, il 15 maggio 1891, pubblicò l'enciclica "Rerum Novarum" che conteneva la dottrina sociale dei cattolici. Un dottrina interclassista, che predicava l'inviolabilità della proprietà privata e la conciliazione degli interessi tra sfruttati e sfruttatori. In essa il papa sosteneva che la proprietà privata rappresentava un "diritto di natura"; condannava il socialismo perché sovvertitore dell'ordine esistente; dipingeva la lotta di classe come lo "sconcio maggiore", da rigettare e sostituire con la "concordia sociale". Dato che, aggiungeva, si "deve supportare la condizione propria dell'umanità: togliere dal mondo le disparità sociali è cosa impossibile". Di conseguenza anche lo sciopero veniva definito nella stessa enciclica "sconcio grave e frequente". L'orientamento della Chiesa consisteva insomma nel "conciliare e mettere d'accordo fra loro i ricchi e i proletari, ricordando agli uni e agli altri i mutui doveri". Un orientamento che, non c'è dubbio ha fatto scuola non solo per i cattolici ma anche per i riformisti e i rinnegati del comunismo di tutti i tempi, fino ai nostri giorni. Il 1° Maggio in Italia In Italia la prima celebrazione del 1° Maggio (1890) ebbe un gran successo e dimensioni diffuse e imponenti. Scioperi e manifestazioni si tennero nelle principali città del Paese: a Livorno, nonostante che il governo Crispi l'avesse vietata esplicitamente prendendo a pretesto lo scoppio sospetto di una bomba; a Napoli, Torino, Genova, Palermo, Pavia; inoltre a Roma e Milano con migliaia e migliaia di lavoratori in piazza. Da allora, il 1° Maggio ha segnato momenti storici di lotta incancellabili: le proteste del 1914 contro la prima guerra mondiale imperialista; le lotte operaie del 1920; gli scioperi del 1943 contro la dittatura mussoliniana; le folle immense che riempirono le piazze nel 1945 all'indomani della Liberazione dal nazifascismo; la manifestazione di Portella della Ginestra del '47 dove fu compiuta la prima strage di Stato; le grandi lotte del '68 e degli anni '70. Così è stato anche in tutto il mondo. Non solo nel nostro Paese, non solo negli Usa e in Europa, ma anche in Asia, America Latina, Africa, Australia. Che il 1° Maggio abbia sempre avuto un'impronta proletaria, rivoluzionaria, anticapitalista, antifascista e antimperialista è dimostrato anche dal fatto che sia Hitler che Mussolini appena saliti al potere abolirono tassativamente la celebrazione della ricorrenza. Il duce sostituì il 1° Maggio, con la "festa del lavoro" in chiave corporativa fascista, da tenersi il 21 aprile ricorrenza del "natale di Roma". (...) Ecco cosa diceva Lenin in un celebre discorso del 1905: "Compagni operai! Il giorno della grande festa degli operai di tutto il mondo è venuto. Il Primo Maggio gli operai festeggiano il loro risveglio alla luce e alla conoscenza, la loro unione in un'alleanza fraterna per lottare contro ogni oppressione, contro ogni arbitrio, contro ogni sfruttamento per dare un assetto socialista alla società". Dello stesso tenore l'intervento del 1912 di Stalin dal titolo "Evviva il Primo Maggio" dove tra l'altro affermava: "Ogni classe ha le sue feste preferite. I nobili istituirono le loro feste, in cui proclamavano il loro `diritto' di spogliare i contadini. I borghesi hanno le loro, in cui `giustificano' il `diritto' di sfruttare gli operai. Anche i preti hanno le loro feste, ed esaltano in esse gli ordinamenti esistenti, per cui i lavoratori muoiono nella miseria e i fannulloni guazzano nel lusso. Anche gli operai - concludeva - devono avere la loro festa e in essa devono proclamare lavoro per tutti, libertà per tutti, eguaglianza per tutti gli uomini. Questa è la festa del Primo Maggio. Così decisero gli operai fin dal 1889". WWW.vallarsa.com Storia del Primo maggio. Per i suoi principi, il comunismo è al di sopra del dissidio tra borghesia e proletariato, poiché lo considera giustificato nel suo significato storico soltanto per il presente, non per il futuro; esso intende appunto sopprimere tale dissidio. Riconosce perciò, finchè il dissidio permane, che il risentimento del proletariato contro i suoi oppressori è una necessità, che rappresenta la leva più importante del movimento operaio ai suoi inizi; ma va oltre tale risentimento, perché il comunismo è appunto una causa di tutta l’umanità, non soltanto degli operai.” F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra. “ Noi ci chiamiamo comunisti. Che cos’è un comunista? Comunista è una parola latina. Comunista deriva dalla parola comune. La società comunista significa: tutto in comune, la terra, le fabbriche, il lavoro. Ecco cos’è il comunismo!” Lenin, I compiti delle associazioni giovanili. La classe lavoratrice, se s’impossessa di organizzazione e coscienza, può aspirare a un mondo nuovo, libero dai bisogni materiali e spirituali, fraterno, eguale. Se lo vogliamo, possiamo sognare! Possiamo vivere la vita e non sopravvivere ad essa, se la realtà economico-sociale fa proprio il concetto:” Da ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo le sue necessità”.

giovedì 20 aprile 2023

AI - Intelligenza artificiale.

L'AI nei prossimi anni sconvolgerà il mondo del lavoro con mansioni, soprattutto medio alte, coperte da questa realtà. Solo negli USA, su circa 160 milioni di lavoratori, si calcola un minus del 30 %, ovvero circa 48 milioni di lavoratori in meno. Non bisogna essere contro questa innovazione tecnologica, come i luddisti all'inizio del secolo scorso rispetto alle macchine di quell'epoca nel processo produttivo. Tutto ciò che agevola l'essere umano nel rapporto con la natura nel produrre beni va visto positivamente. Il problema è che siamo nel sistema capitalistico che si basa sul profitto. Di conseguenza ogni miglioramento tecnologico non viene utilizzato per l'essere umano, ma contro. Un "mondo nuovo" basato sul benessere dell'umanità trarrebbe enormi vantaggi dall'AI. Potremmo dedicare al lavoro sempre meno ore. Se oggi servirebbero, lavorando tutti, due ore al giorno per la produzione di prodotti, con l'AI si potrebbe arrivare a un'ora al giorno. Ognuno dedicherebbe le altre ore della giornata ai suoi hobbies, dedicando comunque porzioni di tempo alla conoscenza, onde soddisfare sia il benessere materiale sia quello spirituale. Nell'immediato, non potendo assistere in modo inerte a queste nuove realtà, è necessario che la classe lavoratrice di ogni livello si ponga come obiettivo primario una sostanziosa riduzione dell'orario di lavoro, insieme all'abbassamento dell'età pensionabile, per la difesa dell'occupazione, un deciso aumento salariale per coprire gli aumenti inflazionistici e un salario di vita che non getti il lavoratore sul lastrico in periodi di non lavoro. Se lo vogliamo, possiamo sognare e lottare per raggiungere i nostri sogni! AI – INTELLIGENZA ARTIFICIALE • MACHINE LEARNING COS’È • DEEP LEARNING COS’È • COMPUTER QUANTISTICO COS’È ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER Ricerca per: Direttore Responsabile: Alessandro Longo • INTELLIGENZA ARTIFICIALE • ROBOTICA • REALTÀ VIRTUALE • CHATGPT • SICUREZZA • VIDEO AI • LEGGI ROBOTICA • TEST DI TURING • FILM SUI ROBOT • RPA • RICONOSCIMENTO FACCIALE • SISTEMI ESPERTI • RETI NEURALI • CHATGPT 19 APRILE 2023 PILLAR Cos’è l’intelligenza artificiale (AI), come funziona e applicazioni Che cos'è l'intelligenza artificiale: storia, i vari tipi, le applicazioni. Cos'è il machine learning e quali applicazioni trova. Il quadro di regolamentazione dell'AI in Italia e in Europa Redazione 14 Febbraio 2023Deep Learning, Intelligenza Artificiale, Machine Learning 1. HOME 2. INTELLIGENZA ARTIFICIALE 3. Cos’è l’intelligenza artificiale (AI), come funziona e applicazioni Cos’è l’intelligenza artificiale? Potremmo definire l’intelligenza artificiale come l’abilità di un sistema tecnologico di risolvere problemi o svolgere compiti e attività tipici della mente e dell’abilità umane. Guardando al settore informatico, potremmo identificare l’AI – artificial intelligence come la disciplina che si occupa di realizzare macchine (hardware e software) in grado di “agire” autonomamente (risolvere problemi, compiere azioni, ecc.). Indice degli argomenti: • 1 Cos’è l’intelligenza artificiale (AI), definizione • 2 La storia dell’intelligenza artificiale: dalle reti neurali degli anni ’50 a oggi • 3 Film intelligenza artificiale, la guida • 4 Tipi di intelligenza artificiale o 4.1 Intelligenza artificiale debole e forte: cosa sono e in cosa si distinguono • 5 Machine Learning e Deep Learning, cosa sono • 6 Come funziona l’intelligenza artificiale • 7 Esempi di intelligenza artificiale o 7.1 Vendite o 7.2 Marketing o 7.3 Artificial Intelligence Marketing (AIM), algoritmi per persuadere le persone o 7.4 Sanità o 7.5 Cybersecurity o 7.6 Supply chain o 7.7 Sicurezza pubblica • 8 Intelligenza artificiale: aggiornamenti o 8.1 GPT-3, l’AI che scrive testi o 8.2 DALL-E, dalle parole alle immagini o 8.3 LaMDA di Google e Wav2vec-U di Facebook o 8.4 Deep face: “questa persona non esiste” o 8.5 Deep Nostalgia, far rivivere il passato o 8.6 Copilot, il software che scrive software o 8.7 Shopping assistance robot • 9 Intelligenza artificiale e Agenda Digitale in Italia • 10 Lo stato dell’arte delle normative sull’intelligenza artificiale o 10.1 Italia o 10.2 Europa • 11 Lavoro e intelligenza artificiale: presente e futuro • 12 I rischi dell’intelligenza artificiale • 13 Intelligenza artificiale decentralizzata: cos’è e perché può essere la risposta ai problemi etici Cos’è l’intelligenza artificiale (AI), definizione L’intelligenza artificiale è una disciplina dell’informatica che si occupa di creare macchine in grado di imitare le capacità dell’intelligenza umana attraverso lo sviluppo di algoritmi che consentono di mostrare attività intelligente. Il fermento attuale attorno a questa disciplina si spiega con la maturità tecnologica raggiunta sia nel calcolo computazionale (oggi ci sono sistemi hardware molto potenti, di ridotte dimensioni e con bassi consumi energetici), sia nella capacità di analisi in real-time ed in tempi brevi di enormi quantità di dati e di qualsiasi forma (Analytics). Nella sua accezione puramente informatica, l’intelligenza artificiale potrebbe essere classificata come la disciplina che racchiude le teorie e le tecniche pratiche per lo sviluppo di algoritmi che consentano alle macchine (in particolare ai ‘calcolatori’) di mostrare attività intelligente, per lo meno in specifici domini e ambiti applicativi. Già da questo primo tentativo di definizione è evidente che bisognerebbe attingere ad una classificazione formale delle funzioni sintetiche/astratte di ragionamento, meta-ragionamento e apprendimento dell’uomo per poter costruire su di essi dei modelli computazionali in grado di concretizzare tali forme di ragionamento e apprendimento (compito arduo dato che ancora oggi non si conosce a fondo il reale funzionamento del cervello umano). Non solo, quando si parla di capacità di ragionamento e apprendimento automatico sulla base dell’osservazione spesso si incappa nell’alveo del Cognitive Computing che va però inteso come l’insieme della piattaforme tecnologiche basate sulle discipline scientifiche dell’intelligenza artificiale (tra cui Machine Learning e Deep Learning) e il Signal Processing (la capacità di elaborare i segnali). La storia dell’intelligenza artificiale: dalle reti neurali degli anni ’50 a oggi L’interesse della comunità scientifica per l’intelligenza artificiale ha inizio però da molto lontano: il primo vero progetto di artificial intelligence (ormai nota con l’acronimo AI) risale al 1943 quando i due ricercatori Warren McCulloch e Walter Pitt proposero al mondo scientifico il primo neurone artificiale cui seguì poi nel 1949 il libro di Donald Olding Hebb, psicologo canadese, grazie al quale vennero analizzati in dettaglio i collegamenti tra i neuroni artificiali ed i modelli complessi del cervello umano. I primi prototipi funzionanti di reti neurali [cioè modelli matematici/informatici sviluppati per riprodurre il funzionamento dei neuroni biologici per risolvere problemi di intelligenza artificiale intesa, in quegli anni, come la capacità di una macchina di compiere funzioni e fare ragionamenti come una mente umana – ndr] arrivarono poi verso la fine degli anni ’50 e l’interesse del pubblico si fece maggiore grazie al giovane Alan Turing che già nel 1950 cercava di spiegare come un computer possa comportarsi come un essere umano. Il termine artificial intelligence in realtà parte “ufficialmente” dal matematico statunitense John McCarthy (nel 1956) e con esso il “lancio” dei primi linguaggi di programmazione (Lisp nel 1958 e Prolog nel 1973) specifici per l’AI. Da lì in poi la storia dell’intelligenza artificiale è stata abbastanza altalenante caratterizzata da avanzate significative dal punto di vista dei modelli matematici (sempre più sofisticati modellati per “imitare” alcune funzionalità cerebrali come il riconoscimento di pattern) ma con alti e bassi dal punto di vista della ricerca sull’hardware e sulle reti neurali. La prima grande svolta su quest’ultimo fronte è arrivata negli anni ’90 con l’ingresso sul mercato “allargato” (arrivando cioè al grande pubblico) dei processori grafici, le Gpu – graphics processing unit (chip di elaborazione dati molto più veloci delle Cpu, provenienti dal mondo del gaming ed in grado di supportare processi complessi molto più rapidamente, per altro operando a frequenze più basse e consumando meno energia rispetto alle “vecchie” Cpu). L’ondata più recente è arrivata nell’ultimo decennio con lo sviluppo dei cosiddetti “chip neuromorfici”, ossia microchip che integrano elaborazione dati e storage in un unico micro componente (grazie all’accelerazione che ha avuto anche la ricerca nel campo delle nanotecnologie) per emulare le funzioni sensoriali e cognitive del cervello umano (ambito quest’ultimo dove si stanno concentrando anche molte startup). Guardando un po’ alla storia passata, è alla fine degli anni ’50 che risale il primo modello di rete neurale: si trattava del cosiddetto “percettrone”, proposto nel 1958 da Frank Rosenblatt (noto psicologo e computer scientist americano), una rete con uno strato di ingresso ed uno di uscita ed una regola di apprendimento intermedia basata sull’algoritmo ‘error back-propagation’ (minimizzazione degli errori); la funzione matematica, in sostanza, in base alla valutazione sui dati effettivi in uscita – rispetto ad un dato ingresso – altera i pesi delle connessioni (sinapsi) provocando una differenza tra l’uscita effettiva e quella desiderata. Alcuni esperti del settore fanno risalire proprio al percettrone di Rosenblatt la nascita della cibernetica e dell’intelligenza artificiale [Artificial Intelligence – AI: il termine in realtà fu coniato nel 1956 dal matematico statunitense John McCarthy, ed è del 1950 il primo assunto di Alan Turing nel quale spiega come un computer possa comportasri come un essere umano – ndr], anche se negli anni immediatamente successivi i due matematici Marvin Minsky e Seymour Papert dimostrarono i limiti del modello di rete neurale di Rosenblatt: il percettrone era in grado di riconoscere, dopo opportuno “addestramento” solo funzioni linearmente separabili (attraverso il training set – l’algoritmo di apprendimento – nello spazio vettoriale degli input, si riescono a separare quelli che richiedono un output positivo da quelli che richiedono un output negativo); inoltre, le capacità computazionali di un singolo percettrone erano limitate e le prestazioni fortemente dipendenti sia dalla scelta degli input sia dalla scelta degli algoritmi attraverso i quali ‘modificare’ le sinapsi e quindi gli output. I due matematici Minsky e Papert intuirono che costruire una rete a più livelli di percettroni avrebbe potuto risolvere problemi più complessi ma in quegli anni la crescente complessità computazionale richiesta dall’addestramento delle reti mediante gli algoritmi non aveva ancora trovato una risposta sul piano infrastrutturale (non esistevano sistemi hardware in grado di ‘reggere’ tali operazioni). La prima svolta importante dal punto di vista tecnologico arriva tra la fine degli anni ’70 e il decennio degli anni ’80 con lo sviluppo delle Gpu che hanno ridotto notevolmente i tempi di addestramento delle reti, abbassandoli di 10/20 volte. Film intelligenza artificiale, la guida Parlare di casi applicativi per l’intelligenza artificiale è impossibile senza citare il mondo del cinema e la grandissima filmografia che esiste proprio intorno ai robot, all’AI, al Machine Learning. Una cinematografia che vale la pena di studiare a fondo proprio perché spesso foriera di visioni e preziose anticipazioni del mondo e del mercato che in molti casi si sono poi concretizzate nell’arco di pochi anni. Nasce con questo spirito di monitoraggio e analisi la nostra “guida speciale” denominata Film intelligenza artificiale, costantemente aggiornata anche grazie al contributo dei lettori. Tipi di intelligenza artificiale Già da questo rapidissimo “viaggio storico” si intuisce che dare una definizione esatta di intelligenza artificiale è un compito arduo ma, analizzandone le evoluzioni, siamo in grado di tracciarne i contorni e quindi di fare alcune importanti classificazioni. Intelligenza artificiale debole e forte: cosa sono e in cosa si distinguono Prendendo come base di partenza il funzionamento del cervello uomo (pur sapendo che ancora oggi non se ne comprende ancora a fondo l’esatto meccanismo), una intelligenza artificiale dovrebbe saper compiere in alcune azioni/funzioni tipiche dell’uomo:  agire umanamente (cioè in modo indistinto rispetto a un essere umano);  pensare umanamente (risolvendo un problema con funzioni cognitive);  pensare razionalmente (sfruttando cioè la logica come fa un essere umano);  agire razionalmente (avviando un processo per ottenere il miglior risultato atteso in base alle informazioni a disposizione, che è ciò che un essere umano, spesso anche inconsciamente, fa d’abitudine). Queste considerazioni sono di assoluta importanza perché permettono di classificare l’AI in due grandi “filoni” di indagine/ricerca/sviluppo in cui per altro la comunità scientifica si è trovata concorde, quello dell’AI debole e dell’AI forte: Debole (weak AI) Identifica sistemi tecnologici in grado di simulare alcune funzionalità cognitive dell’uomo senza però raggiungere le reali capacità intellettuali tipiche dell’uomo (parliamo di programmi matematici di problem-solving con cui si sviluppano funzionalità per la risoluzione dei problemi o per consentire alle macchine di prendere decisioni); Forte (strong AI) In questo caso si parla di “sistemi sapienti” (alcuni scienziati si spingono a dire addirittura “coscienti di sé”) che possono quindi sviluppare una propria intelligenza senza emulare processi di pensiero o capacità cognitive simili all’uomo ma sviluppandone una propria in modo autonomo. Machine Learning e Deep Learning, cosa sono La classificazione AI debole e AI forte sta alla base della distinzione tra Machine Learning e Deep Learning, due ambiti di studio che rientrano nella più ampia disciplina dell’intelligenza artificiale che meritano un po’ di chiarezza, dato che ne sentiremo parlare sempre più spesso nei prossimi anni. Dopo le opportune chiarificazioni, possiamo ora spingerci a definire l’intelligenza artificiale come la capacità delle macchine di svolgere compiti e azioni tipici dell’intelligenza umana (pianificazione, comprensione del linguaggio, riconoscimento di immagini e suoni, risoluzione di problemi, riconoscimento di pattern, ecc.), distinguibile in AI debole e AI forte. Ciò che caratterizza l’intelligenza artificiale da un punto di vista tecnologico e metodologico è il metodo/modello di apprendimento con cui l’intelligenza diventa abile in un compito o azione. Questi modelli di apprendimento sono ciò che distinguono Machine Learning e Deep Learning. Come funziona l’intelligenza artificiale Ciò che abbiamo visto finora è il funzionamento tecnologico dell’intelligenza artificiale (IA). Dal punto di vista delle abilità intellettuali, il funzionamento di una AI si sostanzia principalmente attraverso quattro differenti livelli funzionali:  comprensione: attraverso la simulazione di capacità cognitive di correlazione dati ed eventi l’AI (artificial intelligence) è in grado di riconoscere testi, immagini, tabelle, video, voce ed estrapolarne informazioni;  ragionamento: mediante la logica i sistemi riescono a collegare le molteplici informazioni raccolte (attraverso precisi algoritmi matematici e in modo automatizzato);  apprendimento: in questo caso parliamo di sistemi con funzionalità specifiche per l’analisi degli input di dati e per la loro “corretta” restituzione in output (è il classico esempio dei sistemi di Machine Learning che con tecniche di apprendimento automatico portano le AI a imparare e a svolgere varie funzioni);  interazione (Human Machine Interaction): in questo caso ci si riferisce alle modalità di funzionamento dell’AI in relazione alla sua interazione con l’uomo. È qui che stanno fortemente avanzando i sistemi di NLP – Natural Language Processing, tecnologie che consentono all’uomo di interagire con le macchine (e viceversa) sfruttando il linguaggio naturale. Esempi di intelligenza artificiale Le Over The Top come Facebook, Google, Amazon, Apple e Microsoft stanno battagliando non solo per portare al proprio interno startup innovative nel campo dell’AI ma anche per avviare ed alimentare progetti di ricerca di cui già oggi vediamo alcuni frutti (come il riconoscimento delle immagini, dei volti, le applicazioni vocali, le traduzioni linguistiche, ecc.). Oggi la maturità tecnologica ha fatto sì che l’intelligenza artificiale uscisse dall’alveo della ricerca per entrare di fatto nella vita quotidiana. Se come consumatori ne abbiamo importanti “assaggi” soprattutto grazie a Google e Facebook, nel mondo del business la maturità (e la disponibilità) delle soluzioni tecnologiche ha portato la potenzialità dell’AI in molti segmenti. Questi quelli più in fermento in questo momento: Vendite L’intelligenza artificiale applicata alle vendite ha già dimostrato importanti risultati, in particolare grazie all’utilizzo di sistemi esperti [applicazioni che rientrano nella branca dell’intelligenza artificiale perché riproducono le prestazioni di una persona esperta di un determinato dominio di conoscenza o campo di attività – ndr]. Le soluzioni che al loro interno integrano sistemi esperti permettono agli utenti (anche non esperti) di risolvere problemi particolarmente complessi per i quali servirebbe necessariamente l’intervento di un essere umano esperto dello specifico settore, attività o dominio di conoscenza ove si presenta il problema. In parole semplici, sono sistemi che permettono alle persone di trovare una soluzione ad un problema anche senza richiedere l’intervento di un esperto. Dal punto di vista tecnologico, i sistemi esperti consentono di mettere in atto, in modo automatico, delle procedure di inferenza (ossia di logica: con un processo induttivo o deduttivo si giunge ad una conclusione a seguito dell’analisi di una serie di fatti o circostanze). In particolare i cosiddetti sistemi esperti basati su regole sfruttano i principi molto noti nell’informatica IF-THEN dove If è la condizione e Then l’azione (se si verifica una determinata condizione, allora avviene una certa azione). Il perché i sistemi esperti rientrano nella branca dell’intelligenza artificiale anziché nell’alveo dei normali programmi software sta nel fatto che dati una serie di fatti, i sistemi esperti, grazie alle regole di cui sono composti, riescono a dedurre nuovi fatti. Questi sistemi risultano particolarmente performanti e adatti ai configuratori commerciali (soluzioni utilizzate dalle Vendite in business model dove la proposta risulta particolarmente complessa per la natura stessa dei prodotti commercializzati, per le combinazioni possibili delle soluzioni, per le variabili che incidono sul risultato finale e, quindi, sulla realizzazione stessa del prodotto ed il suo prezzo). In generale, un configuratore di prodotto deve assolvere il compito di semplificazione nella scelta di un bene da acquistare; processo non sempre immediato quando le variabili in gioco sono numerose (dimensionamento, numero elevato di componenti, utilizzo di materiali particolari, combinazione tra materie prime e materiali vari con conseguenti impatti sulle proprietà fisiche, meccaniche o chimiche, ecc.). Quando a dover essere configurati sono prodotti che vanno calati in progetti complessi (pensiamo agli impianti manifatturieri oppure a sistemi e macchinari che devono operare in particolari condizioni climatiche o ambienti industriali “critici”), i configuratori di prodotto devono essere “esperti ed intelligenti” al punto da mettere gli utenti in condizioni di cercare, individuare, valutare e richiedere in autonomia quello che serve, senza ricorrere all’esperto tecnico. È proprio qui che i sistemi esperti – come quelli sviluppati da Myti – esprimono al meglio il loro potenziale. Declaro – Myti DECLARO, per esempio, è un “rule engine” (motore di regole) che permette al configuratore di prodotto di proporre all’utente non esperto le domande giuste, alle cui risposte seguono altre domande corrette. L’accumularsi di esperienze (tra domande e risposte) non solo accelera e rende più efficace la configurazione della soluzione adatta alle proprie esigenze, ma diventa anche un sistema di knowledge base aziendale che si arricchisce in continuazione. Nella soluzione messa a punto da Myti il “motore” di domande e risposte si presenta come comune interfaccia web. Le regole If-Than sono costruite a monte dall’esperto di dominio ma il sistema è poi in grado di fare delle domande a un utente non esperto e in base alle risposte – accedendo alla conoscenza dell’esperto che ha definito le regole – fare altre domande che aiutano l’utente (per esempio il venditore) alla scelta e poi alla configurazione di un prodotto complesso o una articolata proposta commerciale. Marketing Assistenti vocali/virtuali (chatbot, Siri di Apple, Cortana di Microsoft, Alexa di Amazon) che sfruttano l’intelligenza artificiale sia per il riconoscimento del linguaggio naturale sia per l’apprendimento e l’analisi delle abitudini e dei comportamenti degli utenti; analisi in real-time di grandi moli di dati per la comprensione del “sentiment” e delle esigenze delle persone per migliorare customer care, user experience, servizi di assistenza e supporto ma anche per creare e perfezionare sofisticati meccanismi di ingaggio con attività che si spingono fino alla previsione dei comportamenti di acquisto da cui derivare strategie di comunicazione e/o proposta di servizi. L’AI nel Marketing sta mostrando da qualche anni tutta la sua massima potenza e l’area di impiego maggiore è sicuramente quella della gestione della relazione con gli utenti. Artificial Intelligence Marketing (AIM), algoritmi per persuadere le persone Da diversi anni è nata una vera e propria disciplina, l’Artificial Intelligence Marketing (AIM), una branca del Marketing che sfrutta le più moderne tecnologie che rientrano nell’ambito dell’Intelligenza Artificiale, come Machine Learning e Nlp – Natural Language Processing, integrate a tecniche matematiche/statistiche (come quelle delle reti bayesiane) e di Marketing comportamentale (behavioral targeting). Si tratta, in concreto, dell’utilizzo degli algoritmi di intelligenza artificiale e Machine Learning con l’obiettivo di persuadere le persone a compiere un’azione, acquistare un prodotto o accedere ad un servizio (in altre parole, rispondere ad una “call to action”) Aggregazione e analisi dei dati (anche quelli destrutturati e basati su linguaggio naturale) in un processo continuo di apprendimento e miglioramento per identificare di volta in volta le azioni, le strategie e le tecniche di comunicazione e vendita probabilisticamente più efficaci (quelle che hanno il potenziale più elevato di efficacia/successo per singoli target di utenti). È questo, in sostanza, quello che fa l’AIM Sanità L’AI ha avuto il pregio di migliorare molti sistemi tecnologici già in uso da persone con disabilità (per esempio i sistemi vocali sono migliorati al punto da permettere una relazione/comunicazione del tutto naturale anche a chi non è in grado di parlare) ma è sul fronte della diagnosi e cura di tumori e malattie rare che si potranno vedere le nuove capacità dell’AI. Già oggi sono disponibili sul mercato sistemi cognitivi in grado di attingere, analizzare e apprendere da un bacino infinito di dati (pubblicazioni scientifiche, ricerca, cartelle cliniche, dati sui farmaci, ecc.) ad una velocità inimmaginabile per l’uomo, accelerando processi di diagnosi spesso molto critici per le malattie rare o suggerendo percorsi di cura ottimali in caso di tumori o malattie particolari. Non solo, gli assistenti virtuali basati su AI iniziando a vedersi con maggiore frequenza nelle sale operatorie, a supporto del personale di accoglienza o di chi offre servizi di primo soccorso. Cybersecurity La prevenzione delle frodi è una delle applicazioni più mature dove l’intelligenza artificiale si concretizza con quelli che tecnicamente vengono chiamati “advanced analytics”, analisi molto sofisticate che correlano dati, eventi, comportamenti ed abitudini per capire in anticipo eventuali attività fraudolente (come la clonazione di una carta di credito o l’esecuzione di una transazione non autorizzata); questi sistemi possono in realtà trovare applicazione anche all’interno di altri contesti aziendali, per esempio per la mitigazione dei rischi, la protezione delle informazioni e dei dati, la lotta al cybercrime. Supply chain L’ottimizzazione e la gestione della catena di approvvigionamento e di distribuzione richiede ormai analisi sofisticate e, in questo caso, l’AI è il sistema efficace che permette di connettere e monitorare tutta la filiera e tutti gli attori coinvolti; un caso molto significativo di applicazione dell’intelligenza artificiale al settore del Supply chain management è relativo alla gestione degli ordini (in questo caso le tecnologie che sfruttano l’intelligenza artificiale non solo mirano alla semplificazione dei processi ma anche alla totale integrazione di essi, dagli acquisti fino all’inventario, dal magazzino alle vendite fino ad arrivare addirittura all’integrazione con il marketing per la gestione preventiva delle forniture in funzione delle attività promozionali o della campagne di comunicazione). Sicurezza pubblica La capacità di analizzare grandissime quantità di dati in tempo reale e di “dedurre” attraverso correlazioni di eventi, abitudini, comportamenti, attitudini, sistemi e dati di geo-localizzazione e monitoraggio degli spostamenti di cose e persone offre un potenziale enorme per il miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia della sicurezza pubblica. Per esempio, per la sicurezza e la prevenzione dei crimini in aeroporti, stazioni ferroviarie e città metropolitane oppure per la prevenzione e la gestione della crisi in casi di calamità naturali come terremoti e tsunami. Intelligenza artificiale: aggiornamenti GPT-3, l’AI che scrive testi Nel corso del 2020, l’azienda OpenAI, ha presentato il sistema GPT-3, un potente “strumento intelligente” per la produzione di testi. Basato su tecniche di pre-training senza supervisione nello sviluppo di sistemi Natural Language Processing. GPT-3 è un “generatore di linguaggio” ed è in grado di scrivere articoli e saggi in totale autonomia. GPT-3 è stato preceduto da GPT-2, che era già in grado di scrivere testi in una gamma di stili diversi a seconda della frase inserita come input. Per capire la differenza fra i due sistemi basti pensare che GPT-3 ha 175 miliardi di “parametri”, cioè i valori che la rete neurale utilizzata nel modello ottimizza durante l’addestramento), mentre GPT-2 ne ha “appena” 1,5 miliardi. GPT-3: poltrone, avocado e il futuro dell’intelligenza artificiale GPT-3: apprendimento di modelli statistici del linguaggio, conoscenza e intelligenza naturale DALL-E, dalle parole alle immagini Ancora l’azienda OpenAI ha rilasciato nella seconda metà del 2020 un nuovo modello di intelligenza artificiale: DALL-E. Il sistema è capace di produrre immagini da descrizioni testuali esprimibili in linguaggio naturale, sulla base di un input di testo o testo + immagine, ottenendo in uscita una immagine artificiale. Il nome trae origine dal pittore Salvador Dalì e dal robot cinematografico WALL-E ed è una variante del modello GPT-3. Ecco DALL-E 2, l’AI a supporto della creatività umana – AI4Business LaMDA di Google e Wav2vec-U di Facebook Ai sistemi GPT di OpenAI hanno fatto seguito i modelli di linguaggio naturale LaMDA di Google e Wav2vec-U di Facebook. LaMDA (acronimo di “Language Model for Dialogue Applications”), è basato (come BERT e GPT-3) su tecnologia Transformer e nasce dall’intento di Google di comprendere meglio le intenzioni degli utenti quando fanno una ricerca sul web. Wav2vec-U è invece un metodo per creare sistemi di riconoscimento del parlato senza il bisogno di avere trascrizioni sulle quali addestrare il modello. Deep face: “questa persona non esiste” ThisPersonDoesNotExist.com è un sito che, utilizzando le reti neurali, generare volti falsi, ossia del tutto inventati. Creato da Philip Wang, autore del software di Uber, il sito utilizza un algoritmo StyleGAN sviluppato dalla NVIDIA Corporation, una rete neurale di tipo GAN (Generative Adversarial Network). Deep Nostalgia, far rivivere il passato Sulla scia di deep face, ai primi del 2021 è apparso un nuovo sistema basato su AI chiamato “Deep Nostalgia”, opera dell’azienda My Heritage. Si tratta di un software che “anima” foto di persone, facendole come “rivivere”. Deep Nostalgia utilizza una tecnica di computer vision chiamata Face Alignment, basata su deep neural networks. Copilot, il software che scrive software Gli sviluppatori di software di GitHub (Microsoft) hanno sviluppato Copilot, un software che aiuta gli sviluppatori a gestire e archiviare i codici, ossia un programma che utilizza l’intelligenza artificiale per assistere gli stessi sviluppatori. Ad esempio, si digita una query di comando e Copilot indovina l’intento del programmatore, scrivendo il resto. Shopping assistance robot Sta prendendo sempre più piede l’utilizzo dei robot nel settore delle vendite. Tra le loro funzioni: assistenza del cliente alla cassa, rispondere alle domande degli acquirenti circa l’ubicazione degli articoli e assisterli nella scelta. Inoltre, pulire i pavimenti e consegnare i prodotti a domicilio. ChatGPT, l’AI generativa che compone testi ChatGPT, impariamo tutto sulla grande novità di OpenAI Intelligenza artificiale e Agenda Digitale in Italia L’intelligenza artificiale è da tempo sui tavoli di lavoro dell’AgID ed è uno dei temi ampiamente dibattuti e studiati nell’ambito dell’Agenda Digitale Italiana per comprendere come la diffusione di nuovi strumenti e tecnologie di IA possa incidere nella costruzione di un nuovo rapporto tra Stato e cittadini e analizzare le conseguenti implicazioni sociali relative alla creazione di ulteriori possibilità di semplificazione, informazione e interazione. Proprio seguendo questo “filone” è stata creata in Italia una Task Force, all’interno di AgID, i cui componenti hanno il compito di: – studiare e analizzare le principali applicazioni relative alla creazione di nuovi servizi al cittadino, definendo le strategie di gestione delle opportunità per la Pubblica Amministrazione; – mappare a livello italiano i principali centri – universitari e non – che operano nel settore dell’intelligenza artificiale con riferimento all’applicazione operativa nei servizi al cittadino; – mappare il lavoro già avviato da alcune amministrazioni centrali e locali proponendo azioni da intraprendere per l’elaborazione di policy strategiche; – evidenziare e studiare le implicazioni sociali legate all’introduzione delle tecnologie di intelligenza artificiale nei servizi pubblici. SEGUI LA PAGINA DI AGENDA DIGITALE E APPROFONDISCI sul valore dell’Intelligenza Artificiale nell’ambito dell’Agenda digitale dell’Italia Lo stato dell’arte delle normative sull’intelligenza artificiale Italia Nell’ottobre 2020 il governo italiano ha pubblicato la bozza di Strategia nazionale per l’Intelligenza Artificiale, basata sulle proposte avanzate a luglio da un gruppo di esperti. Il punto principale della Strategia è la formazione. L’ecosistema italiano dell’AI si basa su:  ricerca e trasferimento tecnologico;  produzione;  adozione. L’Italia, inoltre, fa parte della Global Partnership on AI (GPAI), iniziativa internazionale che lo scopo di favorire lo sviluppo responsabile dell’intelligenza artificiale per garantire il rispetto dei diritti umani, dell’inclusione e della diversità. Europa Il 21 aprile 2021 la Commissione Europea ha presentato una bozza di Regolamento sull’intelligenza artificiale, regole che saranno applicate direttamente e nello stesso modo in tutti gli Stati membri e che seguono un approccio basato sul rischio: maggiore il rischio, maggiori le regole. Per le aziende che non rispetteranno queste regole saranno previste multe fino al 6% del fatturato. Proposta di regolamentazione dell’intelligenza artificiale in Europa, un approfondimento Il Regolamento europeo sull’intelligenza artificiale e i suoi rapporti con il GDPR Regolamentazione dell’AI: le raccomandazioni del Centre for Information Policy Leadership Nel marzo 2022 la Commissione per il mercato interno e la protezione dei consumatori del Parlamento Europeo, oltre che della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni, ha pubblicato una relazione congiunta contenente delle raccomandazioni inerenti alla proposta di Regolamento sull’Intelligenza Artificiale. L’AI Act fa progressi: la Ue pubblica nuove raccomandazioni – AI4Business AI Act: Parlamento UE vicino a una posizione comune nelle prossime settimane Lavoro e intelligenza artificiale: presente e futuro Quando si parla di intelligenza artificiale non si può non toccare aspetti etici e sociali come quelli legati al lavoro e all’occupazione dato che i timori nella comunità globale crescono. Timori giustificati se si pensa che la metà delle attività lavorative di oggi potrebbe essere automatizzata entro il 2055. Qualsiasi tipo di lavoro è soggetto a una automazione parziale ed è partendo da questa considerazione che nel report A Future That Works: Automation, Employment and Productivity, realizzato da McKinsey Global Institute – MGI (un report di 148 pagine, disponibile sul sito del World Economic Forum di Davos, dove è stato ufficialmente presentato nello scorso gennaio), si stima che circa la metà dell’attuale forza lavoro possa essere impattata dall’automazione grazie alle tecnologie già note e in uso oggi. In realtà a mettere un freno ai timori che da mesi spopolano via web e social sulla responsabilità dell’intelligenza artificiale nel “distruggere” posti di lavoro arrivano diversi studi. Di seguito segnaliamo quelli più significativi:  secondo lo studio di Capgemini intitolato “Turning AI into concrete value: the successful implementers’ toolkit” l’83% delle imprese intervistate conferma la creazione di nuove posizioni all’interno dell’azienda, inoltre, i tre quarti delle società intervistate hanno registrato un aumento delle vendite del 10% proprio in seguito all’implementazione dell’intelligenza artificiale;  un recente report di The Boston Consulting Group e MIT Sloan Management Review dimostra che la riduzione della forza lavoro è temuta solo da meno della metà dei manager (47%), convinti invece delle potenzialità (l’85% degli interpellati pensa che permetterà alle aziende di guadagnare e mantenere un vantaggio competitivo). I rischi dell’intelligenza artificiale Gli economisti si interrogano da tempo su quali strumenti attivare per impedire che l’evoluzione della società verso un’economia a sempre minore intensità di lavoro – la cui evoluzione è oggi accelerata dall’intelligenza artificiale – non si traduca in un impoverimento della popolazione, situazione che richiederebbe una “redistribuire” della ricchezza considerando che la maggior parte di questa verrà prodotta dalle macchine. Alle tematiche sociali, si affiancano questioni etiche sullo sviluppo e l’evoluzione dell’intelligenza artificiale e delle nuove tecnologie. Ci si interroga da tempo sul “potere degli algoritmi” e dei big data, domandandosi se questi segneranno la superiorità del cervello delle macchine su quello dell’uomo. I timori (alimentati in rete da noti personaggi di spicco come Stephen Hawking ed Elon Musk) possono apparire eccessivi ma sottovalutare gli impatti dell’intelligenza artificiale potrebbe rappresentare il rischio numero uno. A mettere in guardia dai rischi dell’intelligenza artificiale è stato, primo fra altri personaggi di spicco, il noto Stephen Hawking: «non siamo in grado di prevedere cosa riusciremo a fare quando le nostre menti saranno amplificate dall’intelligenza artificiale – ha detto il fisico durante l’ultimo Web Summit di Lisbona -. Forse, con strumenti nuovi, riusciremo anche a rimediare a tutti i danni che stiamo provocando alla natura, e magari saremo anche in grado di trovare soluzioni definitive a povertà e malattie. Ma… è anche possibile che con la distruzione di milioni di posti di lavoro venga distrutta la nostra economia e la nostra società». «L’intelligenza artificiale potrebbe essere il peggior evento della storia della nostra civiltà – è la visione drammatica dell’astrofisico -. Porta con sé pericoli, come potenti armi automatiche, nucleari o biologiche, addirittura abilita nuovi modi per permettere a pochi individui ed organizzazioni di opprimere e controllare moltitudini di uomini (e cose). Dobbiamo prepararci a gestirla per evitare che questi potenziali rischi prendano forma e diventino realtà». Sorprende anche che l’ultimo monito sia venuto proprio da un imprenditore di successo come Elon Musk. “L’intelligenza artificiale è il più grande rischio cui la nostra civilizzazione si trova a far fronte”, ha avvertito. In particolare ha evidenziato i rischi di una guerra scatenata dai computer o una catastrofe occupazionale dovuta a decisioni basate soltanto sulle elaborazioni dell’intelligenza artificiale, unico vero pilastro dominante dell’economia del futuro capace di riservare alle macchine migliaia, forse milioni, di lavori oggi ancora gestiti agli uomini. Intelligenza artificiale decentralizzata: cos’è e perché può essere la risposta ai problemi etici La comunità scientifica internazionale sta lavorando da tempo alla cosiddetta superintelligenza, una intelligenza artificiale generale [la ricerca in questo campo ha come obiettivo la creazione di una AI – artificial intelligence capace di replicare completamente l’intelligenza umana; fa riferimento alla branca della ricerca dell’intelligenza artificiale forte secondo la quale è possibile per le macchine diventare sapienti o coscienti di sé, senza necessariamente mostrare processi di pensiero simili a quelli umani – ndr]. Tuttavia i rischi sono elevatissimi, soprattutto se a portare avanti la ricerca sono poche aziende in grado di dedicare ingenti risorse (economiche e di competenze) ai progetti più innovativi. Decentralizzare l’intelligenza artificiale e fare in modo che possa essere progettata, sviluppata e controllata da una grande rete internazionale attraverso la programmazione open source è per molti ricercatori e scienziati l’approccio più sicuro per creare non solo la superintelligenza ma democratizzare l’accesso alle intelligenze artificiali, riducendo i rischi di monopolio e quindi risolvendo problemi etici e di sicurezza. Oggi, una delle preoccupazioni maggiori in tema di intelligenza artificiale riguarda proprio l’utilizzo dei dati e la fiducia con la quale le AI sfruttano dati ed informazioni per giungere a determinate decisioni e/o compiere azioni specifiche. La mente umana, specie quando si tratta di Deep Learning (per cui vi rimandiamo alla lettura del servizio “Cos’è il Machine Learning, come funziona e quali sono le sue applicazioni” per avere un quadro di maggior dettaglio), non è in grado di interpretare i passaggi compiuti da una intelligenza artificiale attraverso una rete neurale profonda e deve quindi “fidarsi” del risultato raggiunto da una AI senza capire e sapere come è giunta a tale conclusione. In questo scenario, la blockchain sembra essere la risposta più rassicurante: l’uso della tecnologia blockchain consente registrazioni immutabili di tutti i dati, di tutte le variabili e di tutti i processi utilizzati dalle intelligenze artificiali per arrivare alle loro conclusioni/decisioni. Ed è esattamente ciò che serve controllare in modo semplice l’intero processo decisionaledell’AI.

martedì 4 aprile 2023

Sentenza Cassazione. Azione partigiani in via Rasella a Roma, legittimo atto di guerra.

Cassazione penale, sez.1 18 marzo 1999( c.c 23febbraio 1999) Pres. Teresi- Rel . MabelliniP.M. (Parz. Conf.)- Bentivegna e altri, ricorrenti. Diritto penale militare VIA RASELLA: LEGITTIMA AZIONE DI GUERRA Cassazione penale, Sez. I, 18 marzo 1999 (c.c. 23 febbraio 1999) - Pres. Teresi - Rel. Mabellini - P.m. (parz. conf.) - Bentivegna e altri, ricorrenti Il fatto commesso da un gruppo di partigiani in via Rasella a Roma il 23 marzo 1944 ai danni del battaglione di polizia tedesca occupante la città, per la qualità di chi lo commise, per l’obiettivo contro cui era diretto, e per la finalità che lo animava rientra, in tutta evidenza, nell’ambito di applicazione del d.lgs. lgt. 12 aprile 1945, n. 149, che considera azione di guerra ogni operazione compiuta dai patrioti per la necessità di lotta contro tedeschi e fascisti nel periodo dell’occupazione nemica. Omissis. - I - Con “ordinanza” 16 aprile 1998 il G.i.p. del Tribunale di Roma disponeva l’archiviazione del procedimento a carico di Bentivegna Rosario, Capponi Carla e Balsamo Pasquale, avente ad oggetto l’ipotesi del reato di strage prevista dall’art. 422 c.p. in relazione all’attentato compiuto in Roma, via Rasella, il 23 marzo 1944. Il procedimento era stato instaurato su denuncia di prossimi congiunti di civili rimasti uccisi nell’attentato (Iacquinti e Zuccheretti), o uccisi dai Tedeschi alle “Fosse Ardeatine” (Gigliozzi), nonché da Forti Giorgio quale “Segretario Generale Nazionale del Comitato di difesa del cittadino”. Chiesta dal P.m. l’archiviazione, per estinzione del reato in virtù dell’amnistia disposta con d.P.R. 5 aprile 1944, n. 96, trattandosi di atti commessi “per motivi di guerra” (nel senso di compiuti al fine di liberare l’Italia dall’occupazione tedesca, ma non qualificabili come “atti di guerra” in senso stretto) ed oppostesi le parti offese, il G.i.p. aveva ordinato ulteriori indagini, escludendo la notorietà dell’episodio, quanto alle concrete modalità con le quali esso si era svolto, e ritenendo necessario accertare se la strage corrispondesse al fine ritenuto dalle ricostruzioni storiche ovvero a meno nobili ragioni relative ai contrasti tra i gruppi politici che componevano il fronte di liberazione nazionale. In esito alle indagini, il G.i.p., con il provvedimento qui impugnato, ricostruiva il fatto, ed escludeva che esso potesse rientrare tra le azioni di guerra non punibili, indicate dal d.lgs. lgt. n. 194 del 1945 come “gli atti di sabotaggio, le requisizioni ed ogni altra operazione compiuta dai patrioti per la necessità di lotta contro i tedeschi ed i fascisti nel periodo dell’occupazione nemica”. Osservava che la qualificazione del fatto come “atto legittimo di guerra” attribuita dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite civili (sentenza n. 3053 del 19 luglio 1957) non aveva valore nel procedimento penale, e che, trattandosi di reato che offende beni personalissimi dell’uomo, non era applicabile la “speciale causa di non punibilità” prevista dal d.lgs. lgt. 12 aprile 1945, n. 194. Ricordava che gli artt. 174 e 175 c.p.m.g. puniscono i metodi ed i mezzi di guerra vietati dalla legge o dalle convenzioni internazionali, sottolineando che, in caso di interpretazione diversa, mancherebbe di significato l’amnistia emanata, relativa a “qualsiasi tipo di reato”. Escludeva pertanto che il fatto potesse qualificarsi “atto legittimo di guerra”, e ravvisava invece tutti gli estremi oggettivi e soggettivi del reato di strage. Riteneva, sulla base degli atti di indagine disposti, che l’attentato, nell’intenzione degli agenti, fosse stato progettato ed attuato sicuramente a fini patriottici indicati dal d.lgs. lgt. n. 96 del 1944, e disponeva di conseguenza l’archiviazione degli atti dichiarando estinto il reato per amnistia, in conformità a quanto richiesto sin dall’inizio dal P.m. Osservava poi che nella fase delle indagini preliminari non è consentita l’applicazione dell’art. 129 comma 2 c.p.p., con esame del merito, riservato al processo in senso proprio, e che quindi il giudice era esonerato “da ogni valutazione circa l’applicabilità o meno alla presente fattispecie delle disposizioni di cui al d.lgs. lgt. 12 aprile 1945, n. 194 sulla non punibilità delle azioni di guerra dei patrioti nell’Italia occupata”; aggiungeva da ultimo: “Dopo tutto quanto sin qui esposto, ci si potrà forse chiedere alla fine se quel che avvenne in via Rasella il 23 marzo 1944 sia stato veramente necessario od anche soltanto opportuno, avuto riguardo alla prevedibilità di una spietata reazione da parte dei tedeschi. Ad avviso del decidente, però, tali questioni, sulle quali si sono insistentemente soffermate le parti offese, se possono trovare legittimo ingresso nell’ambito di un dibattito etico, politico e storico, non possono assumere rilevanza giuridica alcuna ai fini del presente procedimento. Né, d’altro canto, è consentito al giudice esprimere valutazioni che non siano estremamente pertinenti al ‘thema decidendum’ ad esso assegnato”. II - Hanno proposto ricorso in cassazione Balsamo Pasquale, Bentivegna Rosario e Capponi Carla, partecipi all’attentato, deducendo i seguenti motivi, approfonditi dalla memoria difensiva successivamente depositata. 1) Il provvedimento impugnato doveva considerarsi abnorme, poiché il giudice, prima di affermare di non poter scendere nel merito, come consentito nella fase dibattimentale dall’art. 129 comma 2 c.p.p., e di essere esonerato dal valutare l’applicabilità alla specie del d.lgs. lgt. 12 aprile 1995, n. 194 sulla non punibilità delle azioni di guerra dei patrioti nell’Italia occupata, si era profuso sul tema, giungendo alla conclusione che l’attentato di via Rasella G GIURISPRUDENZA Decisioni commentate 737 DIRITTO PENALE E PROCESSO n. 6/1999 non poteva essere qualificato come atto legittimo di guerra, sulla base di una discutibilissima analisi delle disposizioni di diritto internazionale e della normativa post-bellica. La costruzione irrituale, fondata anche su precedenti giurisprudenziali distorti, qualificava l’ordinanza tra i cosiddetti “atti extra-vagantes” ricorribili per cassazione. 2) Le valutazioni espresse dal G.i.p. sulla non configurabilità dell’attentato di via Rasella quale atto di guerra, con riferimento al codice penale militare di guerra, non erano di sua competenza. La legittimità dell’atto era già stata comunque ritenuta in altre sentenze, tra cui quella emessa dalle Sezioni Unite civili della Cassazione, nella quale si era correttamente considerato che l’assoluta discrezionalità dell’attività bellica non consente al giudice alcun controllo diverso da quello relativo alle finalità dell’atto. 3) Il provvedimento di archiviazione non può mai contenere accertamenti pregiudizievoli alla persona sottoposta alle indagini o ai terzi, principio questo conforme all’art. 24 della Costituzione e disatteso nel caso in esame. 4) Dovrebbe altrimenti dichiararsi costituzionalmente illegittimo l’art. 129 comma 2 c.p.p., in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui non ne è consentita l’applicazione al giudice al quale il p.m. abbia richiesto l’archiviazione degli atti. Nella memoria difensiva l’eccezione di incostituzionalità veniva sviluppata in modo diverso, con riferimento all’art. 411 c.p.p., “in relazione agli artt. 3/1° comma, 24/2° comma, 111/2° comma Cost. per la parte in cui applica le disposizioni di cui all’art. 409 1° comma c.p.p., e quindi consente l’archiviazione degli atti anche nel caso in cui l’applicazione dell’amnistia sia subordinata ad un procedimento giurisdizionale di accertamento costitutivo nel quale la valutazione della sussistenza nel fatto di determinate circostanze (nella specie, la particolare finalità patriottica del fatto) e del loro valore rappresenta l’intervento necessario ed inderogabile della scienza e della volontà del giudice che contribuisce a rendere concreta ed effettiva la realtà estintiva astrattamente delineata dal legislatore”. Si rileva la disparità di trattamento tra i cittadini che a norma dell’art. 129 c.p.p. sono ammessi a dimostrare l’esistenza delle condizioni di cui al 2° comma dello stesso articolo, e perciò ad ottenere eventualmente una sentenza di assoluzione o di improcedibilità, e ad impugnare, se del caso, la sentenza stessa, in conformità al diritto inviolabile di difesa ed al principio di ricorribilità delle sentenze, e coloro che restano privati di tutti tali diritti e facoltà in forza di un sommario procedimento di archiviazione, che tuttavia motiva il suo aspetto decisorio con l’apodittica affermazione relativa all’esistenza del reato. L’incostituzionalità dell’art. 411 c.p.p. è eccepita nella memoria, con riferimento all’art. 77 della Costituzione, anche sotto il diverso profilo della violazione dell’art. 2 n. 50 della legge delega n. 81 del 1987, che prevede la possibilità dell’archiviazione solo per manifesta infondatezza della notizia di reato, per essere ignoti gli autori dello stesso o per improcedibilità dell’azione penale, mentre le due fattispecie sono richiamate nella direttiva 52 fra i casi per i quali può essere pronunziata sentenza di non doversi procedere ai sensi dell’art. 425 c.p.p., come modificato dalla l. 8 aprile 1993, n. 105. III - Il Procuratore Generale presso questa Corte nella propria requisitoria scritta disattende la tesi difensiva concernente l’abnormità del procedimento impugnato. Considera che “se non appare contestabile che il G.i.p., pur invocando principio del tutto diverso, si sia di fatto lasciato andare a giudizi di merito, peraltro “moralmente” sfavorevoli agli indagati, questa operazione - sui cui contenuti opinabili dal punto di vista giuridico e storico è opportuno in questa sede non soffermarsi per non introdurre ulteriori motivi fuorvianti - è stata attuata per così dire andando “oltre” quanto fosse per forma e sostanza necessario a dare concrete risposte alla richiesta di archiviazione. Questa sovrabbondanza per la sua “smaccata” ultroneità non è capace di comunicare i suoi “vizi” all’organica - e chiaramente sussistente - compatibilità con le premesse poste dal P.m. ossia al suo contenuto decisorio”. Ritiene manifestamente infondata la eccezione di costituzionalità proposta, considerando che proprio le censure dei ricorrenti sull’uso distorto del principio di cui all’art. 129 comma 2 fatto nell’ordinanza indicano come non sia verificabile in astratto la dedotta disparità di trattamento. Conclude per l’inammissibilità del ricorso proposto. IV - Ciò premesso, la Corte osserva quanto segue. 1) Il decreto di archiviazione disciplinato dagli artt. 408 - 411 c.p.p. è un provvedimento concepito dal legislatore come anteriore all’esercizio dell’azione penale, correlato alla insussistenza degli estremi per esercitarla, che in nessun modo può pregiudicare gli interessi della persona indicata come responsabile nella notizia di reato, o l’interesse della pubblica accusa a riaprire le indagini nel caso previsto dall’art. 414 c.p.p. Per tale sua natura, di provvedimento in qualche modo “neutro”, non ne sono previsti mezzi d’impugnazione. 2) L’unica forma d’impugnazione consentita contro il decreto di archiviazione è connessa alla sua eventuale abnormità, in virtù della giurisprudenza che ammette il ricorso per cassazione, a norma dell’art. 111 della Costituzione, nei confronti del provvedimento caratterizzato da vizi “in procedendo” o “in iudicando” del tutto imprevedibili per il legislatore, il quale proprio per l’estraneità dell’atto al sistema legislativo non ha previsto contro di esso alcun mezzo d’impugnazione (sul punto, tra le altre, Cass., Sez. III, 8 agosto 1996, Cammarata, RV. 206058). Secondo le Sezioni Unite di questa Corte (12 febbraio 1998, n. 17, Di Battista, RV. 209603) “è affetto da abnormità non solo il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risulti avulso dall’intero ordinamento processuale, ma anche quello che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e dalle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite. L’abnormità dell’atto processuale può riguardare tanto il profilo strutturale, allorché l’atto, per la sua singolarità, si ponga al di fuori del sistema organico della legge processuale, quanto il profilo funzionale, quando esso, pur non ▲ estraneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e l’impossibilità di proseguirlo”. 3) I ricorrenti deducono l’abnormità del provvedimento di archiviazione adottato nei loro confronti per essere estinto “il reato contestato” (cfr. pag. 29 del provvedimento impugnato) per amnistia, siccome emesso in esito ad ampia e particolareggiata motivazione con la quale si è accertata la loro colpevolezza per il delitto di strage. La doglianza formulata, considerata in astratto, corrisponde al concetto di abnormità considerato, poiché la natura “neutra” del decreto di archiviazione, emesso in una fase in cui gli elementi relativi alla notizia di reato sono ancora amorfi e fluidi, è radicalmente incompatibile con la dichiarata e motivata attribuzione di un reato ad un determinato soggetto. Un provvedimento che abbia le caratteristiche denunziate nel ricorso si pone pertanto al di fuori del sistema legislativo, che impone l’esercizio in contraddittorio dell’azione penale prima dell’accertamento di un reato a carico di una persona denunciata. L’abnormità lamentata in coerenza alla natura del provvedimento impugnato rende quindi ammissibile l’unico mezzo d’impugnazione consentito nella ipotesi considerata. 4) Il ricorso, oltre che ammissibile, è fondato, poiché l’abnormità denunziata è reale. Il provvedimento di archiviazione impugnato, che l’art. 409 c.p.p. prevede sia emesso nelle forme del “decreto”, è qualificato come “ordinanza”, ed ha peraltro il taglio motivazionale tipico della sentenza, in quanto, dopo aver ricostruito il fatto ed il ruolo in esso svolto dai tre ricorrenti, per ben sei pagine (ff. 24-29) si esprime sulla qualificazione di esso e sulla configurabilità del delitto di strage. Lo schema è quello previsto dall’art. 129 c.p.p., del quale a pag. 35 il G.i.p. riconosce peraltro la inapplicabilità alla fase delle indagini, ammettendo espressamente che le questioni poste dalle parti offese, oggetto della motivazione precedentemente estesa, non potevano “assumere rilevanza alcuna ai fini del presente procedimento”. Osserva al riguardo il Collegio che ai sensi degli artt. 408 e 411 c.p.p. l’archiviazione può essere disposta se la notizia di reato è infondata, ovvero perché manca una condizione di procedibilità, perché il reato è estinto o perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. All’archiviazione non si applica l’art. 129 c.p.p., che al secondo comma dispone la prevalenza delle cause di declaratoria di non punibilità di natura sostanziale rispetto a quelle connesse alla estinzione del reato. La norma è infatti dettata per “ogni stato e grado del processo”, ed è quindi estranea alla fase in questione, anteriore all’esercizio dell’azione penale (in senso conforme, Cass., Sez. VI, 5 marzo 1998, Boccardi, RV. 210826; Sez. V, 18 marzo 1997, Giustini, RV. 207901; Sez. VI, 7 settembre 1994, Rosco, RV. 199084; sulla manifesta infondatezza della questione di costituzionalità proposta sul punto specifico con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., Cass., Sez. VI, 7 luglio 1992, Zanetti ed altri, RV. 191053, che ha escluso la disparità di trattamento denunziata rispetto al rinviato a giudizio nei cui confronti debba essere emessa sentenza di proscioglimento, in considerazione dell’assoluta diversità delle situazioni disciplinate, e dell’assenza, in caso di archiviazione, di diritti o interessi da tutelare in capo al soggetto). La inapplicabilità al decreto di archiviazione dell’art. 129 c.p.p. comporta che il giudice, al quale il provvedimento sia chiesto per motivi attinenti all’estinzione del reato, non debba motivare in ordine alla impossibilità di archiviare per motivi diversi, inerenti alla non configurabilità del reato. Si è ritenuto peraltro, in considerazione del favore che incontra nel nostro ordinamento la scelta della formula liberatoria più ampia, che il G.i.p. al quale sia stata chiesta l’archiviazione per difetto di una condizione di proseguibilità o di procedibilità dell’azione penale o per intervenuta estinzione del reato possa, in alternativa all’adesione alla richiesta del P.m., archiviare la “notitia criminis” per manifesta infondatezza ai sensi dell’art. 408 c.p.p. (in tal senso, Cass., Sez. VI, 19 ottobre-16 novembre 1990, Sica, RV. 185768, edita in Foro it., 1991, II, 516). Non è invece ammissibile che l’analisi e le conclusioni del G.i.p. in tale fase si rivolgano “in malam partem”, facendo precedere alla indicazione del motivo formale per il quale l’archiviazione è disposta una motivazione sostanziale, che concerna la configurabilità del reato e la responsabilità dell’indagato in ordine ad esso (nello stesso senso la sentenza sopra citata, che ha ritenuto l’abnormità del provvedimento con il quale il G.i.p., a fronte della richiesta del p.m. di archiviazione degli atti per estinzione dei reati per amnistia, prima di esprimersi in senso conforme aveva accertato con diffusa motivazione l’esistenza di elementi di responsabilità a carico del denunciato. Conformi Cass. Sez. VI, 7 settembre 1994, Rosco, RV. 199084, che ha ritenuto abnorme il decreto di archiviazione emesso per amnistia, preceduto dal rilievo che non risultava evidente l’insussistenza del fatto, e che la qualificazione giuridica era corretta; Sez. V, 9, 18 marzo 1997, Giustini, RV. 207901, in tema di provvedimento pronunciato prima dell’esercizio dell’azione penale, nel quale il g.i.p. con riferimento all’art. 129 c.p.p. ha usato la formula, anziché di archiviazione, di “non luogo a procedere a carico dell’indagato in conseguenza della morte di questi”, preceduta dalla valutazione sulla mancanza di manifesti elementi in base ai quali prosciogliere nel merito). Poiché nella specie il provvedimento impugnato ha assunto natura diversa da quella meramente dichiarativa e delibativa propria del decreto di archiviazione, e contiene uno specifico accertamento “in malam partem” espresso nei confronti di persone nei cui confronti l’azione penale non era stata esercitata, si ravvisa la sua abnormità in dipendenza dell’accertamento predetto, indipendentemente dalla correttezza o infondatezza delle motivazioni che tale accertamento sorreggono. Dalla ritenuta abnormità segue l’annullamento del provvedimento medesimo. 5) Le considerazioni che precedono evidenziano la irrilevanza, e al tempo stesso la manifesta infondatezza, della eccezione di costituzionalità proposta. Gli artt. 408 - 411 c.p.p. non danno spazio per valutazioni concernenti in positivo la responsabilità dell’indagato per un reato determinato, accompagnate dalla archiviazione della “notitia criminis” re- ▲ G GIURISPRUDENZA Decisioni commentate 738 DIRITTO PENALE E PROCESSO n. 6/1999 G GIURISPRUDENZA Decisioni commentate 739 DIRITTO PENALE E PROCESSO n. 6/1999 lativa, e non può profilarsi, né si profila nel caso di specie, la lesione dei diritti e degli interessi lamentata in conseguenza di un provvedimento che, in quanto abnorme, è ricorribile in sede di legittimità e che deve essere annullato. 6) L’annullamento del provvedimento, qualificato come abnorme, pone al Collegio il problema di ulteriormente provvedere in ordine alla possibilità di dare in questa sede le disposizioni necessarie per rendere la decisione impugnata conforme alla legge, a norma dell’art. 620 lett. l c.p.p. In questa prospettiva compete certamente a questa Corte l’obbligo di considerare se il fatto, quale emerge dalle richieste del P.m. e dalla ricostruzione attuata sulla base delle indagini disposte dal G.i.p., non risulti previsto dalla legge come reato: e ciò in relazione alle specifiche osservazioni formulate con il ricorso. Va osservato al riguardo: a) L’attentato di via Rasella del 23 marzo 1944 ai danni del battaglione di polizia tedesca “Bozen”, nel quale rimasero coinvolti alcuni civili italiani, fu compiuto mentre era in corso l’occupazione di gran parte del territorio nazionale ad opera dei Tedeschi a seguito degli eventi successivi all’armistizio dell’8 settembre 1943. A tale occupazione non si sottraeva Roma, che nonostante la sua qualifica di “città aperta” (attribuita unilateralmente dal Governo Italiano prima dell’armistizio: cfr. Cass., Sez. U. Civ., 19 luglio 1957 n. 3053, in Foro it. 1957, I, 1398), era presidiata da truppe tedesche e sottoposta ad un durissimo controllo di polizia militare e politica. Contro tale occupazione in Roma e in tutta l’Italia centro-settentrionale sin dal 9 settembre 1943 si erano andati spontaneamente organizzando gruppi di resistenza sia politica che militare. L’attentato, accuratamente preparato (cfr. anche pag. 33 provvedimento impugnato), fu deciso ed attuato da appartenenti a formazioni dei G.A.P. (Gruppi Azione Patriottica), dipendenti dal Comando Garibaldi per l’Italia Centrale, e comandati in Roma all’epoca del fatto da Carlo Salinari. Essi erano collegati alla Giunta Militare del C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) attraverso Giorgio Amendola ed altri. I G.A.P. rivendicarono apertamente la paternità dell’azione, diretta a contrastare l’occupazione tedesca ed a restituire le libertà conculcate dal regime fascista. L’azione fu attuata facendo esplodere, mediante detonatore collegato ad una miccia, 18 kg. di tritolo contenuti in un carretto per la spazzatura, in coincidenza del passaggio, usuale e previsto, di una compagnia del battaglione “Bozen”. Secondo la ricostruzione del consulente tecnico della parte offesa Zuccheretti, riportata nel provvedimento impugnato (pag. 14), l’esplosione dell’ordigno ebbe a determinare la morte di 42 soldati tedeschi (dei quali 32 morti quasi immediatamente e gli altri nei giorni seguenti), e di almeno due civili italiani, il minore Pietro Zuccheretti e Antonio Chiaretti. b) Il fatto oggetto della richiesta di archiviazione proposta dal P.m. e del provvedimento impugnato per la qualità di chi lo commise, per l’obbiettivo contro il quale era diretto e per la finalità che lo animava, rientra, in tutta evidenza, nell’ambito di applicazione del d.lgs. lgt. 12 aprile 1945, n. 194, che dispone: “Sono considerate azioni di guerra, e pertanto non punibili a termini delle leggi comuni, gli atti di sabotaggio, le requisizioni e ogni altra operazione compiuta dai patrioti per la necessità di lotta contro i tedeschi e i fascisti nel periodo dell’occupazione nemica. Questa disposizione si applica tanto ai patrioti inquadrati nelle formazioni militari riconosciute dai comitati di liberazione nazionale, quanto agli altri cittadini che li abbiano aiutati o abbiano, per loro ordine, in qualsiasi modo concorso nelle operazioni per assicurarne la riuscita”. Dalle premesse che precedono consegue che devono essere considerati infondati i motivi per i quali il pubblico ministero che ha chiesto l’archiviazione prima, ed il G.i.p. poi, hanno escluso l’applicabilità della norma alla specie, sotto il profilo che le operazioni considerate dell’articolo unico del decreto luogotenenziale citato sarebbero esclusivamente quelle “di contorno”, non coinvolgenti diritti primari della persona umana. Il termine “operazioni”, applicato ad un contesto che storicamente è di lotta armata, comprende qualsiasi atto, anche cruento, volto a combattere il nemico. La “Legge di guerra” approvata con r.d. 8 luglio 1938, n. 1415, All. A, dedica l’intero “Titolo secondo” alle “operazioni belliche”, che comprendono “atti di ostilità” (Capo II, Sez. I) implicanti “l’uso della violenza” (art. 35), e il “bombardamento” (Capo I, Sez. II). L’interpretazione riduttiva del termine appare infatti non corretta dal punto di vista letterale, poiché contrasta con l’espressione “ogni altra” che immediatamente lo precede; collide con la struttura sistematica dell’articolo unico del decreto luogotenenziale, che collocando nell’ambito delle “azioni di guerra” gli atti menzionati non può prescindere da quelle che sono in genere le caratteristiche delle azioni nel cui novero gli atti medesimi sono inseriti; stride con la volontà del legislatore, desunta dalla situazione storica nella quale la norma è stata emanata, indirizzata ad attribuire riconoscimento di liceità ad ogni azione diretta alla liberazione del territorio nazionale ed alla fine del regime fascista, volontà palesemente espressa in una serie di disposizioni di legge dell’epoca e successive, che qui di seguito si richiamano. – Il d.lgs. lgt. 21 agosto 1945, n. 518, ha disciplinato “il riconoscimento delle qualifiche di partigiani e l’esame delle proposte di ricompensa” in dipendenza della lotta armata partigiana. – Il d.lgs. lgt. 5 aprile 1945, n. 158, ha riconosciuto la qualifica di “patriota combattente”, comportante benefici di vario genere, tra gli altri, “agli organizzatori e ai componenti stabili od attivi di bande, le quali abbiano effettivamente partecipato ad azioni di combattimento o di sabotaggio” (art. 9 lett. a-, nel quale l’equiparazione tra combattimento e sabotaggio evidenzia come sia errato, dalla menzione del sabotaggio contenuta nel d.lgs. lgt. n. 194 del 1945 qui in esame, desumere un significato ridotto, concernente azioni di semplice “contorno”, del successivo termine “operazioni”). – Il d.lgs. C.p.S. 6 settembre 1946, n. 266, che ha disciplinato il risarcimento a carico dello Stato dei danni causati dalle “operazioni della guerra” poste in essere dalle forze armate nazionali, alleate o ne- ▲ miche, equipara alle forze armate “le formazioni volontarie partecipanti alle operazioni belliche”. – La l. 21 marzo 1958, n. 285, titolata “Riconoscimento giuridico del corpo Volontari della libertà (C.V.L.)”, ha riconosciuto il corpo stesso “ad ogni effetto, come corpo militare organizzato inquadrato nelle forze armate dello Stato”, con i conseguenti benefici economici e di carriera. Si tratta di provvedimenti normativi connessi alla nostra Storia, alla formazione della Repubblica Italiana ed ai principi sui quali la Costituzione si fonda (si pensi alla XII Disposizione Transitoria alla Costituzione), conformi alla “intenzione del legislatore” pur se considerata oltre al momento in cui è stata espressa ed in senso attuale. Né la circostanza che l’amnistia disposta con d.lgs. lgt. 5 aprile 1944, n. 96, avesse quale oggetto “tutti i reati, quando il fine che li ha determinati sia stato quello di liberare la patria dall’occupazione tedesca, ovvero quello di ridare al popolo italiano le libertà soppresse o conculcate dal regime fascista” (art. 1), è dato idoneo ad escludere che un’azione avente le caratteristiche e gli effetti propri dell’attentato di via Rasella rientri nell’ambito di applicabilità del decreto luogotenenziale n. 194 del 1945. La promulgazione dell’amnistia è precedente, non successiva, al d.lgs. lgt. n. 194 del 1945, che ha tolto in radice la natura di reato, inserendola tra le “azioni di guerra”, ad ogni “operazione compiuta da patrioti per la necessità di lotta contro i tedeschi e i fascisti nel periodo dell’occupazione fascista”. Ed ha una sua innegabile e profonda “ratio” il fatto che, in quel momento storico, all’ampia formula dell’amnistia disposta per un numero grandissimo di reati, individuati soltanto in relazione alla finalità perseguita, si sia poi riconosciuta la totale irrilevanza ai fini penali di alcuni di essi, aventi caratteristiche soggettive, obbiettivi e modalità operative tali da renderli assimilabili ad ogni effetto ad “azioni di guerra”. Quanto alla “necessità di lotta” contro gli obbiettivi indicati, si rileva che la natura dell’attività bellica rende la valutazione sul punto discrezionale, evidentemente non sottoponibile da parte del giudice ordinario ad un controllo che coinvolga “a posteriori” la efficacia dell’operazione prescelta a conseguire gli obbiettivi strategici perseguiti. Nel caso di specie l’attentato, commesso nei confronti di una formazione nemica che occupava il territorio nazionale, volto a contrastrare l’occupazione stessa, appare caratterizzato da quegli inequivoci requisiti strutturali e teleologici che consentano al giudice di qualificare l’azione predetta come “azione di guerra” in base al decreto luogotenenziale citato. c) Si devono pertanto condividere le argomentazioni - richiamate espressamente dal G.i.p., ma dallo stesso disattese (cfr. pagg. 24 e segg. provvedimento) - con le quali le Sezioni Unite civili di questa Corte con la sentenza 19 luglio 1957, n. 3053, sopra citata, pronunciando in tema di risarcimento del danno richiesto dalle vittime civili dell’attentato di via Rasella, ha stabilito che “la lotta partigiana è stata considerata dalla legislazione italiana quale legittima attività di guerra”, con conseguente improponibilità dell’azione risacitoria proposta. La statuizione, è chiaro, non vincola il giudice penale, a norma degli artt. 2 e 3 c.p.p., nel senso che non opera con efficacia di giudicato, ma costituisce indubbiamente un precedente significativo per l’analisi penetrante ed esaustiva sviluppata sullo specifico tema concernente la qualificazione dell’attività svolta dai gruppi partigiani avuto riguardo, in particolare, alla diversa posizione attribuibile agli stessi in relazione, da un lato, agli atti di ostilità compiuti, all’epoca dei fatti in esame, nei confronti degli occupati tedeschi, e, dall’altro, al loro rapporto nell’ambito dell’ordinamento (interno) italiano. Diverse, ma da un attento esame non confliggenti, le situazioni e le conseguenti valutazioni recepite nelle pronunce degli organi della giustizia militare concernenti l’attentato di via Rasella, ed aventi per oggetto la “rappresaglia” attuata il giorno successivo dalle Forze Armate con l’uccisione di 335 cittadini italiani alle Fosse Ardeatine. Con sentenza 20 luglio 1948, n. 631, emessa contro Kappler ed altri (in “Rassegna della Giustizia Militare”, 1996, nn. 3-6, pag. 3), il Tribunale Militare di Roma, che pur ha escluso la legittimità della rappresaglia per violazione del principio della proporzione, ha negato la natura di legittima azione di guerra dell’attentato, in quanto non commesso da “legittimi belligeranti”, in rapporto alla clandestinità dell’organizzazione partigiana, all’epoca priva dei requisiti richiesti dall’art. 1 della Convenzione dell’Aia del 18 agosto 1907. Proposto ricorso da Kappler, il Tribunale Supremo Militare, con sentenza 25 ottobre 1952, n. 1711 (ibidem, pag. 83), ha rovesciato tale impostazione, dichiarando illegittimo l’esercizio della rappresaglia in relazione alla legittimità dell’azione italiana: “Via Rasella, alla luce delle norme del diritto internazionale, si pone in termini di rigorosa linearità: la sua qualificazione non può essere altro che quella di un atto di ostilità a danno delle forze militari occupanti, commesso da persone che hanno la qualità di legittimi belligeranti”. Il tema della liceità dell’attentato, collegato alla illiceità dell’atto ritorsivo attuato con l’eccidio delle Fosse Ardeatine, nelle due sentenze menzionate è stato affrontato in rapporto alla controversa qualità di legittimi belligeranti degli attentatori all’epoca del fatto contestato, e non poteva certamente essere risolto con riferimento al decreto luogotenenziale n. 194 del 1945, emanato successivamente alla “rappresaglia” in questione. Tale soluzione non era consentita né dall’art. 23 c.p.m.g. sulla ultrattività della legge penale militare di guerra, né dagli artt. 25 comma 2 della Costituzione e 2 comma 1 c.p., per i quali il riconoscimento della legittimità dell’azione di via Rasella, in quanto qualificata con effetto retroattivo “azione di guerra”, non poteva valere ai fini della individuazione dell’illecito penale contestato in quel procedimento. Restano quindi estranee al “thema decidendum” attuale le motivazioni, formulate nella prima sentenza citata, inerenti alla illegittimità dell’attentato con riferimento agli artt. 25 e 27 della legge di guerra (all. A al r.d. 8 luglio 1938, n. 1435, articoli di cui peraltro le Sezioni civili di questa Corte, nell’ambito di un “obiter dictum” contenuto nella ▲ G GIURISPRUDENZA Decisioni commentate 740 DIRITTO PENALE E PROCESSO n. 6/1999 G GIURISPRUDENZA Decisioni commentate 741 DIRITTO PENALE E PROCESSO n. 6/1999 sentenza citata, disconoscono l’applicabilità al caso di specie, in quanto tali norme erano dirette solo a limitare i poteri dello Stato italiano nei confronti dei cittadini di altri Stati con i quali sia in guerra), in rapporto alla clandestinità dell’organizzazione partigiana, all’epoca priva dei requisiti richiesti dall’art. 1 della Convenzione dell’Aia del 18 ottobre 1907, per la quale un atto di guerra legittimo può essere compiuto solo dagli eserciti regolari ovvero da corpi volontari che, oltre ad essere comandati da una persona responsabile per i subordinati, abbiano un segno distintivo fisso e riconoscibile a distanza, e portino apertamente le armi. Ma ciò posto in evidenza, non ne deriva affatto la non riconducibilità allo Stato italiano, per quanto si riferisce al coinvolgimento nell’attentato anche di vittime civili, dell’azione dei partigiani. Occorre rammentare infatti che, sin dopo la dichiarazione dello stato di guerra nei confronti della Germania (13 ottobre 1943), il Governo legittimo aveva incitato tutti gli Italiani a ribellarsi ed a contrastare con ogni mezzo l’occupazione tedesca (cfr. Cass., Sez. U. civ., n. 3053 del 1957 citata). Il fatto, innegabile, ma comune a tutti i movimenti di resistenza, del loro carattere clandestino nei momenti iniziali, non è affatto in contrasto, pertanto, con il riconoscimento delle attività in esame quali atti tipici di guerra. E la successiva legislazione si è limitata semplicemente a darne atto. d) La legittimità dell’operazione considerata, unitaria nell’azione e nello scopo perseguito, deve essere pertanto valutata nel suo complesso, senza che sia possibile scinderne le conseguenze a carico dei militari tedeschi che ne costituivano l’obbiettivo da quelle coinvolgenti i civili che ne rimasero vittima, in rapporto alla sua natura di “azione di guerra”. Le azioni predette sono purtroppo per loro natura caratterizzate da effetti consimili, come emerge dal “bombardamento” disciplinato dal Titolo II, Capo II Sez. II della legislazione di guerra di cui al R.D. n. 1415 del 1938, all. A. 7) Esclusa così la configurabilità del reato di strage contestato, il provvedimento d’archiviazione impugnato, abnorme, può essere riportato a legalità sostituendosi, a quella parte nella quale si dichiara la responsabilità dei denunciati per il reato predetto e si motiva l’archiviazione sulla base dell’amnistia disposta con d.lgs. lgt. 5 aprile 1944, n. 96, la motivazione inerente alla non previsione del fatto come reato dalla legge. - Omissis. ▲ IL COMMENTO di Ettore Gallo La questione di legittimità costituzionale Si tratta di una sentenza rigorosa, limpida, serena, estesa senza l’ombra di polemica, né nei confronti delle tesi dei pubblici ministeri, né nei riguardi delle allegazioni delle parti. È un ragionamento strettamente conseguenziale, che sembra guidare quietamente la mente del lettore a quella soluzione di giustizia, che diversa non poteva essere per coloro che hanno scelto, come dovere quotidiano, il difficile compito del giudicare. E, invece, non erano né pochi né semplici i problemi che la Corte doveva risolvere. E innanzitutto quello fondamentale che legittimava il ricorso stesso, la decisione, cioè, sulla dedotta abnormità del provvedimento impugnato, dalla quale soltanto dipendeva la ricorribilità in cassazione. Poche righe estremamente significative portano all’annullamento. Il provvedimento di archiviazione che, per l’art. 409 c.p.p., doveva essere emesso nelle forme del decreto, non solo è qualificato “ordinanza” ma, per di più, “ha il taglio motivazionale tipico della sentenza”. Il giudice degli atti preliminari, infatti, è entrato nel merito - annota la Corte - e ha condotto “uno specifico accertamento in malam partem nei riguardi di persone nei cui confronti l’azione penale non era stata esercitata”. Per ben sei pagine è stato ricostruito il fatto e il ruolo in esso svolto dai tre ricorrenti, qualificando il fatto stesso come delitto di strage. “Lo schema - si osserva - è quello previsto dall’art. 129 c.p.p., del quale il G.i.p. stesso aveva riconosciuto (a p. 35) l’inapplicabilità alla fase delle indagini”. Di conseguenza, aderendo all’insegnamento delle Sezioni Unite (sentenza 12 febbraio 1998, n. 17, Di Battista), la I Sezione penale della Corte di cassazione conviene sulla denunzia di abnormità del provvedimento “perché la natura neutra del decreto di archiviazione, emesso in una fase in cui gli elementi relativi alla notizia di reato sono ancora amorfi e fluidi, è radicalmente incompatibile con la dichiarata e motivata attribuzione di un reato ad un determinato soggetto”. A questo punto, però, la Corte ritiene si debba proporre e risolvere la questione di legittimità costituzionale, sollevata dalla difesa con atto successivo ai motivi di ricorso, e presentata nell’imminenza della decisione in Camera di Consiglio. È il solo punto questo su cui dobbiamo esprimere il nostro sommesso dissenso. Afferma la Corte, infatti, che l’eccezione proposta sarebbe irrilevante, e al tempo stesso manifestamente infondata, perché “gli artt. 408-411 c.p.p. non danno spazio per valutazioni concernenti in positivo la responsabilità dell’indagato per un reato determinato, accompagnate dall’archiviazione della notitia criminis relativa, e non può profilarsi, né si profila nel caso di specie, la lesione dei diritti e degli interessi lamentata in conseguenza di un provvedimento che, in quanto abnorme (corsivo nostro) è ricorribile in sede di legittimità e che deve essere annullato”. Evidentemente c’è stato un grave fraintendimento dell’eccezione sollevata dalla difesa, di cui riportiamo il testo: I. - Voglia la Corte Suprema Ecc.ma sollevare innanzi alla Corte costituzionale l’illegittimità dell’art. 411 c.p.p., in relazione agli artt. 3, 1° comma, 24, 2° comma e 112, 2° comma, Cost. per la parte in cui applica le disposizioni di cui all’art. 409, 1° comma, c.p.p., e quindi consente l’archiviazione degli atti, anche nel caso in cui l’applicazione dell’amnistia sia subordinata ad un procedimento giurisdizionale di accertamento costitutivo nel quale la valutazione della sussistenza in fatto di determinate circostanze (nella specie la particolare finalità patriottica del fatto) e del loro valore rappresenta l’intervento necessario ed inderogabile della scienza e della volontà del giudice che contribuisce a rendere concreta ed effettiva la realtà estintiva astrattamente delineata dal legislatore. Non si tratta, perciò, di un’attività meramente dichiarativa dell’accertamento come nelle ipotesi in cui l’amnistia viene applicata de plano e ipso iure, ma di una complessa operazione che non può non concludersi con la sentenza di cui all’art. 129, 1° comma, c.p.p. Altrimenti si determinerebbe lesione del principio di eguaglianza fra i cittadini che, godendo del procedimento di cui all’art. 129 c.p.p., sono ammessi a dimostrare l’esistenza delle condizioni di cui al 2° comma dello stesso articolo, e perciò ad ottenere eventualmente una sentenza di assoluzione o di improcedibilità, e ad impugnare, se del caso, la sentenza stessa (così garantendo loro l’osservanza del diritto inviolabile di difesa e quello di ricorribilità contro la sentenza), a fronte di coloro che di tutti tali diritti e facoltà resterebbero privati da un sommario procedimento di archiviazione, che però motiva il suo aspetto decisorio proprio con l’apodittica affermazione che il presunto reato (peraltro mai contestato), integrato dal fatto per cui si è largamente indagato, sarebbe estinto dall’amnistia. Un procedimento sommario di archiviazione che al più potrebbe essere consentito nell’ipotesi in cui l’amnistia fosse già stata in precedenza applicata nelle forme di legge, oppure - come si è detto - ove apparisse applicabile de plano ed ipso iure senza alcun intervento di una valutazione di accertamento costitutivo da parte del giudice. Ragion per cui probabilmente il legislatore non ha ritenuto di includere né la fattispecie di amnistia (né quella concernente il fatto non preveduto dalla legge come reato) fra le cause legittimanti l’adozione di un provvedimento di archiviazione. II. - Sicché l’illegittimità costituzionale dell’art. 411 c.p.p. si prospetta altresì sotto il profilo della violazione dell’art. 2 n. 50 della legge delega del 1987, che prevede la possibilità dell’archiviazione unicamente per manifesta infondatezza della notizia di reato, per essere ignoti gli autori dello stesso o per improcedibilità dell’azione penale. La discrasia è tanto più evidente in quanto, invece, le due predette fattispecie sono testualmente richiamate nella direttiva 52 fra i casi per i quali può essere pronunziata sentenza di non doversi procedere, a’ sensi dell’art. 425 c.p.p., così come modificato dalla l. 8 aprile 1993, n. 105. Né può avere pregio il tentativo di parte della dottrina (ma si veda, in contrario, fra gli altri, e proprio con riferimento all’ipotesi dell’estinzione del reato, M. Chiavario, La riforma de processo penale, Torino, 1988, 100) di parlare di comprensibile estensione, da parte dell’art. 411 c.p.p., dei casi previsti dalla legge delega, in quanto resterebbe parimenti ingiustificabile che il p.m., una volta constatata l’esistenza di una causa estintiva, dovesse ugualmente esercitare l’azione penale, formulando l’imputazione e richiedendo il rinvio a giudizio. Questo rilievo, infatti, potrebbe valere esclusivamente per le altre ipotesi che abbiamo accennato, ma non quando l’applicazione dell’amnistia richiede un intervento giurisdizionale di accertamento costitutivo da parte del giudice, cui il p.m. non può sostituire la sua personale opinione, e nemmeno il giudice dell’archiviazione, che non può sostituire i suoi decreti o le sue ordinanze alla sentenza di cui all’art. 129 c.p.p. E ben questo sembra lo spirito che ha ispirato il legislatore ad escludere comunque che si possa procedere ad archiviazione quando ricorrano le due fattispecie che l’art. 2, n. 50, infatti, non richiama. Si benigni la Corte Ecc.ma di ritenere che ambo i profili d’illegittimità costituzionale così prospettati non sono “manifestamente infondati”. Appare prima facie evidente che l’eccezione sollevata ha valore assolutamente subordinato rispetto al motivo principale riguardante l’abnormità del provvedimento del G.i.p. È solare, infatti, che, dichiarata l’abnormità ed annullato il provvedimento, né alla difesa né ad altra parte in causa poteva più interessare il problema sollevato, ai fini della decisione della questione principale: e tanto meno alla Corte una volta che la decideva per altre ragioni e, fra l’altro, proprio nei sensi auspicati dalla difesa. Dice bene la sentenza che la lesione lamentata nell’eccezione di legittimità costituzionale non può profilarsi in conseguenza di un provvedimento abnorme, come tale ricorribile in sede di legittimità, dove dev’essere annullato. Ma i difensori non avevano virtù divinatorie, e perciò non potevano essere certi, nel momento in cui sollevavano l’eccezione, che la Corte avrebbe effettivamente giudicato abnorme il provvedimento del G.i.p. e l’avrebbe annullato. La prima obiezione, pertanto, riguarda la natura del provvedimento che si sarebbe dovuto adottare in vista del carattere assolutamente subordinato dell’eccezione. La Corte si sarebbe dovuta limitare a dare atto che la sollevata questione restava assorbita dall’accoglimento del motivo principale, oppure che il predetto accoglimento determinava il “non luogo a deliberare” sulla subordinata questione di legittimità costituzionale. Per il resto, poi, è evidente che la difesa aveva sostenuto, sollevando l’eccezione, proprio ciò che esattamente la Corte afferma. Sul merito del problema, insomma, c’era un perfetto accordo perché in realtà - se non viene fraintesa - la motivazione della questione lamenta esattamente quanto la Corte rileva. E dobbiamo anzi dire che, da parte nostra, abbiamo insistito nel chiarire l’equivoco che è al fondo di questa vicenda, proprio perché il problema, che è così emerso, è tuttora presente a turbare un punto non trascurabile del diritto processuale penale. Una questione di diritto processuale penale tuttora irrisolta Risulta sia dalla Relazione al Progetto preliminare, sia dai Lavori preparatori che, mediante le disposizioni di cui agli artt. 408-409 e 411 si è inteso ▲ G GIURISPRUDENZA Decisioni commentate 742 DIRITTO PENALE E PROCESSO n. 6/1999 G GIURISPRUDENZA Decisioni commentate 743 DIRITTO PENALE E PROCESSO n. 6/1999 estendere anche all’area degli atti preliminari quella sollecitudine che il legislatore suggerisce al p.m. allorquando viene a trovarsi, in ogni stato e grado del processo, innanzi a situazioni che manifestamente impediscono l’ulteriore corso del procedere: rendendo, perciò, inutile - anche per ragioni di economia processuale - far attendere al cittadino una soluzione di giustizia che, oltre tutto, gli è dovuta. L’esigenza di una espressa estensione derivava poi dal fatto che il nuovo codice distingueva nettamente le due fasi: da una parte, il “procedimento” per gli atti preliminari, e dall’altra il “processo”, per l’ulteriore corso dopo l’avvenuta formulazione dell’imputazione, rendeva difficile ottenere l’estensione mediante operazione di applicazione analogica. E tuttavia qualche differenza è rimasta fra le due serie di provvedimenti dell’una e dell’altra fase. Intanto, il mezzo processuale utilizzabile, in ovvia stretta dipendenza con la natura della diversa fase, giacché per quella degli atti preliminari è sufficiente il decreto motivato (artt. 409 p.p. - 410 comma 2 c.p.p.) mentre, per la fase del processo, il codice esige rigorosamente la sentenza del giudice (art. 129 p.p. c.p.p.). Altre differenze, pure dipendenti dalla diversa natura della fase processuale, riguardano le cause per le quali è possibile disporre l’archiviazione. Infatti, all’interno del vero e proprio processo, dispone l’art. 129 comma 1 c.p.p., che, in ogni stato e grado, il giudice, il quale riconosce che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero che il reato è estinto o che manca una condizione di procedibilità, lo dichiara di ufficio con sentenza. Come è ben noto, poi, nel secondo comma sono disciplinate tutte quelle situazioni di maggior favore per l’imputato, fra quelle sopradescritte, che devono prevalere sulla causa di estinzione del reato qualora risultino già evidenti dagli atti. In tal caso, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta. Dunque, proprio perché qui siamo all’interno di un processo giurisdizionale che si conclude con sentenza, le possibilità di definizione da parte del giudice sono totali, e perciò si estendono anche ad ipotesi che il G.i.p. non potrebbe mai prendere in considerazione. Come accade per il rapporto fra la condotta dell’imputato e il fatto (l’imputato non lo ha commesso) oppure per la non qualificazione del fatto (fatto non costituisce reato) o per l’esistenza stessa del fatto (fatto non sussiste). Nella fase degli atti preliminari, invece, è innanzitutto l’infondatezza della notitia criminis che viene in esame (art. 408 c.p.p.). Ad altre ipotesi poi è l’art. 411 c.p.p. che estende l’archiviazione, non sempre però in ortodossa osservanza della delega. Dice, infatti, questo articolo che le disposizioni degli artt. 408-409 e 410 (decreto motivato od ordinanza di archiviazione) si applicano anche quando risulta che manca una condizione di procedibilità (e cioè: la querela, l’istanza, la richiesta o l’autorizzazione a procedere) o che il reato è estinto o che il fatto non è previsto dalla legge come reato. Ora, sia per dottrina che per giurisprudenza, si è talvolta ritenuto ragionevole il ricorso all’istituto dell’archiviazione anche nelle ipotesi aggiunte dall’art. 411 c.p.p. perché - si è detto - già sotto l’impero del codice abrogato si era instaurata la stessa prassi (1). In realtà, l’art. 378 c.p.p. abrogato era, invece, rigoroso nel prescrivere espressamente in detti casi la sentenza di proscioglimento, e d’altra parte anche la dottrina che indulgeva a quella prassi, lo faceva con molta prudenza e sotto precise condizioni (2). Il vero è che, quando si allude a quella certa prassi in tema di “estinzione del reato”, che è quanto qui interessa, si pensa all’ipotesi di “accertamento mero”, dove il giudice applica “de plano” la causa di estinzione senza che occorrano né particolari indagini di non poco momento, né deduzioni scientifiche che implichino sequenze e correlazioni logiche. Estinguere il reato per la morte del reo, o perché è trascorso tutto il tempo che la legge prevede per la prescrizione, o infine perché si tratta soltanto di verificare che la qualificazione penalistica contemplata dalla legge estintiva sia proprio quella che riguarda il fatto storico da esaminare, non richiede alcuna lunga né particolare indagine né specifica deduzione logico-scientifica da parte del giudice. Ma se la legge che estingue il reato ha inserito particolari condizioni di applicazione, che costringono il giudice (o il p.m.) ad esaminare testimoni, ad accedere sui luoghi etc., ed alla fine a confrontare risultanze, favorevoli o contrarie, alle condizioni di applicazione poste dalla legge, non soltanto s’allungano i tempi che contrastano con la speditezza del processo, ma la stessa scienza del giudice entra nel giudizio, trasformando l’accertamento mero in accertamento costitutivo. In tal caso è proprio la ratio della diversa situazione che giustifica il venir meno di ogni possibile affidamento dell’operazione agli atti preliminari, mentre si rende indispensabile che il tutto sia presidiato dal contraddittorio delle parti, e che l’intervento conclusivo del giudice avvenga per sentenza impugnabile. Ebbene, non può essere senza ragione che già la legge delega del 1974, nell’art. 2 n. 41, avesse previsto l’archiviazione del procedimento soltanto per manifesta infondatezza della denuncia, della querela o dell’istanza: e che poi l’art. 2 n. 50 della legge delega del 1987 l’avesse estesa soltanto al caso degli autori ignoti e a quelli di improcedibilità dell’azione. Ma c’è di più. Infatti, per converso, la direttiva 52 menziona testualmente le due fattispecie di archiviazione per estinzione del reato, e perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, fra le ipotesi che vanno affidate a sentenza di non doversi procedere ai sensi dell’art. 425 c.p.p. ▲ Note: (1) Cfr. Cass. 13 maggio 1985, Gnucci, in Giust. pen., 1986, II; 37; Cass. 13 ottobre 1982, Spinelli, in Riv. pen., 1983, 707; in dottrina v. A. Bernardi, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, (Speciali di Leg. pen.) IV, Torino, 1990, 543 e s. (2) La citazione che si fa di F. Cordero, voce Archiviazione, in Enc. dir., II, 1958, 1032, va, infatti, precisata rilevando che il consenso a far luogo all’archiviazione era dato subordinatamente al fatto che la superfluità del processo potesse essere accertata mediante un’indagine non incompatibile con l’esigenza di speditezza. Da tutto quanto fin qui detto emerge chiaramente che - come già rilevato - la difesa aveva sollevato l’eccezione di legittimità (per il caso in cui non fosse stato accolto il motivo principale di impugnazione) proprio perché lamentava quanto affermato dalla Corte di cassazione. E cioè, che la situazione di cui agli artt. 408-411, non dando alcuno “spazio per valutazioni concernenti in positivo la responsabilità dell’indagato per un reato determinato, accompagnato dalla archiviazione della notitia criminis relativa”, pregiudica gravemente i diritti fondamentali degli indagati. I quali, trattandosi di applicazione di amnistia a seguito di giudizio di accertamento costitutivo (in fatto, il p.m. - su richiesta del G.i.p. - aveva impiegato mesi per vincere, attraverso le indagini e gli esami testimoniali, l’accusa delle parti civili, secondo cui l’episodio non era sostenuto dai motivi patriottici contemplati dall’amnistia, ché, anzi, sarebbe stato determinato da sentimento di odio nei confronti dei patrioti appartenenti al movimento “bandiera rossa”) avrebbero dovuto perciò fruire dell’area del processo ed essere giudicati con sentenza. In tal caso, avrebbero potuto invocare il secondo comma dell’art. 129 c.p.p., sostenendo che il fatto non è previsto dalla legge come reato, e se il giudice avesse disatteso la tesi, avrebbero avuto a disposizione un’ordinaria impugnazione in sede di legittimità, anziché quella eccezionale, subordinata al riconoscimento dell’abnormità del provvedimento. Accanto a questo motivo, prevalentemente ispirato al 2° comma dell’art. 24 Cost., la difesa aveva coerentemente eccepito anche la violazione della legge delega (artt. 76 e 77 Cost.). Contro tale eccezione non poteva essere opposta la debole tesi secondo cui, però, sarebbe comunque giustificabile che il p.m. non avesse ad esercitare l’azione penale una volta riconosciuta l’esistenza di una causa estintiva. Al più il rilievo potrebbe valere per una causa estintiva applicabile de plano con decreto motivato, ma non certo a fronte dell’esigenza di un intervento giurisdizionale di accertamento costitutivo da parte del giudice, che necessariamente postula la formulazione dell’imputazione e la definizione del giudizio mediante sentenza (3). Si è trattato, dunque, di un travisamento interpretativo da parte della Corte, che dimostra, anzi, la permanenza del problema processuale che la difesa aveva in subordine prospettato con l’eccezione di legittimità costituzionale. Perché il fatto non era previsto dalla legge come reato Di grande interesse, invece, e assolutamente definitiva, tutta la parte che induce la Corte, riconosciuta l’abnormità del provvedimento di archiviazione del G.i.p., a sostituire in esso una causa diversa che ne ripristini la legalità. La motivazione ampia e rigorosa ha il merito di prendere posizione nei confronti della sentenza 20 luglio 1948, n. 631, del Tribunale militare di Roma (4), che, pur affermando la illegittimità della rappresaglia delle Fosse ardeatine per violazione del principio di proporzione, aveva tuttavia negato anche quella di “Via Rasella”, perché la natura clandestina del movimento partigiano non consentiva quei segni distintivi, visibili da lontano, che richiedeva l’art. 1 della Convenzione dell’Aja 18 ottobre 1907 (5). Per verità, quella sentenza era stata poi completamente ribaltata dalla successiva del Tribunale Supremo Militare 25 ottobre 1952, n. 1711 (6). In sostanza, la Corte di cassazione, da una parte - richiamando la già citata sentenza delle Sezioni Unite civili - nega conferenza, in relazione al fatto di Via Rasella, agli artt. 25 e 27 della legge italiana di guerra, “in quanto tali norme erano dirette solo a limitare i poteri dello Stato italiano nei confronti dei cittadini di altri Stati”, ovviamente in caso di occupazione italiana di territorio straniero. Dall’altra, pur riconoscendo che la questione non poteva essere risolta con riferimento al d.lgt. n. 194 del 1945 (in quanto si sarebbe dato effetto retroattivo al riconoscimento di “azione di guerra” che il detto decreto luogotenenziale comportava), rammentava che, dopo la dichiarazione di guerra alla Germania...