Una luce nel labirinto

Una luce nel labirinto
Non arrendersi mai.

una luce nel labirinto

una luce nel labirinto
Non sottomettersi mai.

domenica 23 maggio 2021

Utopia di Thomas More

Thomas More Utopia www.liberliber.it Questo e-book è stato realizzato anche grazie al sostegno di: E-text Web design, Editoria, Multimedia (pubblica il tuo libro, o crea il tuo sito con E-text!) http://www.e-text.it/ QUESTO E-BOOK: TITOLO: Utopia AUTORE: More, Thomas <1478 - 1535> TRADUTTORE: CURATORE: NOTE: CODICE ISBN E-BOOK: n. d. DIRITTI D’AUTORE: no LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: http://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/ COPERTINA: n. d. TRATTO DA: Utopia di Tommaso Moro Cancelliere d’Inghilterra - Milano : Per Vincenzo Ferrario, 1821. - [4], CIV, 150, [2] p. ; 18º. CODICE ISBN FONTE: n. d. 1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 12 dicembre 2018 INDICE DI AFFIDABILITÀ: 1 0: affidabilità bassa 2 1: affidabilità standard 2: affidabilità buona 3: affidabilità ottima SOGGETTO: PHI019000 FILOSOFIA / Politica DIGITALIZZAZIONE: Umberto Corradini, ucorradini@libero.it REVISIONE: Gabriella Dodero IMPAGINAZIONE: Umberto Corradini, ucorradini@libero.it PUBBLICAZIONE: Catia Righi, catia_righi@tin.it 3 Liber Liber Se questo libro ti è piaciuto, aiutaci a realizzarne altri. Fai una donazione: http://www.liberliber.it/online/aiuta/. Scopri sul sito Internet di Liber Liber ciò che stiamo realizzando: migliaia di ebook gratuiti in edizione integrale, audiolibri, brani musicali con licenza libera, video e tanto altro: http://www.liberliber.it/. 4 Indice generale Liber Liber.....................................................................................4 UTOPIA.........................................................................................7 NOTIZIA INTORNO A TOMMASO MORO..........................12 AL GENTILISSIMO M. GEROLAMO FAVA.......................76 TOMMASO MORO A PIETRO EGIDIO..............................78 TAVOLA DI ALCUNE COSE PRINCIPALI.........................83 DEL PARLAMENTO DI RAFAELLO ITLODEO DELLO STATO DI UN’OTTIMA REPUBBLICA SCRITTO DA TOMMASO MORO.........................................................................................85 LIBRO PRIMO............................................................................86 UTOPIA DI TOMMASO MORO LIBRO SECONDO.............118 DELLE CITTÀ E SPECIALMENTE DI AMAUROTO......122 DEI MAGISTRATI...............................................................125 DEGLI ARTEFICI................................................................127 DEL COMMERCIO TRA I CITTADINI.............................132 PELLEGRINAGGI DEGLI UTOPIENSI............................138 DEI SERVI............................................................................159 DELLA GUERRA................................................................168 DELLE RELIGIONI DEGLI UTOPIENSI..........................178 NOTE.........................................................................................194 5 UTOPIA DI TOMMASO MORO CANCELLIERE D’INGHILTERRA MILANO, PER VINCENZO FERRARIO, M DCCC XXI. 6 AL SIGNOR VINCENZO FERRARIO Voi l’anno passato ristampaste un’operetta di Erasmo, la quale fu veramente necessaria ne’ suoi tempi, e tuttavia si mantiene in credito per la fama dell’autore: ma poveri noi se non fossimo andati tanto innanzi da avere per inutile oggidì quell’elogio della follia. Non prendereste a ristampare un’operetta egualmente antica, molto più elegante, utilissima all’età nostra, e scritta da un ingegno non minore di Erasmo, amicissimo a lui per tutta la vita, e più di lui pratico nelle cose del mondo, e faceto non meno di lui; un’operetta di un gran Ministro di stato, e di un Martire? Io vi propongo e vi consiglio di ristampare l’antica traduzione italiana dell’Utopia di Tommaso Moro Gran Cancelliere d’Inghilterra. A me pare che sia onor di Milano ch’ella fosse qui stampata latina nel 1620 dal Bidelli, e dedicata a don Giulio Arese Presidente del Senato. Mi pare che sia onor d’Italia che noi la traducessimo prima che i Francesi; i quali per verità più volte poi la tradussero. Il volgarizzamento italiano che io conosco è stampato in Venezia nel 1548: e mi apparisce, a molti modi del favellare, opera di un veneziano; benchè pubblicato da Antonfrancesco Doni fiorentino. E perciò converrebbe 7 che nel riprodurre quell’antica stampa, si avesse innanzi l’originale, per renderla più esatta e conforme. Certo i dotti italiani conoscono le gloriose fatiche e la fine immatura e gloriosa di Tommaso Moro: ma perchè un tant’uomo sia più noto anche agl’italiani meno letterati; mi piacerebbe che innanzi a questo suo libretto faceste andare una notizia cavata da quelle memorie che nel 1808 si pubblicarono in Londra con altre opere di lui: di che diede sette estratti la Biblioteca Britannica di Ginevra del 1809*. Sono in quegli estratti molte cose, che si possono benissimo tralasciare: ma tanto se ne può prendere da formarne buon ritratto di quel grande e celebre uomo. Nol chiamerò infelice; poichè egli pur senza lamenti si lasciò togliere dal tiranno la vita: e la coscienza delle insigni virtù, e la speranza de’ premii eterni lo tennero contento e lieto vivendo; e la fama che gli mantiene gloriosamente vivo dopo tre secoli il nome, gli compensa quell’avanzo d’anni senili, che la tirannia gli rapì. Credo che pochi oggidì leggano l’Utopia; e vorrei che la leggessero molti. Vorrei che si considerasse come siano antichi certi concetti, che oggi alcuni esaltano, ed altri disprezzano, come nuovi. Vorrei che fosse notato con quanta amabile disinvoltura una mente profonda sappia trattare le materie più gravi; e con poche parole, * Il chiarissimo sig. Prof. G. Montani ha voluto gentilmente assumersi il peso degl’indicati lavori, ch’egli seppe condurre a termine con somma esattezza ed intelligenza. L’Editore. 8 quasi da scherzo, persuadere molti documenti utilissimi. Vorrei che si vergognassero, o almeno fossero svergognati e si confondessero, quegli odiosi, che de’ mali pubblici non pur vivono ma trionfano; e poi insultano alle querele dell’universale e a’ sospiri dei buoni, deridendo come pazzia di teste deboli, e malinconiche, e inesperte del mondo, e incapaci della politica, il desiderare che i popoli possano vivere con tali fatiche e sventure che sieno inevitabili e tolerabili alla natura umana, e non debbano invocare come unico rimedio il morire. Un Tommaso Moro, già esercitato in molte ambascerie, poi inalzato all’amministrazione di un gran regno, non credette indecente a un Ministro il filosofare; non credette ridicolo in un uomo di stato, il riprendere pubblicamente come abusi alcune usanze, le quali con danno di moltissimi profittano a pochi; il mostrare necessarie e non difficili alcune riforme che sarebbero utili a tutti. Quando il gran Cancelliere nel 1506 proponeva nella sua graziosa Utopia il modello di un virtuoso e felice stato, era si può dir barbara l’Inghilterra: e fra quella tanta ferocia fa stupore la saviezza e la gentilezza del Moro. Ora dopo trecento anni niuna parte di Europa è tanto proceduta nel viver civile che non possa riconoscerne quasi nuovi e tuttavia assai lontani gli elementi in quel libretto. E pur troppo si rimarrà, (chi sa ancora per quanti anni o secoli) nella estimazione di un romanzo. Ma in tanta importunità di romanzi di vani amori, e di strane o di sciocche avventure, che tuttodì si stampano e si leggono, speriamo che tra gl’italiani non debba- 9 no mancar lettori ad un antico romanzo di pubblica felicità. State sano; e stampate più che potete de’ buoni libri; e il men che potete de’ cattivi. Pietro Giordani. 10 NOTIZIA INTORNO A TOMMASO MORO ESTRATTA DALLE MEMORIE DELLA SUA VITA SCRITTE DA ARTURO CAYLEY TOMMASO MORE, o, come più universalmente pronunziasi, Moro, nacque in Londra d’onesti genitori l’anno 1480, vigesimo del regno d’Eduardo IV. Della sua prima educazione altro non si narra degno di ricordo, se non ch’egli si allevò nella casa del cardinale Morton che il proteggeva, e fu poscia da lui, a riconoscenza, sì ben ritratto nel primo suo libro dell’Utopia. Uom di persuasiva facondia, di tenacissima memoria, e di gran scienza nelle leggi fu questo prelato, al dire del Moro; e l’autorità somma, di cui godeva, più che all’alto suo 11 grado era da ascriversi alla sua saggezza e virtù, per cui seppe guadagnarsi egualmente la confidenza del suo re, e della sua nazione. Egli valse a restituire al settimo Enrico quella corona, che Riccardo III avea usurpata, e riunire in un sol capo i dritti delle case d’York e di Lancastro. Enrico VIII il sollevò alle dignità d’arcivescovo di Cantorberì e di cancelliere d’Inghilterra; e il papa vi aggiunse l’onore della porpora romana. Era costume di quel secolo il far vie più liete fra le domestiche pareti le feste del sacro Natale con drammatiche rappresentazioni. Ora il giovinetto Moro, non pago di assistervi, usando quella libertà che gli era conceduta larghissima nella casa del cardinale, mescolavasi talvolta agli attori, e improvvisava la sua parte con tal ingegno e vivacità, che il protettor suo ne traeva non picciolo diletto. “No questo fanciullo che vedete alla mia mensa, diceva egli sovente, no riuscir non dee uomo ordinario”. Verso i diciassett’anni si partì il Moro dal cardinale Morton per l’università di Oxford, ove diè saggi di grande ardore e riuscimento negli studj. Ed ivi forse conobbe Erasmo, e seco si strinse di quell’amicizia che poi durò tutta la vita. Certo che all’esempio di un tal condiscepolo di molte cose andò debitore; e specialmente d’essersi applicato al greco idioma, allora in Inghilterra troppo negletto. Il celebre cardinale Wolsey, già semplice pensionario d’un collegio di quella università, non fu probabilmente straniero ai due amici. 12 Pur fra gli studj osfordiani, essendo il Moro sul diciottesim’anno, compose alcuni epigrammi che ci sono trasmessi. E tradusse di greco in latino il Tirannicida di Luciano, accompagnandolo di grave e succosa risposta. Nel 1499 passato dall’università alle scuole di diritto fè sentire come l’ingegno e il sapere in lui vie più progredivano. Il cavalier suo padre forniva, per vero dire, tanto sottilmente a suoi bisogni, che il vivere gli era difficile più che lo studiare. Pur ebbe a lodar in seguito una così severa economia, che il preservò dalle seduzioni del vizio e dalla vile mollezza. Ottenuto poi in breve un posto di lettor pubblico, pronunciò seguitamente sovra la Città di Dio di S. Agostino così compiuti discorsi, che assai ne fu applaudito. Nè abbandonò fra si gravi occupazioni la giovine sua musa, onde pianse in versi la morte della regina sposa di Enrico VII, che avvenne il 1503. Nel qual tempo, com’egli avea fatto per genio principalissima sua cura lo studio della religione, pieno de’ sentimenti ch’essa ispira, pensò consecrarsi alla vita monastica. Quattro anni passò quindi nel silenzio de’ Certosini, senza, per altro, pronunciame i voti. E qualche propensione sentì pure all’ordin dei Francescani, da cui dicesi non si ritrasse che pel rilassamento in loro osservato dell’antica austerità e disciplina. Del resto Erasmo ne accerta, che principale ostacolo ad abbracciare alcuna forma di vivere ecclesiastico fu per l’amico suo la legge del celibato. 13 Nel 1506, quest’Erasmo, ch’era allora in Inghilterra, vi pubblicò egli pure il Tirannicida Lucianico, e insieme una confutazione, come già fece l’amico, pigliando sì giusta opportunità di favellar di lui, e mostrare quanto lo ammirasse. Grande stima avea concepita il Moro pel famoso Pico della Mirandola, di cui verso quel tempo scrisse la vita, e trasportò in inglese più opere. Postosi pien di fiducia sotto lo spiritual regime di Colet, decano della chiesa di S. Paolo, paragonava la scuola da lui fondata al cavallo di Troja, poichè ne usciva moltitudine d’uomini a combattere e dissipare l’ignoranza e la barbarie. Colet, per sua parte, dicea che l’Inghilterra non possedeva che un sol uomo di genio, e quell’uomo era Tommaso Moro. Sembra che i consigli di un tal direttore abbian di molto contribuito a determinare il Moro pel matrimonio; ma l’occasione di contrarlo gliela porse l’amicizia. Avea già egli varcato il settimo anno oltre il vigesimo, quando si sposò ad un’assai tenera fanciulla, confidando, siccome dice Erasmo, di compierne più facilmente l’educazione, e ispirarle quelle inclinazioni, che alle proprie corrispondessero. L’anno appresso a queste nozze, e fu il 1508, Erasmo gli dedicò il suo Elogio della Pazzia, ripetendo a tale occasione i sentimenti, ch’era usato esprimere ogni volta che si trattava di lui. Questi, alcun tempo dopo, sedendo in un parlamento convocato da Enrico VII, incorse la disgrazia del monarca, perocchè si oppose ad una domanda, ch’ei facea, 14 di sussidj; ed ove la morte non ne avesse impedito maggiori effetti di sdegno, è probabile che il Moro, onde sottrarvisi, avrebbe dovuto per qualche tempo andar esule dalla patria. Il non volontario ritiro dagli affari gli porse, intanto, nuovo agio di soddisfare al suo gusto negli studj. Quindi si occupò di storia, di matematica, d’astronomia, famigliarizzandosi ad un tempo colla lingua de’ francesi, e ricreandosi colla teoria e colla pratica della musica. Egli stesso ne fa sapere quanto fosse in ciò ajutato da una felice memoria, sebbene modestamente si lagni che l’ingegno e il sapere non andassero del pari con tale facoltà. Di quei giorni compose altresì varie inglesi poesie sovra argomenti morali, e particolarmente sull’instabilità della fortuna. Salito Enrico VIII al trono, il Moro che allor toccava i trent’anni, parve ripigliare il primiero suo spirito; e quando il principe, conforme a’ desiderj del padre, e in virtù delle dispense ottenute, sposò Caterina d’Aragona, vedova del fratel suo; gli indirizzò un latino complimento assai lusinghevole, ove lascia trapelar certo risentimento contro il predecessore, e finisce col dare al nuovo re il titolo d’amatissimo. Investito, quindi a poco, dell’impiego che chiamano di sotto-sceriffo, e nulla da esso impedito nella sua professione di avvocato, si trovò coll’annua rendita di quattro centinaja di sterlini, de’ quali godeva, giusta le sue frasi, in tutta sicurezza di coscienza. Poichè a quel tem- 15 po non trattavasi causa alcun poco rilevante, per la quale ei non fosse consultato, o non aringasse in persona. Nè tante occupazioni il distraevano affatto da’ lavori letterarj. E ben trovò tempo di comporre una calda difesa del suo Erasmo, poichè un dottor di Lovanio si avvisò di assalirlo pel suo Elogio della Pazzia. Dopo sei anni di dolce union maritale, perdè la consorte, di che fu sconsolatissimo. Indi ad altri due si accasò ad una vedova, la qual non era nè ricca, nè bella, ma parevagli molto opportuna a far le veci di buona madre co’ suoi figliuolini, mentre vera madre si mostrerebbe con quegli avuti dal primo marito. Di fatto ed ella visse con lui in tenerissimo vincolo, e la doppia figliuolanza non compose che una istessisima famiglia. È notabile ch’egli insegnò alla nuova moglie la musica, perchè meglio si compiacesse del ritiro e della vita domestica. Era di quei giorni salito assai alto il favore, di cui godeva in corte il cardinale Wolsey. Bramava egli (e il re medesimo gliene avea mostrato vivo desiderio) di attirar il Moro a’ servigi del ministero, ma non potè riuscirvi. Mai, dice Erasmo, uomo alcuno si adopero con più industria ad insinuarsi nella grazia de’ principi, quanto il Moro a fuggirla. Finì però questi coll’accettare nel 1516 una mission diplomatica nelle Fiandre, ove si trattenne assai più a lungo che non avea divisato. Scriveva egli ad Erasmo, che mai non gli era piaciuto l’ufficio di ambasciadore; ma che pure in mezzo a parecchi incomodi questa belgica legazione gli fu causa d’alcuni piaceri. La convivenza con Tonstall suo collega 16 e amabil uomo pareagli il primo: l’altro l’amicizia incontrata con Busleiden, magnifico signore, ricco di bei libri e di bei monumenti, e più ancora di cortesia e di elette maniere. “Ma nulla, ei prosegue, mi è stato più caro nel mio viaggio, come la conoscenza del tuo amico Egidio di Anversa, così dotto, e così festevole, così modesto e così aperto. Darei, invero, parte di quanto mai possedessi, per godermi il rimanente con lui”. A questo medesimo Egidio intitolò egli poscia la sua Utopia, scritta di ritorno dall’ambasciata nelle Fiandre, quasi ricreazione dalle ordinarie sue cure, a cui, dice ei medesimo nella sua lettera d’introduzione, d’essersi restituito. Se non che avvenne cosa, la quale da esse lo distrasse, riproducendolo su teatro più ampio e più degno di lui. Perchè essendo un vascello del papa con dovizioso carico entrato a Southampton, fu confiscato dalle genti del re e dichiarato di buona preda. Or il legato chiese, che la causa si trattasse giusta le leggi del regno, e a lui si assegnassero uomini scelti, per far valere i diritti del suo signore. E poichè Enrico ottavo era sì perito nella scienza del gius civile, aggiunse che il pregava che il dibattimento fosse pubblico e in sua presenza. Il re annuì e, avuto riguardo alla tanta riputazione in che era il Moro appresso di tutti, lo diede al legato, a cui prima espor dovesse latinamente gli argomenti con cui si proponeva sostenerne le parti. Venuto poscia il giorno, in cui la causa fu portata dinanzi al cancelliere e a’ giudici della camera stellata, il Moro usò di tanta forza e persuasion di discorso, che non solo ottenne la restituzione 17 del vascello, ma si guadagnò tale applauso, e ammirazione dall’istesso monarca, che questi ad ogni patto il volle alla sua corte. Però dapprima il creò suo referendario, e nello spazio di un mese cavaliere, suo consiglier privato, ed indi a poco tesorier dello Scacchiere. “Son venuto mio malgrado alla corte (scriveva quindi il Moro al vescovo Fisher) come ognun sa, e il re istesso me lo dice talvolta scherzando. Ed oggi pure ho l’aria sì imbarazzata, come chi per la prima volta montasse in arcione. Ma il nostro principe, di cui io sono ben lungi dall’assicurarmi il favore, è verso tutti sì buono e sì affabile, che per quanto un uomo diffidi del proprio merito, sempre gli pare doversi affidar maggiormente alla bontà di lui”. Indi segue a dire come le virtù del monarca, il suo sapere, la sua incredibile opperosità così gliel rendono ammirabile, ch’ei sente ogni giorno minore il peso de’ suoi nuovi doveri. La qual alta opinione riguardo ad Enrico non era così particolare al Moro, che molti anzi non l’avessero comune con lui; ed Erasmo, in ispecie, fa di quel principe e della sua corte pitture le più lusinghiere. Mentre che il favore, di cui il Moro godeva, era ancor fresco, Enrico domandavalo spesso, onde seco trattenersi d’astronomia, di geometria, di quistioni teologiche, e di più cose estranee agli affari, pei quali erano destinati altri momenti. Talvolta anche salivano insieme all’alto del palagio per osservarvi il corso degli astri: innocente passatempo, che fa sì grande contrasto coll’indole in seguito manifestata dal principe. Egli ha pel Moro, scrive- 18 va Erasmo, sì grande attaccamento, che non può separarsi da lui. Se gli abbisogna consiglio in cose di grave momento, nessuno più del Moro è atto a prestarglielo; s’ei cerca sollievo nella conversazione, quella del Moro più di qualunque altra gli sembra piena di brio e di giocondità. Anche la regina, al dire di Roper, genero e biografo del nostro cancelliere, di lui tanto si compiaceva, che di consenso col re facealo spesso chiamar la sera, onde ambidue con lui discorrere e ricrearsi. Il Moro però, che, siccome scrive nella Utopia, ponea fra suoi doveri e avea fra più cari diletti il discorrere e ’l ricrearsi colla sua famiglia, usò di uno spediente per sottrarsi a tanto favore: rese, a disegno, la sua conversazione meno gustosa, e ottenne quindi più lunghi intervalli di libertà. Era quello il tempo delle prime innovazioni di Lutero sollevatosi contro le indulgenze, fatte spargere da Leon X con tanta profusione. E poichè Erasmo già dava sospetto alla gente di chiesa, a cagione dei suoi sarcasmi contro i frati e le loro pratiche superstiziose, diceasi di lui, ch’egli avea messo l’uovo, e Lutero fattolo nascere. Il vero si è che le persecuzioni e le guerre prodotte dalle nuove dispute religiose cagionavano gran pena all’amico del Moro, il qual dolevasi sovente, che i suoi sforzi, impotenti a riconciliare gli opposti partiti, null’altro produceano che l’odio d’ambidue contro di lui. Il Moro affezionatissimo alla chiesa di Roma parea prevedesse l’esito de’ colpi che le si dirigeano. Intanto difendea validamente l’amico incontro ai suoi detrattori, e n’era da lui corrisposto. Perocchè avendo un certo de Brie scritto 19 un poema intitolato Antimorus, Erasmo indotto prima l’offeso a non pubblicare l’apparecchiata risposta, diedela egli medesimo più conveniente e più vittoriosa. In quel torno, o poco oltre, si offerì al Moro occasione di mostrare il suo zelo pei buoni studj. Era sorta querela nel mezzo dell’università di Oxford, per cui dividevasi questa in due fazioni, l’una di cultori del greco idioma, l’altra di spregiatori, che appellavansi Trojani, e prendevano i nomi di Priamo, di Ettore, di Paride, sostenendo anche pubblicamente il loro scisma erudito. Onde all’università per ciò vacillante scrisse il Moro una lettera latina assai propria a raffermarla. Poichè primieramente le oppose in essa l’università di Cambridge che, sebbene riputata inferiore, dava troppo miglior esempio di sè. Indi fece uso dell’autorità del cardinale Wolsey e di quella del re medesimo, i quali ambidue bramavano che lo studio del greco fosse incoraggiato. E finì dicendo di sperare che il puerile esercito de’ Trojani si applicherebbe un antico proverbio: che i Frigi sebben tardo, pur rinsaviscono; sero sapiunt Phryges. Nel 1523 il Moro, suo malgrado, ebbe ad accettare le parti di oratore in un parlamento; così esigendo il monarca. Umili ed ossequiose furono le parole del suo discorso d’ingresso, ma pur tali che il monarca medesimo si sentisse obbligato a qualche rispetto per l’assemblea, da lui presieduta. Riguardo al cardinale Wolsey mostrò egual riverenza che fermezza; la qual punto non piacque al favorito. E già questi, al dire di Erasmo, temeva il Moro piuttosto che non lo amasse. Quindi studiò allon- 20 tanarlo dalla corte, facendolo eleggere all’ambasceria di Spagna; ma il re veggendolo ripugnante, nol costrinse ad accettarla. La riforma, intanto, progrediva; ed Enrico temendone trovò leggi assai rigide, che le vietassero l’entrar nel suo imperio; anzi pubblicò egli medesimo un’opera contra Lutero, che gli valse il titolo di difensore della fede. In altro tempo, non molto posteriore ma assai differente, s’imputò al Moro questo scritto qual gravissima colpa; ed ei si difese, dichiarando non avervi avuta altra parte, che la semplice distribuzione delle materie. E invero sembra ch’ei tendesse a moderare, anzi che ad inasprire lo zelo del re. Lutero fece violentissima risposta, qual potea aspettarsi da tal uomo così provocato. Senza riguardo per la real maestà trattò l’avversario da mentitore insieme e da bestemmiatore. Contro le quali accuse comparve una replica, sotto il nome di G. Ross, la quale fu sempre attribuita al Moro e impressa fra le sue opere. L’autore, chiunque ei si fosse, imitando l’esempio di Lutero, mescolava a ragionamenti le ingiurie; arme sicura per ottenere il dispregio di chi l’adopera. Ciò, che il Moro fece in questa causa palesemente, fu di eccitare l’amico Erasmo a pubblicare uno scritto contro Lutero; e chiese ad un tempo licenza di leggere i libri degli eretici, affine di confutarli. Indi a poco Erasmo diè in luce il suo Ciceroniano, composizione ingegnosa, ove egli volgea in ridicolo l’affettazione di quegli italiani, specialmente, che niun 21 vocabolo degnavan soffrire, il quale non appartenesse a Cicerone. Con questa opportunità ei ricolmò di somme lodi l’amico Moro, dipingendolo qual lume e sostegno delle lettere in Inghilterra. A queste, soggiunse, ei tenne sempre rivolto l’animo, malgrado l’aridità degli studj di sua vocazione, e il continuo applicarsi a pubblici negozj. La sua eloquenza si avvicina piuttosto a quella d’Isocrate, che di Cicerone, a cui tuttavia non cede nell’urbanità. E poichè giovinetto fu assiduamente co’ poeti; un non so che di poetico ha pur ritenuto la sua prosa. Già da parecchi anni viveva il Moro nella grazia del re, quando fu da lui chiamato al posto di cancelliere nella ducea di Lancastro. E tanto Enrico lo amava, che andò talvolta famigliarmente a visitarlo nella sua casa di Chelsea; anzi un dì gli giunse improvviso a chiedergli da pranzo, dopo del quale fu veduto passeggiar seco in giardino un’ora intera col braccio appoggiato al suo omero. Per lo che il genero del Moro seco rallegrandosi, al partire del re, per una prova di affetto così singolare: “Io ne son commosso, ei rispose, ma non credo, mio Roper, doverne trar vanità; poichè se la mia testa potesse valergli una piazza in Francia, siate ben sicuro che la darebbe”. Così fra tanti segni di benevolenza egli avea ben saputo distinguere il carattere del suo protettore. Moro fu distratto dalle funzioni del nuovo impiego con due ambascerie, l’una in Fiandra e l’altra in Francia. Nel 1529 egli accompagnò Tonstall a Cambray, ove assistè alla conchiusion del trattato che porta il nome di quella città. E i servigi, che allor rese, furono di tal rilie- 22 vo, che gli meritarono elogi e grado assai più eminente di quello che occupava. Prima però che noi ne parliamo, fermiamoci ad alcune cose più umili, ma più atte a dar piena conoscenza dell’uomo che si descrive. Al suo ritorno di Cambray ei si rese immediatamente a Woodstock, dove allora dimorava la corte. Ivi udì come la sua casa di Chelsea, e gli edificj all’intorno pieni di raccolte biade furon preda al fuoco, il quale propagatosi alle abitazioni de’ contigui recò ad essi non piccioli danni. Quindi scrivendo all’istante in termini di religiosa rassegnazione alla moglie sua, e confortandola a tranquillarsi colla famiglia, e piuttosto ringraziar Dio per ciò che loro avea lasciato, di quello che rammaricarsi del perduto, la prega a voler prendere esatti ragguagli delle perdite de’ suoi poveri vicini, e rassicurarli; poichè, dovess’egli spogliarsi di tutto, mai non soffrirebbe che una sciagura a lui sopraggiunta fosse causa dell’altrui. Indi parlandole del ridursi a più stretta condizione, e governar da sè medesimo i proprj poderi, le raccomanda che nè i fittajuoli, nè i servi siano rimandati senza certo provedimento. Ora ci par tempo di toccare alcuna cosa di un celebre personaggio, elevato da Enrico VIII alle più gran dignità, e la caduta del quale ebbe pel Moro non lievi conseguenze. Wolsey, di cui è chiaro che qui vogliam dire, fu figliuolo d’un beccajo d’Ipswich, ma allevato in maniera non poco superiore alla nativa condizione. Entrò molto giovane, qual educatore, in cospicua famiglia, racco- 23 mandandolo a quest’uopo i suoi rari talenti; ed indi ebbe il grado di capellano presso il settimo Enrico. Il qual principe lo adoperò poi in trattative segrete, allorchè disegnava sposarsi a Margherita di Savoja; e rimase così pago della sua destrezza e del suo zelo, che l’ebbe quindi in singolar estimazione e favore. Se non che la sua morte parve rompere al Wolsey ogni speranza di avanzamento. Ma introdotto, in seguito, alla corte del successore, divenne il compagno de’ suoi piaceri, e il depositario della sua confidenza. Che s’egli non mise più limiti alle sue pretese; nè il re pure sembrava porne alle sue ricompense, a cui si aggiunse la porpora cardinalizia donata dal papa. Onde il Wolsey camminava poscia seguito d’un corteggio di ottocento famigliari, fra cui parecchi gentiluomini e cavalieri. Investito della dignità di cancelliere del regno, e rimossi quanti poteano adombrarlo, fu eziandio, ad istanza del re, creato da Leon X suo legato con incredibili poteri, quello tra gli altri di sospendere per un anno le leggi della chiesa. Allora vie più spiegando la sua alterezza, stabilì una corte di legazione, o tribunale mezzo civile e mezzo ecclesiastico, le cui attribuzioni da niun certo limite erano definite. Però si arrogava una censura inquisitoria sui laici egualmente che sui membri del clero, i quali erano costretti allo sborso di smoderate somme, onde mettersene al coperto. Le curie dei vescovi vi erano assoggettate; i testamenti, le disposizioni dell’ultima volontà cancellate; e i beneficj conferiti senza riguardo a nomine precedenti e a legitime elezioni. 24 Alla morte di Massimiliano, i re di Francia e di Spagna disputavansi la corona imperiale, ed Enrico VIII pareva dal suo grado e dalla natura delle circostanze fatto arbitro in sì gran contesa. Quindi Francesco I sollecitava da lui un abboccamento a Calais; ma Carlo V il prevenne, recandosi a Douvres. Ivi s’impadronì dell’animo del cardinal ministro, legandolo colla speranza di farlo eleggere papa. Morì Leone a cui succedette Adriano VI; e rinnovando Carlo le sue promesse, Wolsey fè tacere i proprj sospetti, o dissimulò il proprio risentimento. Ma quando poi, morto anche Adriano, fu creato Clemente VII, più non gli rimase dubbio, che l’imperadore si prendesse giuoco della sua credulità, onde cominciò a distaccarsi apertamente da lui. Più volte il Moro si oppose a Wolsey nel consiglio e nel parlamento. Ed ora pure gli fu avverso, quando trattavasi di indurre l’Inghilterra a prender parte nella querela dell’imperadore. Al che fa espressa allusione in una lettera, narrando che alla opinione manifestata da alcuni di rimanersi tranquilli “Milord cardinale rispose con un apologo. La pioggia, diss’egli, rendeva pazzi quelli su cui cadeva. Alcuni uomini prudenti si ripararono entro caverne, onde evitarla. Ma quando poi ne uscirono, e vollero operare e parlare da saggi, quanti eran matti si scagliarono contro di loro, e li gettarono a terra. Questa favola costa al re ed allo stato gran somme, che avrebbesi potuto risparmiare”. A Wolsey parimenti ebbe Moro il pensiero, quando nel suo trattato della Consolazione nell’avversità ei rap- 25 presenta un prelato d’Alemagna, che dopo aver profferito un discorso chiedeva a’ circostanti il loro parere, e distribuiva ricompense a chi gliel lodava con più trasporto. Quel ministro favorito mostrò un dì al Moro un suo abbozzo di trattato fra l’Inghilterra e la Francia, pregandolo istantemente a dirgli ciò che ne pensava. Il Moro, volendo lealmente corrispondere a tal confidenza, propose alcune savie osservazioni. Per lo che Wolsey levossi furioso, gridando: “Sir Tommaso, pel corpo di Cristo, voi siete il più gran pazzo del consiglio”. E il Moro sorridente: “Rendo ben grazie a Dio, che nel consiglio del re mio signore non si trovi che un pazzo solo”. Credesi che un profondo risentimento contro l’imperadore inducesse Wolsey a nodrire nel cuor del re il desiderio di sciogliere il suo matrimonio con Caterina di Aragona, zia dell’imperador medesimo. Già prima della missione del Moro a Cambray manifestò Enrico alcuni scrupoli su questo matrimonio (poichè l’infanta era vedova del fratello di lui Arturo); anzi su ciò stesso volle consultare la saggezza del Moro. Ma già sappiamo ciò che pensar si debba del vero motivo di tali scrupoli in un re abbandonato alle proprie passioni, ed abile a trovar loro i più fini pretesti. I vezzi di Anna Bolena il seducevano, o a meglio dire il trascinavano irresistibilmente. È però strano a concepirsi, come, volendo rompere un nodo, che gli ispirava disgusto, ei pretendesse conciliare anche solo in apparenza la dispensa già otte- 26 nuta da un papa e la dichiarazione di nullità chiesta dal successore. Moro, dopo avere esaminati i passi che il re gli citava in appoggio della propria opinione, cercò esimersi dal profferire giudizio in materia, che tutta era de’ teologi. Ma Enrico lo pressò talmente, che fu costretto promettere che peserebbe le sue ragioni, domandando, per allora, tempo a riflettervi. Quindi il re nominò alcuni vescovi e varj membri del suo consiglio, coi quali dovesse conferire. Narrasi che il Moro, intanto, ritirato a Chelsea, e assiso un giorno sulla riva del fiume in compagnia del suo genero, sclamò: “Piacesse a Dio, Roper carissimo, che di tre cose io fossi assicurato! a questo patto soffrirei di essere chiuso in un sacco e gettato nel Tamigi”. Le quali cose avendo il Roper ansiosamente domandato di conoscere, quegli rispose: “Che i principi cristiani, i quali ora si fanno guerre funeste, si unissero in stabil pace; che nella chiesa di Cristo, oggi turbata da errori e da eresie, regnasse perfetta e uniforme credenza; da ultimo che la quistione procellosa del matrimonio del re si terminasse a gloria di Dio, e tranquillità immanchevole delle parti or contrastanti”. Quand’egli ricomparve alla corte favellò al monarca di questa forma: “Poichè è pur volere della maestà vostra ch’io parli con intera schiettezza, dirò francamente che nè monsignor vescovo di Durham, nè monsignor vescovo di Bath, prelati ch’io riconosco per dotti egualmente che virtuosi, nè io, nè altri de’ vostri consiglieri a voi più devoti, non possiam qui servirvi di guida e di au- 27 torità. Che se la maestà vostra brama intendere il vero, deve consultar uomini, che nè i suoi benefici possan corrompere, nè il suo potere intimorire”. Quindi nominò chi egli intendeva, ed erano i padri della chiesa Girolamo, Agostino ed altri, di cui citò i passi a disegno studiati, come i più proprj a trarre il re dalla sua perplessità. E per quanto disaggradevole riuscisse a questo il ricevere risposta contraria alle sue speranze, non parve che ne mostrasse allora alcun risentimento. Al suo ritorno dì Cambray il Moro fu consultato di nuovo. Enrico gli fece intendere, che nella sua assenza altre prove si erano discoperte della illegittimità del proprio maritaggio, onde non potè esser valida alcuna pontificia concessione. E come gli stava molto a cuore di convincerlo, ordinò che venisse a ragionamento col vescovo di Londra. Sebben il Moro punto non piegasse, l’esito della conferenza gli fu però cagion di favore; perocchè il vescovo, che Wolsey avea offeso, volendo perdere questo ministro, nè sapendo altra via più sicura che quella di lusingare il principe in ciò che gli era più caro, gli riferì che il Moro parea bramar ingenuamente di rinvenir argomenti in conferma dell’opinione di sua maestà. La causa, intanto, seguiva a trattarsi a Roma; ove il papa ligio all’imperadore mostravasi avverso a’ desiderj di Enrico. Questi avvezzo a vendicar ne’ suoi negoziatori il mal successo delle commissioni loro affidate, imputò a Wolsey il rifiuto del papa; e la caduta di un tal favorito fu così strepitosa, come la sua prosperità. Il gran si- 28 gillo a lui tolto passò alle mani del Moro, che il re volea affezionarsi co’ benefici; e assicurasi che il Wolsey medesimo disse chiaramente, che non conoscea chi ne fosse più degno. Il Moro, in quel discorso che pronunciò all’entrare in carica, fra molte espressioni di modestia, di riconoscenza e di rispetto, lasciò scorgere abbastanza ciò ch’egli pensasse del favore che a tanta eminenza l’avea elevato; poichè si paragonò a Damocle, sul cui capo stava sospesa la spada. Del resto chiese a’ magistrati, cui presedeva, di denunziarlo al re tosto che il vedessero allontanarsi pur un poco dalla rigida via del dovere. Al cangiarsi del ministro, gran cangiamento si fè sentire a quanti avean d’uopo di presentarsi alla corte. I modi fastosi del Wolsey il rendeano inacessibile alle persone di grado inferiore; e solo a forza di presenti fatti a suoi famigliari si giugneva a parlargli. Presso il nuovo cancelliere la povertà divenne ottimo titolo per essere ben accolti. Più un uomo era oscuro, e più incontrava d’affabilità, d’attenzione, di pazienza nell’ascoltarlo, di prontezza e diligenza nello spedirne gli affari. Stavasi il Moro i lunghi dopopranzi nella sua sala di udienza, colle porte aperte, onde chi avea qualche processo al suo tribunale, o qualche doglianza da recargli davanti, il potesse fare agevolmente e senza timore. Prima di soscrivere alcun decreto di arresto, il leggeva ei medesimo; nè permettevane l’esecuzione che dopo averne ponderata e riconosciuta la dispiacevole necessità. 29 Il padre del Moro, ormai giunto al novagesimo anno, era giudice del banco del re. Quand’ei recavasi alla cancelleria, mai il figliuol suo non mancava di entrare nella sala ove risedeva, e ricevere genuflesso la sua benedizione. Trovandosi insieme a qualche conferenza, solea questi pregarlo a pigliar posto prima di lui; ciò che per verità il buon vecchio sempre ricusava, avuto riguardo alla dignità del capo della magistratura. È superfluo il ricordare che le relazioni di amicizia o di parentela non aveano sui giudizj del Moro alcuna influenza. Dicevagli un giorno uno de’ suoi generi, che sotto il ministero di Wolsey non solo i favoriti, ma fino al portinajo trovavano mille occasioni d’arricchire; mentre sotto il suo quei medesimi ch’egli più amava non potean di nulla avvantaggiarsi, poichè in tanta facilità a tutti conceduta di accostarsegli, il ricevere alcun presente sarebbe vero latrocinio. Al che rispose il cancelliere: “Lodo figliuol mio che così pensiate; ma non però dovete credere che non mi rimangano mezzi di fare a voi e agli amici vostri qualche piacere. Una mia parola potrebbe talvolta esser bene spesa in loro servigio, una mia lettera esser loro di utile. Presentandosi alcun di essi al mio tribunale io potrei, per riguardo vostro, ascoltarlo prima di un altro; e se la sua causa fosse dubbia proporre un accomodamento. Avvi però un segno, al di là di cui non mi è possibile andare; e accertatevi bene che se mio padre da un lato, e il diavolo dall’altro a me si richiamas- 30 sero, e il buon diritto fosse dalla parte del diavolo, ei guadagnerebbe tosto il suo processo”. Avea un altro dei suoi generi lite pendente nella cancelleria, e contando sul favore del suocero si rifiutava ad oneste composizioni. Il Moro udita aringar la causa, pronunciò senza esitare la condanna del genero. Un dì venne un mendico a querelarsi al suo tribunale, che Lady More teneasi un cane, di cui egli solo avea padronanza. Il cancelliere mandò per la consorte insieme e per l’animale, e come questi gli fu condotto innanzi ei medesimo se lo prese, facendo collocare madama e il paltoniere alle due estremità della sala. Io debbo giustizia a tutti, diss’egli; e in profferir queste parole lasciò andar libero il cane, aggiugnendo che ciascun lo chiamasse quanto meglio sapeva. Il bassotto o barbone che fosse non esitò, e in un attimo fu a ricevere e alternar le carezze dell’antico padrone. Però Lady More sentì pregarsi a lasciarlo o a pagarne il valore, se il pover uomo se ne accontentava. Tanto era lo zelo e l’attività del Moro nell’adempiere ai doveri del proprio officio, che di sì gran numero di affari già prima indecisi non rimase che la memoria. E fu per lui gratissima sorpresa, un dì che standosi in pubblico consesso, e profferita sentenza sopra una causa, domandò quella che seguisse, l’udirsi rispondere che nessun’altra ne rimaneva. Del qual fatto ei volle che si tenesse ricordo nei registri: e corse un quadernario, che bisticciando colla parola More, la quale in inglese vale per 31 più, diceva che dopo lui più singolar cosa mai non sariasi veduta. Le grandi occupazioni di cancelliere non impedivano al Moro l’immischiarsi nella controversia, e lo scrivere di tempo in tempo contro l’eresia, cioè contro la riforma. I vescovi commossi dal suo zelo, veggendo com’egli, malgrado il favore del re, mancava di quella che appelliamo fortuna, risolvettero di raccoglier fra loro una somma di quattro o cinquecento sterlini ed offerirgliela. Moro, com’è ben da credere, la rifiutò, chiamandosi abbastanza soddisfatto di vedere le sue fatiche approvate da uomini di una saggezza tanto eminente. Ma aggiunse che, com’egli non mirò che alle ricompense che Dio solo dispensa, a Dio solo era pur dovuta la riconoscenza del fedele suo clero. I vescovi però, insistendo, pregarono che almeno permettesse che il loro presente fosse accettato dalla sua sposa e da figli suoi. “No, no rispose il Moro; ciò mi recherebbe troppo grave dolore. Sebbene la offerta vostra sia egualmente onorevole che liberale, così mi è caro il riposo, e così poco il danaro, che nessuna grandissima somma avrebbe potuto indurmi a passar dopo giorni faticosi le notti insonni. Pur piacesse a Dio che non rimanesse ombra di eresia, e ogni mio travaglio fosse riputato inutile!” Di qui può rilevarsi quanto poco fondata fosse l’imputazione già datagli d’essere al soldo del clero, e di non iscrivere contro la riforma, che per amor di mercede. 32 Le cose da noi riferite danno a vedere, senza dubbio, un carattere integerrimo, e assai degno di rispetto. Or quanto è triste il pensare che lo zelo, onde il Moro era animato, si convertisse troppe volte in intolleranza, onde vengono offuscate l’altre sue virtù. Nè di ciò vogliamo altri testimonj che lui medesimo nel capo trigesimo sesto della sua Apologia, ove rifiutando assurde calunnie, confessa ingenuamente, per non dir si dà vanto della sua severità contro i seguaci della riforma. Si dirà essere stata questa piuttosto colpa del secolo in cui viveva che sua; si appellerà un effetto di quella fermezza di principj che fu in esso per tanti riguardi così ammirabile; si scuserà finalmente siccome temperata dalla sua naturale dolcezza. Ma noi accettando queste discolpe sempre più ci dorremo che un sì eccellente uomo abbia potuto appartenere alla classe dei persecutori. Fin qui noi vedemmo il Moro innoltrar, suo malgrado, a passi rapidi nel cammin degli onori. La fine della sua vita ci presenterà spettacolo di ben altra sorte. Poco dopo averlo innalzato alla dignità di cancelliere, Enrico insistè di di nuovo, perchè esaminar volesse la quistione propostagli del suo matrimonio. Onde il Moro gettatosi a’ piè di lui, e mostrandosi afflittissimo di non potere soddisfar insieme alla propria coscienza, e al desiderio del suo augusto signore, il supplicò a non volerglisi, per questo, mostrar diverso da quel che sempre gli era stato. E aggiunse che gli piacesse aver ognora al pensiero quelle parole, degne veramente di grande e vir- 33 tuoso principe, già da lui profferite, accogliendolo al suo servigio: Dio innanzi a tutto, e dopo Dio il vostro re. Enrico non parve di ciò adirato, e lo assicurò, che mentre ad altri consiglieri avrebbe ricorso, non ritirerebbe da esso il proprio favore: che anzi l’adoprerebbe sempre in quegli affari, i quali non turbassero, come il presente, la pace dell’animo suo. Gli effetti, per altro, comprovarono quanto poco sincero fosse un simil linguaggio. Avendo il dottor Cramer proposto di consultare intorno alla causa, che tanto premeva al monarca, tutte le università di Europa, onde forzare l’assenso del papa; Enrico annuì e diede al proponente particolar segno del suo aggradimento. Varie, infatti, di quelle dotte adunanze, fra le quali Cambridge e Oxford, opinarono conforme al voto di lui. Ma Clemente VII, inteso principalmente a gratificarsi l’imperadore, citò Enrico a Roma. Il che punse troppo vivamente l’animo di questo, il quale se ne richiamò come di gravissimo insulto; e il conte di Wiltshire, padre di Anna Bolena, mandato ad esporre al pontefice le ragioni, per cui il re non si arrenderebbe a suoi ordini, ricusò di baciargli il piede, conforme all’uso ricevuto. Più intanto non potè il Moro dissimulare a se stesso, che le nozze con Anna già erano risolute, e che gli andamenti del principe e del parlamento tendevano a manifesta scissura colla chiesa di Roma, e a gravi cangiamenti nella religione. Fu egli, qual cancelliere, incaricato con altri membri della camera alta di recare a quella dei co- 34 muni l’avviso delle università; e ben s’avvide che ormai sovente gli verria posta innanzi la dura alternativa di contraddir se medesimo, o i comandi del trono. Volentieri sarebbesi egli unito a’ migliori, per opporsi alle eccessive pretese della corte di Roma; ma già scorgea chiaramente che altro si meditava. Però, nè potendo entrar nelle mire della corte, nè accogliere gli affettati scrupoli del re intorno al suo matrimonio, non è a meravigliare che pensasse a ritirarsi dalla magistratura. Pregò infatti il duca di Norfolk, col quale era stretto d’amicizia, a parlare al monarca di un tal disegno, e supplicarlo a permettergli di restituire il sigillo, di cui già l’avea fatto depositario. Allegò per unico motivo lo stato di sua salute mal ridotta da tante e sì ostinate fatiche, onde provava al petto, in ispecie, molestissimi dolori. Nè in quante lettere allora scrisse a più persone, d’altro parlò che di questa sua infermità e del bisogno di riposo. La qual dissimulazione niuno vorrà biasimare, ove ponga mente alle difficili circostanze del cancelliere, e al carattere del suo signore. Sapea Norfolk troppo bene, qual caso facesse Enrico del Moro, onde non aderì che a gran pena al desiderio dell’amico. E a gran pena il re pure si arrese a concedere la chiesta dimissione (ciò fu nel 1532), accompagnandola con parole di rammarico e di stima forse non mai da lui usate. E disse al Moro che in riconoscimento dei suoi buoni servigi sempre sarebbe pronto a tutto ciò ch’ei potesse pel suo onore e per la sua fortuna. Intorno a che nota Roper, pronipote del Moro, che questo ministro 35 mai dall’epoca di tali proferte non ricevette uno scellino; e che il re, all’incontro, tutto gli tolse non solo di quanto gli aveva donato, ma pur di ciò che gli era venuto dalle sue fatiche, o dalla paterna eredità. Moro discese dal suo posto eminente con maggior contentezza che non vi era salito. Scherzava egli sulle vicissitudini della sorte; e come lo splendore della magistratura non alterò la moderazione del suo spirito, l’oscurità del ritiro non ne turbò la serenità. E quando gli amici esprimevano qualche dispiacere di vederlo caduto da tanta grandezza, ei rispondea loro sorridendo: “Che quel bene non valea il sagrificio di un solo istante di domestica tranquillità”. Ma la moglie sua non giugneva, per assai, a sì maschia filosofia. Mentr’egli fu cancelliere ebbe in costume, all’uscir della chiesa, di darlene avviso per mezzo di alcuno del proprio seguito. La prima volta, che dopo aver fatta accettare la sua rinuncia, assistè a divini offici, venne egli stesso al luogo ove stavasi la donna sua, e colle parole medesime, di cui era uso valersi lo staffiere, od altro dei famigliari: “Madama, le disse, monsignore si è ritirato”. Lady More credette, a prima giunta, esser questa una beffa, tutta naturale all’umor festevole del marito. Ma come poi seppe il vero della cosa, troppo più seria di quello che mai non avrebbe voluto, si sentì presa da grandissimo corruccio. Allora il Moro fè chiamar le figliuole, e loro domandò ridendo, se nel volto della madre nulla scorgevano di straordinario. Al che rispondendo esse riapettosamente di no: or come? diss’egli; 36 non vedete voi che ha messo la cuffia di traverso? Ma al fine che farete voi? gli soggiunse madama, con frasi proverbiali di quel tempo. Vi rimarrete dunque colle mani alla cintola? Credetemi, signore, molto meglio dar comandi che riceverne. Prima cura del Moro, al rientrar suo nella condizion de’ privati, fu di provvedere a chi avea seguita la sua fortuna; e in questo adoperò efficacemente quanto gli rimaneva di credito o autorità. In seguito, chiamati a sè i figliuoli, che tutti fino allora si nudrì in casa colle loro famiglie, alla maniera de’ patriarchi; dichiarò loro di non poter più oltre godere della lor cara unione, ora più che mai necessaria al suo cuore, se eglino non si studiavano di fornirne i mezzi. Alle quali parole ciascun tacendosi, ei seguitò: “Dirovvi adunque intero il pensier mio, e voi ne sarete i giudici. Vissi dapprima, come sapete, in una pensione ad Oxford, poi alla cancelleria, indi a Lincolns-Inn, e finalmente alla corte. Passai così dallo stato il più modesto a quello che potea riputarsi altissimo grado d’elevazione. Or mi rimane di entrata netta poco più di un centinajo di lire, le quali non bastano, se ciascuno di voi, per sua parte, non vi aggiugne qualche cosa. Certo noi non faremo a un tratto sì gran cangiamento, da ridurci alla spesa della prima pensione, di cui vi ho detto. Potremo pigliarci a norma quella di Lincolns-Inn, della quale ben si accontentano molte persone di vero merito. Se, dopo un anno d’esperienza, troveremo che siffatta spesa oltrepassi le nostre forze, ci restringeremo a quella della 37 cancelleria, che pur basta a non poca gente onorata. Ed ove neppur essa si pareggi al picciolo aver nostro, chi ci vieta di moderarci al trattamento di quella di Oxford, di cui molti dotti e gravi e rispettabili uomini non hanno il migliore? Alla peggio poi, messa ciascuno una bisaccia al collo, e fidandoci alla carità de’ nostri fratelli, andrem cantando di porta in porta la salve regina, e ancor vivremo uniti e contenti”. Poco avanti a questo tempo perdette Moro il suo genitore, dimodochè il venerando vecchio fu testimonio della prosperità del figlio, e nol fu della sventura. E se la vista di quella, e la testimonianza della figlial riverenza e tenerezza poteano rendergli l’ora estrema alquanto meno lugubre, certo ei morì consolato. Non grandi beni lasciò all’erede; e fossero anche stati maggiori, che non avrebbero accresciuta la sua ricchezza. Poichè la più gran parte ne cedette il Moro spontaneamente alla matrigna, in pegno di rispetto e di affezione; di che essa, la quale gli sopravvisse, non avrà potuto ricordarsi mai se non lagrimando. Poco dopo aver rinunciato alla dignità di cancelliere scriveva il Moro al suo caro Erasmo: “Ciò ch’io ho bramato dalla più tenera età; di cui tu godi costantemente; e ch’io non gustai finora se non di rado e come di furto, alfin mi è dato ottenerlo per grazia del cielo e per favore del mio re. Posso ormai, libero dagli affari, consecrare il mio tempo a Dio e a me stesso”. Indi segue a dire, che non ha però conseguito intero l’oggetto de’ suoi voti, che era insieme una vecchiezza 38 senza dolori. E dopo aver parlato alcun poco di questi, ch’egli allega qual possente motivo della sua rinuncia, fa un motto di coloro che ardivano chiamarla forzata, A smentire i vani lor detti, egli aggiunge, ho preparato l’epitafio che si leggerà nel monumento, ove debbono riposar le mie ceneri. Sarò forse per esso tacciato di orgoglio, ma preferisco una tale accusa al lasciare un benchè menomo sospetto della mia sincerità. Quindi ricorda le parole di onore indirizzategli dal monarca per bocca del duca di Norfolk gran tesoriere d’Inghilterra, mentre gli concedeva suo malgrado di ritrarsi dalle pubbliche cure, e quelle, per volere del re medesimo, e alla sua presenza profferite dal cancellier successore in pieno parlamento. Or chi bramasse al nostro proposito intendere alcuna cosa di quell’epitafio, poi ch’esso è molto lungo, gli basti sapere che dice in latino pel luogo, ove s’incontra, forse elegante, che il Moro avendo perduto il padre, ed essendo padre egli stesso di quattro figli ed undici nipoti, ormai vecchio, tocco nel polmone, sazio delle cose mortali, avea alfin ceduto ad un antico desiderio, di passar lungi d’ogni cura gli inoltrati suoi giorni, onde prepararsi all’immortalità; il che ottenne per grazia dal migliore dei re. Il monumento, su cui fu posta l’iscrizione, stava nel coro della chiesa parrocchiale di Chelsea. Ivi avendo il Moro fatto trasportare i mortali avanzi della prima sua moglie, aggiunse de’ versi, anch’essi latini, che parlano della riunione delle proprie spoglie e di quelle della se- 39 conda consorte alla già defunta; e della sua affezione per ambidue. Chelsea già era da più anni il luogo ordinario di sua dimora. Egli vi avea fatta edificare una devota capella, e fondato un ospizio pe’ vecchj, affidandolo alle sollecitudini di Margherita sua figlia. Ora sgombro d’ogni altro pensiero, tutto si consecrava in quel luogo alla pietà e allo studio. La parsimonia, a cui erasi ridotto, parea veramente doverlo assicurare d’ogni nuova angustia nelle cose famigliari; pure fu costretto vendere parte di quel poco che possedeva, onde salvare il rimanente. Quivi, malgrado il vivo desiderio di sempre vivere congiunto a suoi, ebbe a pregare i figli, che volessero ciascuno provvedere a sè stesso in proprie e distinte case. Dicesi che la prevision della sorte che il minacciava gli turbasse i sonni. Passava egli le intere notti in preghiere, domandando a Dio che gli piacesse di sostenere il suo coraggio; poichè, dicea, la mia carne è inferma, nè potrà sostenere i più piccioli tormenti. Volendo preparare la sua famiglia a casi troppo probabili fè appostar un uomo, che all’ora del desinare venisse a battere fieramente alla sua porta, e intimargli di recarsi al consiglio. Quando Enrico sposò la Bolena, disse il Moro a suo genero: “Piaccia al cielo, che il re non esiga in questa occasione alcun giuramento!”. Un dì che Tommaso Cromwello, fatto ministro, venne pel monarca a visitarlo a Chelsea, ei gli disse: “Voi vi siete, o signore, posto ai servigi di un principe savio e generoso. Ma se vi pare ch’io meriti alcuna fede, quan- 40 do sarete richiesto de’ vostri consigli, mai non gli parlerete di quel che può, e sempre invece di quel che dee fare. Se un leone conoscesse la sua forza, come si farebbe a governarlo?” Poco avanti al coronamento della nuova regina, Moro fu da tre vescovi invitato ad assistere a quella cerimonia, e perciò recarsi con loro alla torre di Westminster. Essi gl’inviavano ad un tempo venti lire sterline, onde si provvedesse d’abito conveniente; ed ei le accettò. Non per questo si arrese all’invito; e mandò a dir loro, che ben sperava, poichè soddisfaceva ad essi in una parte, che lo avrebbero per iscusato nell’altra. Nè potè ritenersi dall’aggiugnere, come la sorte loro gli richiamava quel fatto di un imperadore, che avendo rassicurate dal supplizio le vergini pure, non lasciò di condannarvi una di esse, comandando però che prima avesse a perdere la sua innocenza. “Voi ancora, diss’egli, siete puri: or si adoprano a corrompervi: ben presto vi faranno parlare e scrivere in favore del regio matrimonio; e avrete così perduta la vostra innocenza. Coloro, intanto, che ve l’avranno rapita, non tarderanno a perdere voi stessi. Quanto a me, il perdermi sarà loro certamente agevol cosa: ma l’innocenza mia spero poterla difendere abbastanza dai loro attentati”. Pretendesi che queste parole fosser riferite alla giovane regina, che d’allora più non cessò di stimolare il re contro del Moro. Più probabile però sembra, che offeso quel principe dall’ostinazione di lui, e sospettando l’effetto, che l’opinion sua produrrebbe in quella del 41 pubblico, risolvesse da se medesimo d’usare ogni mezzo di smuoverlo. Però cominciarono a farsi maligne ricerche, onde trovare nella condotta del Moro alcun pretesto di accusa. E incontrasi nelle sue opere una lettera a Tommaso Cromwello, in cui difende certo suo scritto contro un manifesto del re, pur dianzi appellatosi dalla corte di Roma. Ma bentosto le confessioni di Elisabetta Barton, chiamata comunemente la santa vergine di Kent, fornirono ai nemici del Moro miglior occasione di nuocergli. Un’altra lettera al medesimo Cromwello, scritta dal Moro probabilmente a propria giustificazione presso di Enrico, e piena di curiose particolarità, mostra ad un tempo la prudenza e la semplicità dell’uomo veramente innocentissimo. Alla qual lettera egli unisce copia d’alquante sue linee a quella fingitrice di rivelazioni e di miracoli, per dissuaderla dal parlare delle cose del re. Indi toccata la pia dabbennaggine d’altri uomini rispettabili riguardo alla scaltra o pazza femmina, ch’ella si fosse, forse per confessare con meno vergogna d’esserne stato ingannato, finisce col lodar grandemente il Cromwello che la smascherò. Quando sotto l’imperio della regina Maria si pubblicarono, di suo ordine, le opere del Moro, una tal lettera non si lasciò comparire. Riguardandosi a quel tempo la vergine di Kent qual profetessa e martire, e sperandosi per lei gli onori della canonizzazione, simile testimonianza sarebbe stata di troppo gran peso contro la sua celebrata santità. Nel 1534, per altro, il parlamento avea 42 accettata l’accusa contro alcuni fautori della sua riconosciuta impostura. Fra i quali trovandosi malamente avvolto anche il Moro, chiese una udienza dal re, che si contentò di nominare de’ commissarj per interrogarlo; e furono l’arcivescovo di Cantorberi, il cancelliere, il duca di Norfolk, e Tommaso Cromwello. Sino dal cominciamento del processo fu facile avvedersi che l’accusa non era che un pretesto. Infatti, accennatala appena, più non se ne fece parola; e il cancelliere molto si estese sui beneficj, che il Moro avea in ogni tempo ricevuti dal re, e sulla corrispondenza che questi avrebbe dovuto aspettarsi da un ministro così favorito, lungi dal trovare in esso tanta opposizione contro l’avviso del parlamento, de’ vescovi e delle università. Al che replicò il Moro con dolcezza: “riconoscer egli, nè potere obliar giammai i favori impartitigli dal re suo signore; e nessuno bramare più sinceramente di far ciò che sia in piacere della maestà di lui. Quanto alla cosa, a cui ora si alludeva, aver egli sperato di non udirne più motto, massime dopo le dichiarazioni fatte al re medesimo, e da lui accolte con tanta indulgenza, fino ad assicurarlo (sue proprie espressioni) che più non gli si darebbero inquietudini in tal proposito. Da quel tempo nulla avere discoperto che potesse fargli cangiare opinione; il che se gli fosse accaduto ne proverebbe, più che altri qualunque, sommo contento”. Come i commissarj si avvidero che nulla profitterebber col Moro per le vie della persuasione, avvisarono di fare miglior frutto colle minacce. Quindi gli dissero che 43 troppo abusava della regia clemenza, onde, sapesse come il monarca gli rimproverava la sua ingratitudine e il suo tradimento, e querelavasi che pe’ suoi perfidi consigli si fosse indotto a scrivere in difesa de’ sette sacramenti e della papale autorità, onde s’era coperto di vergogna, e avea dato in mano al pontefice un’arme per combatterlo. Allora il Moro, pregandoli ad avvertire che le minacce erano buoni argomenti pei fanciulli, non per lui, proseguì: “Rispetto alla principale accusa che voi mi date risponderò, niuno sapere meglio del re quanto io sia innocente. No, io non consigliai l’opera da voi accennata; ma poi che fu scritta ebbi dall’augusto autore espresso comando di dare alle materie in essa comprese ordine conveniente. E come vidi l’autorità del sommo pastore oltre il debito amplificata, pregai la maestà sua a sovvenirsi che il pontefice non era principe di natura diversa dagli altri, e poteva avere interessi opposti a’ suoi, e stringere alleanze ad essa contrarie, onde alfine si verrebbe a violenta scissura. Però era mia opinione che alcuni cangiamenti si facessero a quella parte del libro che toccava siffatta autorità, o che almeno si passasse sovr’essa assai leggermente. Ma il re rispose che non soffrirebbe alcuna mutazione, e che l’union sua coll’apostolica sede era tale, che nulla potea far di troppo per onorarla. Io allora gli richiamai lo statuto, che diminuisce nel nostro paese l’ingerenza del papa; ma il re vie più fermo soggiunse che, ad onta d’ogni ostacolo, conveniva avvalorarla; poichè dal successor di Pietro ei 44 teneva la corona: discorso per me fino a quel giorno inaudito, e che per più meraviglia mi toccò intendere dalla bocca stessa del re. Vuol dunque ragione ch’io speri, che la maestà sua richiamando alla memoria le passate cose, niun conto vorrà tener di presente dell’accusa che mi si fa, ed io facilmente ne verrò assolto.” Per la qual conchiusione i commissarj poco soddisfatti si ritirarono; e Moro, preso un battello onde tornare a Chelsea, si mostrò assai lieto in tutto il corso della picciola navigazione. Il che vedendo Roper suo genero concepì speranza ch’ei fosse scarico d’ogni appostagli calunnia. Onde giunti a casa; e diportandosi pel giardino: “Tutto adunque, gli domandò, va bene, poich’io vi trovo di sì allegro umore! - Tutto bene, disse il Moro, lode a Dio tutto bene - Siete voi dunque libero del mandato di accusa? - In verità, Roper mio caro, non pensava adesso a questo mandato. - E che? non vi curate voi dunque nulla di cosa, la qual tocca sì davvicino e voi e tutta la vostra famiglia? Oh! io, all’aria vostra, avrei pur creduto, che nulla più vi fosse a paventare. - Vuoi tu sapere, mio figlio, ciò che mi ispira questa ilarità? - Troppo volentieri: altro non desidero. - Che nel mio esame il diavolo ha pur avuto il di sotto: io mi sono avanzato di tanto, che il tornar addietro di un passo or mi è impossibile”. Enrico, siccome ben può supporsi, rimase trafitto dalle risposte del Moro, che il convinceano di menzogna. Quindi, a sfogo del suo ingiusto risentimento, comandò 45 che con ogni severità se ne proseguisse il processo. Indarno il cancelliere e gli altri commissarj gli rappresentarono che la difesa di quell’uomo avea fatta sulla camera alta sì forte impressione, che parea doversi desistere da un’accusa niente creduta. Il re troppo superbo per cedere, troppo vendicativo per sofferire che un vecchio favorito potesse contrastargli impunemente, dichiarò che assisterebbe ei medesimo al dibattimento, sperando, senza dubbio, intimorir colla presenza quelli che si sentissero disposti a mostrarsi indulgenti. I commissarj, temendo o fingendo temere l’eloquenza dell’accusato, soggiunsero, che non credevan prudente il far che aggiugnesse a proprio sostegno gli argomenti e le parole quell’uomo, che già dalla sua virtù e dolcezza era così bene difeso. Non però Enrico si smosse dalla sua orgogliosa ostinazione. Fin ch’eglino gittandosi a’ suoi piedi il pregarono a pensare, che non saria impossibile trovar più specioso capo di accusa, che più sicuramente servisse al risentimento del monarca, non al trionfo del Moro. Alle quali ultime parole Enrico si arrese; e tosto il Cromwello fè intendere a Roper che avvisasse il suocero non essere egli più fra gli accusati. Se non che il Moro al ricever l’annunzio: figliuol mio disse, quod differtur non aufertur; nè la predizione tardò ad avverarsi. Alcune leggi, infatti, promulgate l’anno medesimo, che fu il 1537, fornirono nuovi pretesti a nuove accuse, che poi ebbero quel fine luttoso, a cui ci affrettiamo. Era una di tali leggi intorno alla successione al trono, e di- 46 chiarando nullo il matrimonio di Enrico VIII con Caterina di Aragona confermava l’altro con Anna Boleyn. Quindi la corona sarebbe de’ figli che nascessero di quest’ultimo; e in mancanza di essi andrebbe agli eredi naturali del re. Fossero i vassalli obbligati a giurare quest’ordine di successione, e ricusandolo, avessero confiscati i loro beni, e perdessero la libertà della persona quanto tempo piacesse all’offesa maestà del monarca. Con altra legge il parlamento conferiva ad Enrico il titolo di capo supremo della chiesa d’Inghilterra; ciò che, al dir dei cattolici, costituiva il re e i suoi deputati, soli giudici in materie di fede, ed arbitri assoluti dell’ecclesiastica disciplina; niun rispetto avendo all’ordine stabilito da Cristo e dagli apostoli, confidando la cura delle anime al civil potere, e facendo dipendere l’esistenza stessa della religione al volere del magistrato. Poco dopo che queste leggi furono proclamate, comparve un’edizion latina della Bibbia, con un proemio, ove il re decoravasi del nuovo titolo, e parea, in certa guisa, menar trionfo. Perchè diceva espressamente, che investito di pienissimo potere sovra la chiesa e le sue discipline, nè dovendone ragione ad alcuno fuori che al solo Dio; alla legge di Dio appunto faceva ricorso, per intendere ciò che a lui prescriveva, e ciò ch’ei dovesse prescrivere agli altri. Una medaglia nel medesimo tempo fu coniata, con leggenda in tre lingue, ebraica, greca e latina, a perpetuar la memoria della ecclesiastica su- 47 premazia trasferita nel re. Onde Enrico da taluno ai paragonò a Pilato, che con triplice iscrizione mise già in croce Gesù, com’egli or la sua chiesa. Se non che, mentre i cattolici dolevansi del titolo di capo della chiesa inglese conferito al principe, quasi significasse veramente capo spirituale, e racchiudesse il potere di conferire i sacri ordini, e amministrare le cose sante, i loro avversarj opponevano, null’altro significare che una superiorità ai prelati, fra cui molti pretendevano sottrarsi alla regale autorità; e un diritto d’indipendenza dal papa, che arrogavasi giurisdizione su tutti i potentati. Il re, dicean essi, già non si usurpa veruna autorità nelle cose della fede; ma quando abbisogni qualche estrema forza a reprimer l’errore e sostenere la verità, ciò a lui solo appartiene, per tutta l’estensione del suo dominio; nè però veruna dottrina o disciplina può esservi legalmente stabilita, che per sua volontà. Il giuramento riguardo alla successione fu a ciascun de’ vassalli rigorosamente imposto. Soli, fra gli uomini più distinti, Fisher e Moro vi si mostrarono ripugnanti. E poichè l’opinione delle virtù e saggezza del secondo era grandissima, temendo che il suo esempio non inducesse altri al rifiuto, nulla si obbliò per vincere la sua contrarietà. Egli, per altro, rimase inflessibile, allegando che il preambolo della legge supponeva illegittimo il matrimonio di Caterina. Del qual motivo checchè si pensi, non è meno ammirabile la delicatezza del Moro, che nulla mai volle ascoltare fuorchè la propria coscienza. 48 Riferisce il Roper che un giorno il duca di Norfolk disse al Moro: “Per dio, signor Moro; è ben periglioso il cozzar co’ potenti. Vorrei che al desiderio del re aveste qualche rispetto. Poichè, per dio, signor Moro, indignatio principis mors est”. Al che l’altro replicò: “È questo tutto, o milord? In tal caso la differenza che passa tra me e voi è ben di poco momento. Poichè io morrò oggi, e voi morrete domani”. Un mese dopo la promulgazione della legge del giuramento fu annunziato al Moro e ad alcuni membri del clero di Londra che comparissero a Lambeth innanzi a Cranmer, Andley e Cromwel deputati a riceverlo. Moro, giusta un costume nelle importanti occasioni mai da lui non tralasciato, fu in sul mattino alla messa; e come per l’ordinario usciva di chiesa colla moglie e colle figliuole, ond’era accompagnato sino al fiume, e da cui riceveva un bacio di addio; questa volta uscì solo, e tornato a casa diligentemente si chiuse, quasi paventando la loro vista all’istante della partenza. Il suo viso, dice Roper, che il seguì fino a Lambeth, mostrava un cuore oppresso. Ei stette alcun tempo seduto e pensoso. Alfin volgendosi al genero: “Mio figlio, esclamò, sia lode a Dio! La battaglia è vinta”. Moro, come avea preveduto, non fu libero di restituirsi alla famiglia. Scrisse pertanto a Margherita, quella che più teneramente amava fra le sue figlie, onde avvisarla di ciò che a Lambeth gli era avvenuto. Egli, senza biasimare nè l’atto parlamentario, che lo obbligava al giuramento, nè quelli che già vi si erano conformati; 49 non avendo riguardo che alla sua intima persuasione, da cui non pretendeva che altri pigliassero norma, negò di poter giurare nella forma prescrittagli, sebben fosse dispostissimo a giurar la successione. Intorno a che molte parole essendosi fatte, e il Moro, non commosso nè da minacce nè da preghiere, insistendo, perchè s’ei rispettava l’altrui opinione, fosse parimenti rispettata la sua, venne dato in custodia all’abate di Westminster, presso cui rimase quattro giorni. Nel quale spazio si trattò, non senza gran disputa, del modo che si avrebbe a tenere con un tal uomo in tale causa non più imaginata. Crammer, a cui non isfuggiva il pericolo di una discussione con personaggi di tanta stima e inaccessibili al timore, siccome Fisher e Moro, scrisse a Tommaso Cromwello una lettera notabilissima, proponendo che se dopo nuovo esame seguitavano a rigettare il preambolo della legge, si accettasse il lor giuramento a ciò che riguardava l’ordine di successione; giuramento che potria tenersi segreto, sin che si giudicasse conveniente. I suoi avvisi non furono seguiti. Stimolato forse dalla giovane regina, Enrico decretò che si procedesse contro i renitenti a rigor delle minacce già fatte. Però accusati nelle forme, vennero essi rinchiusi in quella prigione di stato, che si chiama la Torre. E perchè, ov’eglino alcuna cosa scrivessero intorno al matrimonio o alla supremazia, il loro nome e la loro istessa disgrazia darebbero grandissimo peso alla loro opinione; fra non molto fu loro vietato anche uno degli ultimi sollievi, l’uso della penna, che singolarmente si paventava. Non solo Fi- 50 scher e Moro furono esclusi dal generale perdono conceduto pocanzi all’occasione delle nozze; ma due atti particolari furon diretti ad imputar loro il delitto di non rivelato tradimento. Moro, particolarmente, nel proemio di quello che lo riguardava era accusato di nerissima ingratitudine; d’aver cioè studiato di sollevare contro il suo sovrano e benefattore i sudditi più fedeli; e negato il giuramento alla sua legittima discendenza. Però i doni e i privilegi a lui già conceduti dal re erano dichiarati nulli, e il Moro abbandonato a quella sentenza che di lui si pronuncierebbe. La quale severità, sebben dettata manifestamente dalla vendetta, molti hanno creduto, che fosse necessaria a que’ difficili momenti, in cui l’indulgenza verso un uomo eminente avria potuto incoraggiare alla rivolta. Il Moro, per altro, niuna contrarietà avea mostrata alla successione, per cui anzi era disposto a giurar fedeltà; e tutto il suo reato consisteva in uno scrupolo della sua coscienza. L’atto, con cui ne veniva accusato, era almeno imprudente, o come oggi diremmo impolitico, poichè alla stima universale pel carattere del Moro, aggiugneva il nuovo affetto, che suol nascere dalla persecuzione. Per fiera, intanto, che questa si fosse, punto non potè scuotere la sua fermezza. Anzi egli oppose alla tirannide costantemente sì dolci modi, che parea non sentirla; ed anche oppresso conservò in parte quel lieto umore, ch’era in lui distintivo della natura. Portava egli, giusta il costume di que’ tempi, una catena d’oro a guisa di collana. Or avviandosi alla Torre, il carceriere gli disse, 51 che potria mandare un siffatto ornamento alla consorte, o ad alcuno de’ figli. “No, no, rispose il Moro: s’io fossi preso sul campo di battaglia, vorrei bene che ne avesse qualche picciolo guadagno chi mi tenesse in suo potere”. All’ingresso della Torre, il portinajo gli chiese la sopravveste: alla qual domanda il Moro presentò la sua berretta, scusandosi di non avere di meglio. Ma quel ruvido che non gustava lo scherzo, gli avventò le mani, e gli trasse, senz’altro dire, la parte dell’abito, che gli avea domandata. Non pochi obblighi avea il luogotenente della Torre verso del Moro, onde gli attestò il suo rammarico di doverlo, tale essendo l’espressa volontà del re, trattare così diversamente da quel che avrebbe desiderato. “Signor luogotenente, ei gli rispose, sono ben persuaso che voi siete mio buon amico, e non avrò che a lodarmi de’ vostri trattamenti. Ma se mai vi accorgeste, che ne mostrassi il minimo malcontento, non abbiate riguardi; mettetemi pur subito alla porta”. Era già egli prigione da un mese, quando madama Roper, sua figlia, ebbe facoltà di vederlo. Dopo aver egli passato con lei alcun tempo in divote preci, giusta il suo costume: “Io credo, le disse, che quelli, onde qui fui messo, abbiano imaginato di darmi gran punizione; ma ti assicura, mia cara, che se non fosse stato il rispetto alla moglie e a’ figliuoli già da gran tempo mi sarei chiuso io medesimo in carcere ben più stretto. E poichè, senza averlo io meritato, sono oggi in questo, non dubitare che Iddio vorrà prendere per voi tutti il luogo di padre. Del resto io non ho alcuna ragione di querelarmi 52 d’essere qui piuttosto che in mia casa: chè anzi io mi riguardo come fra le mani amorose di Dio, e colmato de’ suoi favori”. Fino da’ primi istanti della sua cattività parve il Moro prevederne la fine. Confessava che la natura gli avea date poche forze contro i patimenti, onde armavasi, per così dire, di tutto punto, affin di resistervi. E già separavasi ogni giorno d’avvantaggio da quanto gli era caro quaggiù, raccogliendo gli affetti e i pensieri nella vicina eternità. Scôrse egli dalla sua finestra della Torre il padre Reynolds e tre altri religiosi, che conduceansi al supplizio, per avere infranti i nuovi statuti riguardo al matrimonio e alla supremazia del re. “Vedi tu, mia figlia, gridò egli, quanta serenità ne’ volti di quegli avventurati? Vanno eglino al supplizio, come sposi alla chiesa, per ricevervi la nuzial benedizione. Qual differenza fra chi passò la vita nel ritiro e nella penitenza, e chi, siccome l’infelice tuo padre, fu tutto nelle cure del mondo, e ne’ suoi vani piaceri!” Venne un giorno a visitarlo il segretario Cromwello, e, o fosse pietà verso di lui, o a se medesimo facesse inganno, studiò recargli assai confortevoli speranze. Dissegli che il re gli restituirebbe il favor suo, nè persisterebbe a volere da lui ciò che turbasse la sua coscienza. Il Moro, per altro, non accolse per nulla il dolce di queste parole, e come prima il ministro fu uscito, dettò alcuni versi inglesi, il cui significato era questo: “Fortuna ingannatrice! Tu ancor mi sorridi, quasi ovviar volessi alla 53 mia perdita; ma punto non mi illudono le tue lusinghe. In Dio solo io confido, che m’apra nel cielo un porto tranquillo e sicuro; mentre la tua calma non è che foriera di tempesta”. Più tardo anche la consorte sua ottenne di vederlo. Ed entrandogli in camera gridò nel modo che in casa era usata: “Ben mi fa meraviglia che un uomo riputato di sì gran saggezza, così poca ne abbia dimostrata, scegliendosi un soggiorno oscuro ed infetto, fra sorci ed altri incomodi animali; mentre da lui solo dipenderebbe il goder la sua libertà, e la grazia del monarca. A quest’uopo non gli bisognerebbe se non di far ciò che già tutti i vescovi e i più dotti uomini del regno hanno fatto. Chi, chi vi toglie, se non voi stesso, di ritornare a Chelsea, a’ vostri agi, alla vostra biblioteca, al vostro giardino, alla compagnia della moglie e de’ figli vostri, alla vostra felicità? Certo io non posso comprendere ciò che vi affezioni a questa prigione“. Moro le chiese, a rincontro, se il presente suo ricetto non le parea così vicino al cielo, come la propria sua casa? S’io fossi morto e sotterra, egli aggiunse, e dopo un intervallo di sette anni sorgessi e rientrassi nella nostra usata abitazione, vi troverei un nuovo possessore, che di essa mi farebbe uscire. Come dunque sentir tanto amore per quella, che sì tosto oblia il signor suo? Indi proseguì: quanto tempo credete voi che avremmo il piacere di albergarvi insieme? Forse ancora una ventina d’anni, rispose madama Moro. “Ah se mi aveste detto un migliajo, replicò egli, sarebbe almeno qualche cosa. Qual meschino contratto, però, anche per 54 quel migliajo, sagrificare l’eternità! Ma che pensare di un tal sagrificio per una casa, di cui non sono certo di godere un sol giorno?”. Non è senza verisimiglianza, che la buona donna fosse adoperata dalla corte istessa, onde piegare il Moro, e affievolirne le risoluzioni. Certo che da quel punto più tentativi furono fatti a tal uopo, ma nessuno riescì più efficace dell’altro. Poco dopo la visita della consorte, vennero a lui successivamente i duchi di Norfolk e di Suffolk, Cromwello, e altri membri del consiglio privato; nè per insinuarsi che facessero nel suo spirito, nè per industria, che usassero disputando, nè per timori che si studiassero di accrescere in lui, nulla, per ciò che scrive egli medesimo alla sua cara figlia Margherita, poterono trargli di bocca intorno al matrimonio e all’ecclesiastica supremazia del monarca, fuorchè le antiche sentenze. Quindi, fattosi vie più grave il suo caso, gli fu mandato il regio sollecitatore, e due altri commissarj, che a privarlo d’ogni conforto gli togliessero anche i libri. Da quel punto il Moro, tutto si diede alla meditazione, onde chiuse le imposte della sua finestra. E avendogli il luogotenente della Torre domandato, perchè cosi condannavasi all’oscurità, ei rispose, che mancate le merci ben potea chiudersi la bottega. Nondimeno procacciò di tempo in tempo qualche pezzo di carta, su cui scriveva con del carbone; ed uno di questi frammenti era passato in eredità al suo pronipote Roper, che lo appellava una gemma preziosa. 55 Nacque sospetto che il sollecitator generale Rich fosse stato mandato al Moro, per trarne parole imprudenti, o tali che fornissero materia a testimonianze anche false contro di lui. Non è oggi possibile chiarire una tal congettura; ma sventuratamente la critica non vi trova contraddizione colle abitudini della corte anglicana a quei tempi. E già è noto, che mentre gli altri commissarj erano occupati a raccogliere i libri dell’illustre prigioniero, il Rich trattenendosi con lui a colloquio gli volse questa singolare domanda: Se un atto del parlamento ordinasse di riconoscermi per re d’Inghilterra, neghereste voi di avermi per tale? No certamente, o signore, disse il Moro. Ebbene, soggiunse il Rich, se un atto del medesimo parlamento comandasse di riconoscermi per papa; che fareste voi? Allora il Moro: vi risponderò, disse, facendovi io pure un’interrogazione. Se il parlamento bandisse legge che Dio non sia Dio, sareste voi disposto, signor Rich, a credere e parlare a norma di essa? A che il Rich dovè pur rispondere che nessun parlamento avea potere di emanare legge siffatta. E qui finì il diverbio, racconta il Roper; ma Rich attestò poi che il Moro avea aggiunto, che il parlamento d’Inghilterra non potea niente più creare il re capo della chiesa. Già da un anno languiva l’uomo illustre nella prigione, quando fu citato alla sbarra del banco del re. Le sue forze erano al termine; chè ai soliti dolori de’ visceri altri se ne erano aggiunti di renella ancor più molesti. Però debile e dimagrato si strascinò, appoggiandosi ad un bastone, fino al tribunale: ma il suo volto esprimeva 56 costanza ed anche serenità. L’atto d’accusa ivi a lui letto riuscì di tanta lunghezza, ch’ei dichiarò non averne potuto ritenere una terza parte. La principal colpa, per altro, che gli si apponeva, era il dinegato giuramento; colpa che chiamavasi proditoria, maligna e diabolica. Se ne recavano in prova le parole sue ne’ due interrogatorj subiti alla Torre. Diceasi aver egli scritto al vescovo Fisher per renderlo ostinato e a se stesso rassomigliante, onde poi vedeansi concordare le loro risposte. E terminavasi col denunziar Moro traditore al re ed alla patria, per aver negata la suprema giurisdizione di quello sul governo ecclesiastico. Già la sorte dell’uomo integerrimo era decisa. Nessuno ignora che a quell’epoca infelice i giurati e i giudici altra norma non aveano che l’arbitrio del principe, il qual calpestava sfacciatamente ogni legge più sacra. Finita la lettura di quell’atto, il duca di Norfolk disse al Moro: “Voi vedete, quanto abbiate offeso la maestà del monarca; ma tanta è la sua clemenza, che cessando voi di ostinarvi, e cangiando opinione, ci lascia speranza di ottenere il vostro perdono”. Il Moro allora: “Milordi, io debbo alle signorie vostre ringraziamenti sinceri per la benevolenza a me dimostrata, ma prego Iddio onnipotente, che faccia colla grazia sua, ch’io continui sino alla morte ne’ sentimenti già manifestati. Indi essendogli da giudici fatta dare una seggiola, per riguardo alla sua estrema fiacchezza, di che si lagnava, entrò distesamente nella propria difesa, che ridusse a quattro capi. 57 Confermò primieramente la disapprovazion sua al secondo matrimonio del re, già lealmente dichiarata; e disse che se era fallo il rispondere la verità al monarca, il qual la domandava, ei già ne avea sufficientemente pagata la pena. Quanto agli offesi diritti del re, siccome capo riconosciuto della chiesa d’Inghilterra, ei ricordò di avere soltanto ricusato di rispondere sulla giustizia dell’atto parlamentario che tai diritti gli conferiva. Il qual silenzio non solo non gli pareva delitto capitale, ma neppur soggetto a forza di umane leggi, che solo risguardar possono le azioni e le parole. E come gli si oppose che il tacere fu segno di animo avverso, egli aggiunse che, giusta le norme del dritto, dovea darsegli tutta contraria interpretazione, e ch’egli particolarmente parea meritarlo. Che, del resto, la fedeltà di suddito non dovendo pregiudicare alla fedeltà di cristiano, ei pensava che fosse da ascoltarsi, innanzi tutto, la propria coscienza; astenendosi, per altro, com’egli avea fatto, di turbare l’altrui. Disse, in terzo luogo, delle sue lettere al vescovo di Rochester, che chiedeva istantemente si recassero in mezzo, come necessarie a condannarlo o ad assolverlo. E poichè gli fu risposto che il vescovo le avea arse, ei ne espose con semplicità il contenuto, giurando che nulla era in esse di opposto agli statuti o al parlamento, come gli si imputava. “La quarta accusa, ei proseguì, si è che interrogato nel mio carcere intorno alla nuova legge, io l’abbia appellata spada due tagli; onde chi vi resiste perde il cor- 58 po, e chi vi si assoggetta perde l’anima. E come tale è pur la risposta del vescovo di Rochester, si è conchiuso che ambidue l’avessimo d’accordo preparata”. “Quanto a me dir posso, che la mia espressione fu più circoscritta, non avendo accennato che il mio personale pericolo, sia approvando, sia non approvando la legge, che quindi era per me spada a due tagli. Sembra strano rigore l’applicarmi le pene da essa minacciate, poich’io mai non l’ho violata nè in fatti, nè in parole. Se il modo di ragionare del vescovo fu conforme al mio; esso non prova già un accordo fra noi, ma solo una conformità d’opinioni, generata dagli studj conformi. Può al re essersi fatto credere il non vero; ma io accerto di non aver con anima nata profferito accento contrario alla legge”. Qui finiva la risposta del Moro; quando, al riferire del suo pronipote, il tribunale suonò ripetutamente della parola malizia; e al Rich fu ingiunto di render giurato ragguaglio de’ suoi colloqui col prevenuto nella prigione. Ciò che avendo egli fatto, il Moro così ripigliò la parola: “Milordi, s’io mai avessi potuto dispregiare la religione del giuramento, ciascun di voi sa bene che in questo istante io non sarei ai piedi del vostro tribunale. Ora se ciò, che voi o signor Rich giurando affermaste, è conforme al vero, Iddio mi neghi per sempre di vederlo faccia a faccia; scongiuro ch’io raccapriccerei a pronunciare, ove non fossi ben sicuro della mia asserzione”. E qui si fece a rendere esatto conto del suo discorso col sollecitatore, indi seguitò: “Ah sig. Rich io sono assai più afflitto del vostro spergiuro, che del pericolo 59 ch’io corro per esso”. E toccata, per necessità, la nessuna riputazione dell’uomo, e quindi la nessuna confidenza ch’ei poteva riporre in lui: “Come dunque o milordi, aggiunse, vi parrà verisimile che in affare il più grave io abbia voluto a lui manifestare tutto l’animo mio, aprirgli intorno alla supremazia del re que’ segreti della coscienza che dopo la promulgazione della legge ho creduto dover tenere sì gelosamente custoditi? Che se pure io avessi detto ciò che il signor Rich giura di avere da me udito; non essendo la nostra che semplice conversazione, in cui nulla di affermativo, nulla di rivoltoso da me si frammischiava, potriano mai le mie parole chiamarsi maliziosamente pronunciate? Ora dove non è malizia, non è offesa. Nè mi è possibile il credere che tanti degni vescovi, tanti dotti, virtuosi e ragguardevoli personaggi, raccolti in parlamento per sancire la legge, abbian voluto che si punisse di morte un uomo, in cui non si discoprisse veruna specie di malizia, o a parlar più esattamente veruna specie di malevolenza”. Richiamata infine la memoria de’ beneficj ricevuti dal re conchiuse: “Pel corso dei venti e più anni mi ha egli trattato con bontà di gran lunga superiore al merito mio, concedendomi, per estremo pegno del favor suo, verso il termine di mia carriera quel tempo ch’io sospirava in preparazione alla morte. Tanti benefici, io penso, basterebbero soli a smentire l’imputazione, ond’io sono così stranamente aggravato.”. I giurati, intanto, si affrettarono a dichiarar Moro colpevole; nè il cancelliere suo immediato successore fu 60 meno sollecito a pronunciarne la sentenza. Avvertillo il Moro che a suoi tempi era d’uso costante ascoltar di nuovo il prevenuto, se mai alcuna cosa avesse ad opporre. Quindi il cancelliere gliene fece la domanda; ed egli, al riferire di Roper, si espresse di questa forma. “L’accusa datami, o milordi, si fonda sovra un atto del parlamento direttamente contrario alle leggi di Dio e della santa sua chiesa”. Indi entrato a favellare della distinzione del temporal potere e dello spirituale, trovò quell’atto insufficiente fra cristiani a dar fondamento ad un’accusa contro un cristiano. E aggiunse, che come la città di Londra far non poteva contro un atto del parlamento tal legge che obbligasse tutto il regno, così un regno particolare nulla potea sancir di contrario alla legge della chiesa universale; che operavasi a violazione degli antichi statuti, poichè la gran carta diceva espressamente La chiesa d’Inghilterra sia libera, e i suoi diritti si conservino illesi; che l’atto parlamentario era in contraddizione col giuramento prestato da Enrico al prender che fece la corona, e comune a tutti i principi cristiani. Il cancelliere avendogli ripetuto l’argomento più volte recato innanzi, che i vescovi, le università, i più dotti personaggi aveano sottoscritto a quell’atto, di cui si parlava, ed era strano che un sol uomo pensasse di opporre l’opinion sua a tante autorità; fra l’altre cose il Moro cosi replicò: “Io sono ben certo, che ove non ci teniamo a soli prelati di questo regno, ma consultiam quelli di tutta cristianità, non ne troveremo la quarta parte solamente, che pensi, come a voi piacerebbe. Che se pren- 61 diam l’avviso di tanti, che or più non sono in terra, e parecchi de’ quali hanno corona sicura di santità nel cielo, troppo a dismisura vedrem crescere il numero di chi ha meco le medesime opinioni. Però, o milord, io non credo dover regolare la mia coscienza dietro all’opinione del gran consiglio del regno, quand’essa è opposta a quella di tutto il mondo cristiano”. Il cancelliere finalmente, udito l’avviso del gran giudice, per saper se l’accusa fosse abbastanza provata, pronunciò contro il Moro sentenza di morte con tutte le circostanze aggravanti, che in simili casi sono usitate. Se non che, avuto riguardo all’alte dignità, onde il condannato fu già rivestito, la pena venne poi commutata nella decapitazione. La qual grazia del re fece dire al Moro scherzando, che pregava Dio a voler preservare la sua famiglia e gli amici suoi da tanta clemenza. Essendogli stato offerto dai commissarj di ripigliar la parola, ei rispose che nulla aveva ad aggiungere, se non che, di quella guisa che Paolo, dopo aver consentito alla morte di Stefano, si era pur seco ritrovato nel cielo; sperava che i giudici suoi, che ora il condannavano sulla terra, seco nondimeno fruirebbero un giorno di quel luogo di felicità. Ei fu quindi rimandato alla torre; nè chi vel condusse potè frenare le lagrime. E il Moro lo consolava, dicendogli che pregherebbe per lui, e starebbero poi insieme ove non è mai pianto, ma gioja eterna. Più dolorosa scena preparavasi intanto sotto gli occhi stessi del pubblico. Perocchè la più amata figlia del 62 Moro, Margherita Roper l’attendeva al passaggio, temendo non aver più altra occasione di rivederlo. Fattasi quindi strada attraverso le guardie, giunse fino a lui, lo strinse fra le sue braccia, lo coprì de’ suoi baci, gli prodigò quante espressioni più tenere ha la figliale pietà. Moro parve dolcemente commosso a questi atti, diede alla figliuola la paterna benedizione, e le volse alcune parole di conforto. Ma appena ei l’ebbe congedata, appena fu ella da lui divisa, che in preda al suo dolore, e incapace di moderarlo tornò addietro, si aprì di nuovo il varco per mezzo ad una folla di spettatori lagrimosi, e si gettò per alcuni istanti ancora fra le braccia del padre. Scorse una settimana dalla pronunciazione dell’esecuzione della sentenza; e il Moro tutta la passò in preghiere e in opere di penitenza. In mezzo però all’istesso religioso raccoglimento ei si lasciò sfuggire alcuni tratti della sua ordinaria piacevolezza. Venne a lui un cortigiano di testa leggiera, il quale, in luogo di uniformarsi alla sua disposizione di spirito, e secondare le sue gravi riflessioni, molto il sollecitò a cangiar d’opinione. Stanco della sua importunità Moro gli disse d’aver infatti cangiato. Questa parola fu all’istante riportata al re, il quale commise al cortigiano istesso di ordinare al Moro che si spiegasse. Il Moro allora, disapprovando colui, che avesse occupato il monarca d’una parola di semplice lepidezza: “Avea, disse, intenzione di farmi radere pel giorno del mio supplizio; ma ad un tratto, mentre voi mi parlavate, cangiai pensie- 63 ro, parendomi giusto che la mia barba seguisse la sorte della mia testa.” Furono conservate le ultime due lettere, che il Moro scrisse col carbone, l’una ad un mercadante suo amico, l’altra alla sua figlia Margherita. È questa dei 15 luglio 1532, il dì innanzi alla sua decapitazione; ei si direbbe una specie di testamento di amore, che non può leggersi ad occhi asciutti. Probabilmente fu, ad istanza del Moro medesimo, prescelto l’indomani pel fatal colpo, che gli fu dato in sulle nove del mattino. Tommaso Pope suo amico era di bonissima ora venuto ad annunciarglielo, onde potesse compiere la sua preparazione. “Sig, Pope, gli disse il Moro, molto io vi ringrazio della buona nuova che mi portaste. Sempre io fui riconoscentissimo pe’ beneficj e per gli onori, onde il re mi colmò; ma assai più il debbo essere per la sua risoluzione di mettermi in luogo, ove avessi ogni agio di pensare al mio fine. Ora di tutti i favori, il più grande a’ miei occhi si è quello di prontamente liberarmi dalle pene di questo mondo. Però considero uno de’ miei primi doveri il supplicar Dio per lui e nel breve spazio che mi rimane di questa vita, e nella vita novella, di cui son presso a godere”. Il re desidera, aggiunse il sig. Pope, che in sugli estremi, voi non teniate lungo discorso. Ben faceste ad avvertirmene, rispose il Moro, poichè appunto io disegnava profferire alquante parole, che per altro non sarebbero state di veruna offesa nè per la maestà sua, nè per altri. Ad ogni modo io mi uniformerò ai voleri del monar- 64 ca. Piacciavi però, mio caro sig. Pope, ottenere da lui, che mia figlia Margherita assista a’ miei funerali. Egli, soggiunse Pope, già acconsente, che vi assistano e la moglie vostra e tutta la famiglia, e gli amici. Oh di quanta gratitudine io son compreso, esclamò allora il Moro, per quest’ultimo favore, ch’egli acconsente alle mie misere spoglie! Congedandosi da lui non potea il signor Pope ritenere le sue lagrime. Ah calmatevi, gli disse il Moro, chè ben confido ci riuniremo nel cielo, ove perpetuo sarà per noi il piacere della nostra amicizia. Si vestì quindi coi più onorati panni che potè; e al luogotenente della torre, che lo ammoniva non volesse mettere sopra di sè cosa che arricchisse alcun uomo indegno di tal dono, rispose: “Chi oggi deve rendermi il più importante servigio non ne è già indegno. Se il mio abito fosse d’oro gliel lascerei volentieri, pensando io non diversamente da s. Cipriano che diede trenta nobilissime monete al suo carnefice”. Nuove riflessioni però gli fecero cangiar parere, onde prese altre vesti; ma potendo ancora disporre di poche somme, una ne mandò a chi dovea giustiziarlo. All’ora segnata vennero uomini in arme alla sua prigione, onde condurlo al supplizio. Egli avea lunga la barba, pallido ed estenuato il volto, e andava con una rossa croce nelle mani, levando spesso gli occhi verso del cielo. Nè però in quel passo estremo e solenne gli mancò del tutto il suo umor faceto. Perocchè montando il patibolo e accorgendosi che cedeva: “Pregovi, disse al 65 luogotenente, fate ch’io giunga sopra con sicurezza, chè quanto al discendere non vi sarà altra briga”. Ubbidiente al comando di Enrico VIII ei si restrinse a domandare agli spettatori che pregassero per lui, dicendo che moriva nella fede cattolica e per amore di essa. Indi postosi a ginocchio recitò un salmo con soavissima devozione; dopo di che si alzò con molta serenità. E il carnefice chiedendolo, che volesse perdonargli ciò ch’era per fare contro di lui, Moro gli diè un bacio e gli rispose: “Tu anzi sei per farmi quel maggior bene che uomo possa. Ti acquieta dunque, e non temer di eseguire l’officio tuo. Solo, poichè ho breve il collo, vedi che il colpo sia diritto, onde non compromettere il tuo onore.” E posando la testa sul ceppo pregò il giustiziere d’aspettare che si fosse acconcia la barba, poi ch’essa, disse, non è rea di tradimento. Biasimò taluno questa gajezza a parer suo leggiera, che il Moro dimostrò in occasione sì grave. Ma essa gli era sì naturale, era sì caratteristica del suo spirito, che trapelava, suo malgrado, anche nel momento che sentiva approssimar la sua fine; massime che egli riguardava la morte, come una felice liberazione, come la porta di un glorioso trionfo. Il suo capo rimase alcun tempo infitto in un’asta sul ponte di Londra; insino a che la pietosa sua figliuola Margherita pervenne a ricovrarlo. Dicesi che poi il serbasse entro un’urna di piombo, onde averlo compagno nell’ultimo asilo. Al corpo del suo genitore diedesi umile sepoltura alla torre nella cappella di S. Pietro, proba- 66 bilmente presso le spoglie dell’amico Fisher, che al par di lui si era preparata una tomba, ove il suo cenere non riposò. Narrasi che quando fu annunciata ad Enrico la fine del Moro egli stava giuocando alle dame, e la giovane regina a riguardarlo; e che gittati gli occhi sovra di lei: voi, disse, ne siete la cagione; e ritiratosi dolorosamente si abbandonò a cupa tristezza. Volendoci accontentar del probabile noi penseremo che la regina fu approvatrice di quell’indegna morte, dacchè allo sposo non abbisognava maggior istigatrice che l’ira sua propria. Il Moro non solo si era opposto al divorzio e al nuovo maritaggio del re, ma più fortemente ancora alla riforma, cui Anna dichiarava di proteggere. Ecco più motivi, perch’ella il prendesse in avversione. Pur basta che confermasse Enrico nella risoluzione di perderlo, perchè questi in un primo istante di rimorso le facesse il rimprovero che udimmo. Non pur d’Inghilterra, ma da tutta Europa s’alzarono, al fiero annunzio, lamenti e grida d’uomini ragguardevolissimi, così cattolici come protestanti, contro di Enrico. Il dottor Gark, rettore di Chelsea, e affezionatissimo al Moro ne fu sì colpito, che risolvè di seguir l’esempio dell’amico; e avendo com’egli ricusato di riconoscere la supremazia del re nelle cose della chiesa, fu messo a morte. Scrive il Roper che l’imperadore Carlo V, fattosi improvvisamente chiamare sir Tommaso Elliot, ambascia- 67 dore d’Inghilterra, che nulla sapeva del crudele atto del signor suo, ei medesimo gliel narrò, aggiugnendo che per la vita di sì degno e leal consigliere egli anzi avrebbe data la più bella città de’ suoi dominj. Il cardinal Polo, il quale benchè consanguineo di Enrico fu astretto a cercar rifugio in Italia, rispondendo ad un’apologia del re fatta scrivere dal dottor Sampson, paragona la morte del Moro a quella di Socrate, dice com’essa fu pianta da chi pur nol conoscea che di nome; e che le lagrime de’ suoi occhi gl’impedivano di distinguere i tratti della sua penna. Ed Erasmo, anch’egli rammaricandosi, notò che gli Egineti rispettarono la vita di Piatone; Filippo il Macedone non incrudelì contro Diogene; che l’uccision di Cicerone rese la memoria di Marcantonio per sempre odiosa; e quella di Seneca è l’obbrobrio di Nerone. Or non parrà inutile che diciamo d’alcuni tratti particolari al carattere del Moro, su cui la rapidità della narrazione non ci permise di fermarci. E primo ci si presenta il suo attaccamento alla religione, che parve sin pendere alla credulità ed all’entusiasmo. Se non che, ove pongasi mente a’ tempi in cui visse, conosceremo che la superstizione ebbe assai minore impero sovra di lui, che sovra gran parte de’ suoi contemporanei. Molte austerità ei praticò immutabilmente dall’adolescenza alla vecchiezza; e la sua figlia Margherita ebbe in santa eredità il paterno cilicio, che sola conosceva, e che era solita lavare colle sue mani. La casa del Moro parve quasi tempio di devota pietà; e di qualunque occhio questa si ri- 68 guardi, certo a lui ne venne quel lustro che sempre nasce dalla regolarità e dalla costanza. Raffrontando l’Utopia agli ultimi suoi scritti parve a taluno vedere qualche contrasto fra le sue opinioni in tempi diversi. Di che si recò a spiegazione l’umana debolezza e l’influenza di certi dogmi. Ma chi sa che la vista delle procelle eccitate dallo spirito di riforma non lo avesse fatto rifuggire alle idee consacrate dal tempo, come a porto sicuro? La qual cosa, malgrado un po’ di eccesso, non sarebbe stata indegna del suo cuore, e può giustificarsi con illustri esempi anche recenti. Della festività del Moro ci sembra aver già detto abbastanza; ed ove raccoglier si volessero i suoi detti arguti, se ne avrebbe a comporre un libro. Se non che quel nativo sapore, che sempre è in tal sorta di detti, par che ne renda impossibile il passaggio in altro idioma. Noteremo intanto con Erasmo, che mai il suo facile scherzo degenerò in ischerno, o in amara ironia. Tutti sempre sorrisero alle sue piacevolezze: solo egli pronunciandole stava in contegno, il che mettendo talvolta dubbio in chi le ascoltava, ne accresceva la lepidezza. Altro insigne distintivo del carattere del Moro fu il suo magnanimo disinteresse. E ben può esserci invece d’ogn’altra prova che ne volessimo recare, il ricordar che Enrico nella sua ira niun rimprovero potè fargli, anzi neppur fingere ombra di sospetto, che a tal lode si opponga. Sembra che il Moro non meno per religione, che per indole sua propria, fosse giunto a formarsi regole di 69 condotta così invariabili, che nè cupidigia, nè ambizione, nè timor di calunnia mai potè rimoverlo di un passo dalla via del dovere. Nella prospera e nella avversa fortuna ei mostrò uguaglianza d’animo incomparabile. Potente non impose silenzio a’ suoi accusatori, perseguitato non seppe temerli. In un regno dispotico, ove l’opposizione era ancor lungi dall’aprir il sentiero alle più alte dignità, ei ne diede l’esempio quasi inudito contro il monarca e i suoi ministri. Giunto ai primi seggi, senza averli cercati o bramati, non ne usò nè ad ingrandimento della propria fortuna, nè di quella de’ suoi; e gli abbandonò senza dispiacere e senza fasto, poichè vide non poterli più conservar con onore. Ricchezze, libertà, tutti i beni, la vita stessa gli parvero di niun pregio, se dovevano costargli il sagrificio della propria coscienza. Per sedic’anni che Roper suo genero visse con lui, non si accorse che la collera o l’impazienza il sorprendesse un istante. Una fanciulla educata co’ figli del Moro confessava di aver talvolta commesso, a disegno, qualche lieve fallo pel piacere d’esserne ripresa; tanto le correzioni di quell’uomo eccellente erano piene di dolcezza e d’incanto. Erasmo nota altresì, che l’amico suo governava la famiglia con tanta grazia e amenità, che la pace vi avea stabilito il suo regno. Obbligato ad aver molti domestici, mai non sofferì che alcuno anneghitisse nell’ozio, o si disonorasse co’ vizi. Molto si andrebbe errati pensando che in qualche tempo della sua vita la devozione il rendesse tristo o au- 70 stero. Sempre egli aprì il cuore alla dolce amicizia, alla onesta allegria. Sempre gustò i piaceri, ma innocenti e ragionevoli, degni di un filosofo e d’un cristiano. Il pronipote suo ci lasciò scritto, come egli invitava di rado i grandi, e facea molta festa ai poveri vicini; largheggiava in limosine, e quando non era che semplice avvocato mai nulla ricevea dai bisognosi, dalle vedove o dagli orfani, a cui avesse prestata la sua difesa. Gli uomini vani od ignoranti mai non ottennero da lui veruna dimostrazione; ma i dotti l’ebbero a sostegno e ad amico: e pochi ne fiorirono al suo tempo, che non vantassero con lui almeno relazione di lettere. Gli fu rimproverata qualche apparenza di singolarità; ma il rimprovero, ove pure sia lontano da invidia, lungi dal nuocere alla sua riputazione, appena getta qualche lieve ombra sullo splendore di sue virtù. Intorno alle proprie opere sempre egli parlò con somma modestia. La su Utopia scritta latinamente e pubblicata nel 1516, fu accolta con grande trasporto e recata in tutte le lingue. Probabilissimo ch’ei la componesse prima d’aver udito parlar di Lutero. Che s’egli non fosse sopravvissuto all’opera sua, gli uomini l’avrebber forse collocato fra quelli che bramarono e presagirono la riforma. L’età e l’esperienza diedero altro andamento a suoi pensieri. L’istoria di Riccardo terzo cominciata in latino insieme ed in francese fino dall’anno 1513, mai da lui non fu compita. Rimangono sue poesie non senza estro; fra le quali si stimano particolarmente gli epigrammi, genere di composizione più conforme all’indo- 71 le sua. Le sue lettere son dettate con eleganza, ma d’un’indole troppo oratoria. Di tutte le sue opere quelle che reggon meno alla critica sono i suoi trattati di controversia, ove un cieco zelo troppo spesso disvia il suo buon giudizio, sicchè dimentica, giusta l’infelice costume di quel secolo, la decenza e i riguardi, che in ogni altro argomento avrebbe osservati. Nelle sue dispute con Lutero, in ispecie, ei quasi non distinguerebbesi dal suo avversario; così ambidue prorompono quasi destrieri focosi e senza freno. Indarno il Moro nella sua Apologia cerca di scusare sè stesso coll’esempio d’altri scrittori della sua età; poi che un uomo, qual egli, era anzi fatto per dare l’esempio che per riceverlo. Le opere inglesi del Moro furono pubblicate a Londra nel 1557 per espresso volere della regina Maria. Divenute assai rare, e quali tutte polemiche o divote, possono appena trovar nel mondo qualche lettore. Tre edizioni si hanno invece di tutte le opere latine, l’una di Basilea nel 1563, l’altra di Lovanio nel 1566, e l’altra di Francoforte e Lipsia nel 1689. L’Utopia, siccome più letta dell’altre, fu più volte stampata. Ma onde por termine a ciò che ne resta a dire del Moro aggiugneremo una parola sulla sua maniera di vivere. Per quanto bene imbandita si trovasse la sua mensa, egli mai non toccava che una sola vivanda, e questa comunemente era un salato. In gioventù mai non gustò vino, e anche inoltrato negli anni assai di rado ne bevve o piuttosto ne delibò. Usava farsi leggere alcun libro mentre mangiava, e come sempre alla lettura intromette- 72 va alcune osservazioni o discorsi, naturalmente se ne formava la più aggradevole conversazione. Quanto al vestir suo egli ne lasciava il pensiero ad uno dei famigliari, che però chiamava il suo governatore. Fu il Moro di picciola statura, ma di belle proporzioni. Il color del volto era pallido, ma gli occhi lucenti promettevan letizia e benevolenza. Sebbene amantissimo della musica ebbe voce non armonica, ma chiara e piacevole ad udirsi quand’egli parlava. Rimane un suo ritratto di mano di Holbein. Erasmo, che in varj tempi era vissuto in seno alla famiglia dell’illustre amico, la chiama soggiorno delle Muse, e la paragona alla scuola di Platone, salvo che in essa più che in quella del greco sapiente era assiduo lo studio della morale. Il Moro l’avvalorava di troppo nobili esempi, e Margherita Roper, la prediletta sua figlia, l’abbelliva colle sue grazie. Quando il Moro rinunciò alla dignità di cancelliere dispose de’ suoi poderi in questa guisa che, serbandosene egli il godimento mentre viveva, fossero poi alla sua morte divisi fra la moglie e i figliuoli. Ma due giorni appresso cangiò tal disposizione a favore del suo genero Roper e di Margherita, cui volle tosto possessori di quella parte che loro avea assegnata pel futuro. Avvenne quindi che ucciso il Moro, e tutti i suoi beni essendo invasi dal fisco, solo una tal porzione fu preservata. La vedova del grand’uomo cacciata dalla sua casa di Chelsea, e priva d’ogni avere, solo ottenne una pensione per gli alimenti, che non passava i venti sterlini. Giovanni 73 Moro e Margherita Roper furono imprigionati, ma alfin riebbero, cessando o gli odj o i sospetti, la loro libertà. Erasmo sopravvisse presso a poco un anno all’amico suo. Ei terminò nel luglio del 1536 la sua lunga e laboriosa carriera, tutta impiegata a combattere l’ignoranza o la superstizione, e accelerare i progressi delle lettere e della vera pietà. Impresa onorevole, ch’egli adempì con mezzi dolci e gentili, mai non toccando le persone, ma solo i vizj e le stolidezze del suo secolo; finchè agli assalti della perfidia si vide astretto resistere con maggior forza. S’alzò egli di buon’ora contro le minuziose pratiche de’ falsi divoti, molto insistendo, per altro, ne’ doveri della religione. Indarno ei volle pacificar la chiesa, predicando ai luterani la sommissione, alla corte romana la moderazione. Buoni erano i suoi desiderj, ma che poteano a fronte dei partiti e delle passioni? Egli stesso, malgrado tanta saggezza e bontà, non potè sfuggire all’odio di quelli, a cui ogni riforma era sospetta, e fu generalmente confuso coi partigiani delle nuove opinioni. Così torto giudizio poco non influì su quello stretto vincolo, che fu tra Erasmo ed il Moro. Ed è onorevole per ambidue l’esser stati amicissimi dall’infanzia sino al fine della vita, non solo malgrado, ma per la diversità stessa delle loro opinioni. 74 AL GENTILISSIMO M. GEROLAMO FAVA Messer Jacopo vostro padre, mi è paruto un uomo tanto ben composto ed ordinato, così nelle faccende del mondo, come ne’ governi della famiglia, ch’io giudico la casa vostra un’ottima repubblica. Poi s’io volessi entrare nel lodare quanto egli abbia bene allevati tanti figliuoli e figliuole, avrei preso troppo carico sopra le mie spalle, perchè bisognerebbe ch’io mi facessi dai buoni costumi, dalla realità, dalla religione, dalla fede, dall’amore, dalla carità, e così venissi virtù per virtù lodando quella, ed onorando quell’altra, talmente che io non farei mai fine. Poi s’io avessi a far noto al mondo la pace, non saprei dipingere miglior esempio, nè maggior specchio, che mostrar cinque fratelli che voi siate, cosa rara veramente. Però essendo tanto la virtù del padre, la bontà della madre, e la realità di voi altri figliuoli così nota come chiara; tacerò per non ne saper dir quel bene, che meritate che sia detto, e verrò al particolar mio. Perchè avendomi dato a questi dì passati un libretto nelle mani di un’ottima repubblica, feci subito disegno d’inviarlo a voi acciò facesse paragone con la repubblica della casa vostra; e così essendo stampata ve ne fo un dono, e ve la dedico. Ben è vero che mag- 75 giore è l’animo del Doni, che non son le forze per donare: pure questo sarà un principio ed un saggio, non tanto da conservar l’amicizia, quanto a ringraziarvi in parte de’ beneficj ricevuti. Voi troverete in questa repubblica, ch’io vi mando, ottimi costumi, ordini buoni, reggimenti savj, ammaestramenti santi, governo sincero e uomini reali; poi ben composte le città, gli officj, la giustizia e la misericordia, che ne avrete sommo diletto, e non picciol contento. Che più? leggendo il libretto intenderete cose bellissime; e considerando questa lettera, ci troverete scolpito il cuor mio tutto devoto alla gentilezza vostra, ed alla gentil creanza di tutti, ai quali parimenti mi raccomando. Vostro affezionatissimo il Doni. 76 TOMMASO MORO A PIETRO EGIDIO SALUTE Mi arrossisco di vergogna, Pietro carissimo, a mandarti quasi un anno dopo questo libretto dell’isola Utopia, il quale mi rendo certo che tu aspettavi in un mese e mezzo: come quello, che sapevi molto bene, che non aveva d’affaticarmi nel rinnovare la materia, neanco ad ordinarla, avendola io con esso teco udita narrare da Rafaello. Per il che non mi occorreva di affannarmi nell’esprimerla con parlari esquisiti, quando non potè il dir suo esser molto eloquente, come quello che fu all’improvviso, e di uomo non così dotto nella lingua latina come nella greca: e tanto più s’avvicinerebbe il mio alla verità, quanto più alla trascurata semplicità di quello si rassomigliasse. Confessoti o Pietro mio essermi per una tale considerazione scemata assai la fatica, perchè altrimenti avrebbe ricercato alquanto di tempo e di studio da ingegno dico ancora non ignorante nè stupido. Se però mi fosse stato richiesto che tal materia venisse scritta con stile eloquente, senza scostarsi dal vero, dirò veramente ch’io con niuna lunghezza di tempo o di studio l’avrei potuto fare. Ora levati via tali 77 pensieri, nei quali faceva mestieri sudare d’avvantaggio, tutto agevolmente potevasi scrivere, siccome era stato udito. Benchè le mie altre imprese m’hanno lasciato pochissimo tempo a fornire così leggiera cosa, trattando, udendo, determinando e giudicando io assiduamente le cause del foro, visitando or questo per benevolenza o mio debito, or quello per eseguire le faccende importanti. Mentre però dispenso fuori quasi tutto il giorno, ed il rimanente per le mie cose famigliari, non resta a me, cioè alle lettere, tempo alcuno. Perchè ritornato che sono a casa, mi bisogna ragionare con la moglie, gridare coi figliuoli, parlare coi ministri. Tutte le quali cose io annovero in vero tra le più necessarie, non volendo essere nella casa propria come forestieri. Perchè dobbiamo esser benigni verso coloro, che o per natura, o a caso, o per nostra elezione ci sono stati dati compagni nel vivere, purchè con la troppa benignità non si corrompa la disciplina, e i servi non diventino padroni. Tra questi travagli passa il giorno, il mese e l’anno. A qual tempo adunque scrivo? Non ho parlato di quello che si consuma nel mangiare e nel dormire, che occupa quasi la metà della vita. Io acquisto solamente quel tempo, che mi rubo dal sonno e dal mangiare. Ma perchè è poco ho proceduto lentamente; tuttavia con esso ho fornito, e alfin ti mando, o Pietro mio, l’Utopia, perchè la legga, e mi ammonisca, ove mi fossi scordato qualche cosa. Quantunque non molto mi temo di questo. Così valessi io per dottrina ed ingegno, come non manco di memoria! Tuttavia non tanto in quella mi 78 fido, che non pensi potermi esser caduto qualche particella di mente. Perchè Giovanni Clemente mio figliuolo, che era presente, poichè non mai lo lascio scostare da alcun parlamento utile, sperando che quest’erba, la quale ha cominciato a verdeggiare, delle greche e latine lettere, debba quando che sia produrre frutto copioso, mi pose in gran dubbio. Perchè, a mio ricordare, Itlodeo narrò che il ponte amaurotico sopra il fiume Anidro è lungo 500 passi. Giovanni mio dice che è solamente 300. Pregoti che vi pensi, perchè se affermerai il medesimo con lui, penserò di avermi scordato questo: ma se non te lo ricordi, scriverò come ho detto, e studierò di narrare il vero, e nei dubbj guarderommi a mio potere da menzogna; studiando esser tenuto piuttosto uomo dabbene che prudente. Potrai tuttavia intendere di questo o alla presenza o con lettere dallo stesso Rafaello, ed è necessario che lo intendi ancora per un altro dubbio occorso, non so se per mia colpa o tua, ovvero di Rafaello medesimo. Perchè non ci venne in mente di chiedere da esso in qual mare era posta quest’isola, nè in qual parte di quel mondo nuovo. Vorrei con alquanto del mio ricomperare questa cognizione, perchè mi vergogno non sapere in qual mare ella sia, dovendone ragionare così a lungo, ed ancora perchè due de’ nostri uomini, ma uno specialmente pio e teologo, brama di andare in Utopia, non già per curiosità di veder cose nuove, ma per aumentare la cristiana religione, ivi cominciata. Ed ha disposto di farsi creare dal pontefice vescovo di Utopia, giudicando che sia fruttuoso il ricer- 79 care tale officio, non mirando all’onore nè al guadagno, ma alla pietà. Pregoti adunque, o Pietro, che alla presenza o con lettere vogli tanto intendere circa quest’isola da Itlodeo, che non vi sia alcuna falsità, nè vi manchi verità alcuna. E per mio avviso sarebbe comodo mostrargli questo libro, quando che niuno potrà meglio correggervi gli errori, e con più acconcio lo farà, avendo in mano questo mio scritto. Potrai ancora intendere quando gli piaccia ch’io mandi in pubblico quest’opera. Perchè s’egli avesse disposto di scrivere le sue fatiche, forse avrà a male ch’io le scriva, ed io altresì mi rimarrò di preoccupargli questo nuovo fiore di pubblicare la repubbica Utopiense: quantunque non ho determinato ancora s’io voglia pubblicarla. Perchè sono tanto varj i gusti degli uomini, tanto difficili gli ingegni, tanto ingrati gli animi, e sconci i giudizj, che meglio riesce appo loro chi si dà buon tempo, che chi si affligge a comporre qualche opera, che possa giovare o dilettare. Molti non hanno lettere, e molti le sprezzano. Chi è barbaro giudica duro lo stile; chi non è barbaro, quei che si tengono savj, sprezzano il parlare non copioso di parole antiche e già invecchiate. Ad alcuni piacciono solamente le cose antiche, altri commendano solamente le loro proprie. Alcuni non si dilettano di motti: altri senza giudizio alcuno di niente si compiacciono, alcuni per l’istabile ingegno non sanno fermare il giudizio. Altri, sedendo nelle taverne, tra il vino giudicano degli ingegni, dannando ciò che loro spiace, quantunque non abbiano eglino pelo alcuno di uomo dabbene, per il 80 quale li possi pigliare. Sono appresso tanto sconoscenti, che quantunque loro piacciano sommamente le opere, tuttavolta odiano l’autore, come usano di fare gl’inumani forastieri, i quali saziati largamente nel convito, si partono senza render grazia alcuna all’albergatore. Or fa un convito a tue spese ad uomini di così dilicato e vario gusto, e d’animo così ricordevole e grato. Tuttavia, o Pietro mio, fa quanto ho detto con Itlodeo, e potremo di nuovo consultare sopra di questo. E poichè già ho fornito la fatica di scriverlo, resta che non sia questo contra la sua volontà. Circa il darlo in pubblico, seguirò il consiglio degli amici, e specialmente il tuo. Sta sano, o dolcissimo Pietro Egidio con la ottima moglie tua, ed amami come sei solito, poichè io amo te più che mai. 81 TAVOLA DI ALCUNE COSE PRINCIPALI CHE NELL’OPERA SI CONTENGONO LIBRO PRIMO. Descrizione del viaggio Terre e città, poste sotto la linea equinoziale Nuove vele di navi, e nuovi modi Come venne in uso la calamita per navigare in quei paesi De’ mostri ritrovati in quei luoghi In quel che si occupano i principi Discorso sopra le leggi contro ai ladri Come punisce il furto la legge Mosaica Qual punizione davano i Romani al ladro Altre pene, ed altri modi di condannare chi ruba Segni che portano i servi Varj discorsi sopra il far guerra, ed altri consigli Legge dei Macarensi circa l’aver gran tesoro Legge di Platone 82 LIBRO SECONDO. Descrizione dell’isola d’Utopia Qual era il nome antico dell’isola d’Utopia Quante città sono in quest’isola Di molte famiglie nuove, e lor governi Nuovi modi a far le ricolte dei grani Delle città, e specialmente di Amauroto Del sito, e del fiume della città Dei borghi, e degli orti della città Dei magistrati della città Come si elegge il magistrato Degli artefici della città Ogni famiglia fa le sue vestimenta da se I giuochi che si usano Ogni·sorta di gente lavora Del commercio tra i cittadini Luoghi per gl’infermi Pellegrinaggi, con molte belle ordinazioni Dei servi Modi, reggimenti e governi Della guerra, ed altre bellissime ordinazioni Della religione, e di molte adorazioni secondo la fede loro Note Fine della tavola. 83 DEL PARLAMENTO DI RAFAELLO ITLODEO DELLO STATO DI UN’OTTIMA REPUBBLICA SCRITTO DA TOMMASO MORO 84 LIBRO PRIMO GIOVANNI CLEMENTI, ITLODEO, TOMMASO MORO, PIETRO EGIDIO. AVENDO Enrico VIII, invittissimo re d’Inghilterra, ed ornatissimo d’ogni virtù che si ricerchi in principe egregio, certa controversia con Carlo, serenissimo principe di Castella(1), mi mandò ambasciatore in Fiandra in compagnia di Cutberto Tunstallo, creato da esso re poco avanti tesoriero con comune allegrezza di tutti: delle cui lodi non ragionerò; non già che io tema che l’amicizia, la quale tengo con esso renda meno fedele il mio testimonio di lui; ma perchè la sua virtù e dottrina supera ogni mio sforzo di poterla magnificare, ed è tanto nota e illustre, che il mio volerla far più chiara, sarebbe con picciola luce far lume al sole. Ci vennero contra a Brugi (così era ordinato) quei, che trattavano li bisogni del principe, uomini egregi; ed era di quest’ambasceria capo il prefetto di Brugi, uomo magnifico, avendo seco quel veridico Giorgio Temiscio preposto Casseletano, non solo per arte, ma eziandio per natura eloquente; oltre che è nelle leggi peritissimo, e per lungo uso artefice esperto a trattare quest’imprese. Avendo una e due fiate parlato insieme, nè essendo d’accordo in alcune cose, essi andarono a Brusselles per intendere la mente del loro principe. Io, come portavano i casi miei, andai in 85 Anversa, ove fui visitato da molti, e spesso da Pietro Egidio, anversano, e tra suoi nobilissimo, giovane non meno dotto che costumato, e verso gli amici tanto pronto con amore, fede e sincero affetto, che a fatica troverei uno che lo ragguagliasse nell’essere in ogni atto d’amicizia singolare. Egli è di rara modestia senza finzione alcuna, e di singolare semplicità. Il suo parlare è tanto piacevole e senz’altrui offendere giocondo, che il desiderio mio di rivedere la patria, la moglie ed i figliuoli miei, i quali già più di quattro mesi non avea veduto, meno mi affliggeva, godendo la sua dolce conversazione e gratissimo parlamento. Essendo io un giorno a messa nella magnifica chiesa di santa Maria, molto dal popolo frequentata, e già stando per ritornarmi all’albergo, io veggo a caso Pietro ragionare con un forestiero che già cominciava ad invecchiare, con faccia adusta, lunga barba ed il mantello che gli pendeva dalla spalla, come colui che di ciò poca cura si pigliava: e nel volto e nell’abito lo giudicai un nocchiero. Pietro, vedutomi, venne a salutarmi, e, trattomi da parte, mi disse: Vedi tu costui? (e mostrommi quello col quale l’avea veduto parlare) già mi affrettava di condurlo a te. Egli, diss’io, mi sarebbe stato per tua causa gratissimo. Anzi, rispose Pietro, l’avresti avuto caro per se stesso, perchè non vive ora uomo alcuno, che tanta storia di uomini e paesi non conosciuti ti possa narrare, del che so che sei sommamente bramoso. Risposi io, non mi ha ingannato il giudizio, perchè nel primo aspetto mi parve un nocchiero. Tu pigli errore, disse Pietro; perciocchè egli ha navigato non 86 già come Palinuro, ma come Ulisse o Platone. Costui si chiama Rafaello e per cognome Itlodeo(2), non ignorante della lingua latina, ma della greca peritissimo, in cui egli s’è più esercitato, perchè datosi tutto alla filosofia, nella quale però non ha letto in latino cosa di momento, se non alcuna di Seneca e di Cicerone. Costui è di Portogallo, e lasciato a’ suoi fratelli il patrimonio, per desio di veder del mondo, si accostò ad Americo Vespucio, e nelle tre ultime di quelle quattro sue navigazioni tanto famose gli fu di continuo compagno; se non che nell’ultima non ritornò con lui. Anzi quasi con violenza da esso ottenne di essere tra quei ventiquattro, che nel fine del navigare si lasciavano nel Castello(3). Così fu lasciato per fargli piacere, essendo egli più curioso di peregrinare, che di fabbricarsi un sepolcro; ed è solito di dire: “Viene coperto dal cielo chi non ha sepoltura(4): e da ogni luogo è tanta via al cielo come dall’altro”. Il qual discorso gli sarebbe costato caro, se Dio per sua benignità non lo avesse ajutato. Partito Vespucio, egli andò con cinque castellani a veder molti paesi, e con buona sorte pervenne a Taprobana(5), ove trovate le navi de’ Portogallesi, tornò contra ogni suo sperare nella patria. Udito questo, gli rendei grazie della sua umanità, che si avesse pigliato cura di farmi ragionare con uomo, il cui parlamento sapeva essermi gratissimo: e salutato Rafaello, dopo quelle comuni parole d’amendue, che con forastieri si sogliono usare nel primo incontrarsi, andammo alla casa mia. E sedendo nell’orto sopra uno scranno di cespuglio, egli ci narrò come partito Vespu- 87 cio, esso e i compagni lasciati nel Castello cominciarono con benignità a praticare con le genti del paese, e indi a poco tempo trovarsi tra loro famigliarmente; per esser giunti ad un principe di quella regione, il nome del quale non si ricordava, il quale benignamente provvide a lui ed ai cinque compagni la spesa per lo viaggio, con una fedelissima guida, con zattere per acqua e in carro per terra, da cui erano condotti ad altri principi con la diligente raccomandazione di questo. Mi narrava egli di aver vedute molte terre, città e repubbliche bene ordinate. E che sotto la linea equinoziale, d’amendue le parti, quanto è largo il cerchio del sole, erano gran solitudini dal continuo caldo arsicciate e squallide, abitate da fiere e da serpi, ovvero da uomini poco men che le bestie feroci e nocivi. Ma che passando assai più avanti, ogni cosa vi si trova domestica. L’aria meno aspra, il terreno con più grata verdura, e gli animali più benigni. Finalmente si scoprirono popoli, città e terre che fanno mercato tra loro, e con paesi lontani e vicini. Indi egli potè di qua e di là andare a vedere molti paesi, perchè niuna nave si apparecchiava a viaggio, nella quale esso ed i compagni non fossero benignamente accettati. Le navi da lui vedute nelle prime regioni aveano la sentina piana, le vele di papiro o di vimine, ed altrove di cuojo. Trovarono poi navi con la sentina acuta e le vele di canape: nel rimanente del tutto alle nostre simili, ed i nocchieri esperti del mare e dell’aria. E dice che fece cosa gratissima a quelli mostrando loro l’uso della calamita, il quale non sapevano ancora. Laonde poco navigavano 88 nel verno. Ed ora, fidandosi di quella pietra, navigano ancor nel verno tenendosi sicuri; quantunque potrebbe tal sicurezza per l’imprudenza causare loro molti mali. Sarebbe lungo narrare particolarmente ogni cosa da lui veduta in qualunque luogo; ma forse ne ragionerò altrove: specialmente di quelle cose, la cui cognizione può giovare, come gli ordini di ben vivere da lui considerati nelle repubbliche; perchè noi di queste cose a preferenza l’interrogavamo, delle quali esso volentieri ragionava, tacendo de’ vari mostri tanto frequenti che non sono tenuti per cose nuove. Trovavansi quasi in ogni luogo scille, arpìe rapaci e lestrigoni, che mangiano carne umana. Molti nuovi popoli malamente in alcune cose ordinati, ed ancora altri esempi de’ buoni istituti, con i quali si potrebbono correggere, questi furono da lui notati, dei quali altrove parleremo. Ora ho determinato di narrare solamente quanto egli disse dei costumi ed ordini degli Utopiensi; premettendo un parlare, mediante il quale perveniamo a ragionare di questa repubblica. Avendo Rafaello prudentissimamente narrato molti errori qua e là veduti, e molti buoni istituti così appo noi come appo loro ordinati, ed avendo in memoria la forma del vivere di quei popoli, non meno che se avesse passato tutta la sua vita in ogni terra ove si era trovato; Pietro maravigliandosi di lui disse: Io stupisco o Rafaello che non ti accosti a qualche re, al quale veramente saresti carissimo; quando che con tale dottrina e perizia dei luoghi e degli uomini non solo potresti dargli diletto, ma eziandio ammaestrarlo con esempi, e con consigli aju- 89 tarlo; e parimente provvedere a casi tuoi ed al comodo de’ tuoi parenti ed amici. Risposegli: non mi piglio molta cura dei miei, verso i quali parmi di aver già fatto il debito mio, avendo nella mia gioventù, e trovandomi sano, distribuito tra amici e parenti quei beni, che gli altri nella vecchiaja e vicini a morte mal volentieri lasciano; e penso che debbano starsi contenti di questa mia benignità, senza aspettare che pel loro causa io mi faccia servo dei re. Io, disse Pietro, non chiamo questa servitù, ma giudico esser via acconcia non solamente di giovare agli altri in pubblico e privatamente, ma eziandio a fare lo stato tuo più felice. Come lo farei, disse Rafaello, più felice con quella via dalla quale tanto l’animo mio abborrisce? Ora io vivo a mia voglia, il che per mio avviso avviene a pochi cortigiani. Assai sono quelli che bramano l’amicizia di uomini potenti; laonde fia poco danno se questi mancheranno di me, o d’un altro a me simile. Allora, diss’io, è noto, o Rafaello, che tu non brami ricchezze nè potenza, ed onori più un uomo del tuo parere, che ogni re o principe. Ma farai impresa degna di te, e di quest’animo generoso e veramente filosofo, se con qualche tuo particolare disconcio accomoderai questo tuo ingegno ed industria a giovare al pubblico: il che non puoi fare con maggior frutto, che essendo consigliere di qualche principe, persuadendolo ad opere giuste ed oneste, come certo mi credo che farai. Perciocchè un fiume di tutti i beni e mali deriva dal principe, come da una fonte nel popolo. E in te è tanta dottrina, che senza l’esperienza di cose grandi, e tanta perizia di molte cose, che sen- 90 za dottrina potresti essere ad ogni re egregio consigliere. Ti pigli errore in due modi, o Moro mio, rispose Rafaello, prima in me, e poi nella cosa istessa: perchè non è in me la facoltà che mi assegni, e posto che vi fosse, io turbando la mia quiete, non gioverei punto alla repubblica. Primieramente i principi si occupano piuttosto negli studi della guerra, della quale io sono inesperto, che in arti di pace; e più studiano ad acquistare nuovi regni, che a ben governare gli acquistati. Oltre di questo niuno de’ consiglieri dei re è tanto savio che non abbia bisogno, o tanto si tiene savio, che non condescenda a confermare l’altrui consiglio, come che sia sconvenevole; e non vada a verso a coloro, che veggono essere più grati al principe. Siamo tali per natura che ognuno si compiace de’ suoi trovamenti. Così piaciono al corvo i suoi polli ed alla scimia i propri figliuoli. Se alcuno in quella compagnia di invidiosi, e che prepongono le proprie cose alle altrui, narrerà qualche cosa letta da lui, che sia stata fatta per altri tempi o veduta in altri luoghi; quei che odono si pensano che ogni loro reputazione di sapienza sia giudicata vana, ed essi per pazzi tenuti, non sapendo che riprendere negli altrui trovamenti. E mancando loro ogni via, ricorrono al dire: Tali cose piacquero ai nostri maggiori, la cui prudenza piacesse a Dio che potessimo ragguagliare: e, come avessero al tutto vinto, si acchetano. Quasi fosse uno strano pericolo il ritrovare alcuno più prudente dei nostri maggiori; i cui buoni consigli lasciamo però da parte, e trovato qualche miglior consiglio di subito lo teniamo strettamente. Ed io sovente mi 91 sono abbattuto altrove, ed una fiata in Inghilterra in questi superbi, sciocchi e difficili giudizj. Sei stato, diss’io, appo noi? Vi fui, rispose Rafaello, non molto dopo quella misera sconfitta, quando la guerra civile degli Inglesi occidentali contro il re fu con loro miserabil strage finita. In quel tempo molto ebbi da render grazie a Giovanni Mortono, arcivescovo cantuariense e cardinale, e dell’Inghilterra in quel tempo cancelliere; uomo, o Pietro mio, (non dico a Moro che lo conobbe) non meno per sua prudenza venerabile, che per virtù. Era egli di statura mediocre, e robusto nella molta età; la faccia piuttosto da esser riverita che temuta; nel parlare affabile ma con gravità. Dilettavasi di parlare con qualche asprezza ai supplicanti, senza però offender quelli. Cercava di spiare che ingegno, che ardire avesse ciascuno, e trovandovi la virtù alla sua simigliante, se ne serviva nelle imprese. Era nel parlare elegante ed efficace: perito nelle leggi civili, di mirabile ingegno e prodigiosa memoria. A tanta altezza lo condusse l’egregia natura col suo esercitarsi nel parlare e nel bene operare. Parevami che il re molto credesse a suoi consigli, e si fermasse in lui la repubblica come in quello, che dalla sua gioventù fu dalla scuola spinto nella corte; ed a sua età avea praticato in alte imprese, e con varii travagli di fortuna era stato continuamente conquassato; ed avea imparato la prudenza delle cose tra grandi pericoli, la quale così appresa non facilmente si perde. Trovandomi alla sua tavola, un laico perito delle vostre leggi, presa non so quale occasione, cominciò a commendare quella rigi- 92 da giustizia contra i ladri, la quale ivi allora esercitavasi, e che tal fiata ne erano stati appesi venti ad una forca: laonde si maravigliava dove avveniva che si trovassero tanti ladri, quando che così pochi scampavano dal supplicio. Allora io, avendo ardire, alla presenza del cardinale gli risposi: non ti maravigliare di questo; perciocchè tal supplicio è fuori di giustizia, nè giova al pubblico, essendo troppo atroce a punire i furti, nè bastante a raffrenarli. Certamente il semplice furto non è tanto peccato che si debba con morte punire. Nè alcuna pena, per grande ch’ella sia, può raffrenare dai latrocinj quei che non hanno imparato arte alcuna di acquistarsi il vivere. In questo non voi soli, ma buona parte del mondo imita i cattivi precettori, i quali battono più volentieri gli scolari, che insegnare a quelli. Si determinano contra i ladri gravi supplicj, quando piuttosto era da provvedere che avessero onde guadagnarsi il vivere, perchè non venissero a così strana necessità di rubare, e poi perdervi la vita. È loro provvisto copiosamente, rispose colui: sonovi le arti meccaniche e l’agricoltura; con queste si potrebbono provvedere, quando non volessero spontaneamente esser cattivi. Non vale questa ragione, diss’io. Taciamo primieramente di coloro che dalle guerre esterne o civili tornano a casa troncati dei membri, come poco fa avvenne appo voi dalla guerra cornubiense, e non già gran tempo dalla francese, i quali per la repubblica o per difendere il re hanno perduto i membri; questi non possono per la debolezza esercitare le solite arti, nè per l’età impararne d’altre: taciamo dico di questi, quando 93 le guerre succedono l’una all’altra. Consideriamo quelle cose che ogni dì avvengono. Tanto è il numero dei nobili, i quali come api inutili, stanno in ozio, e radono fin sul vivo i loro lavoratori per accrescere le proprie entrate. Perchè non sanno questi dissipatori altra via di acquistare, e si menano dietro un gregge di servitori che non hanno imparato arte alcuna. Questi, morto il padrone, ovvero infermandosi, vengono cacciati di casa; perchè li nodriscono più volentieri oziosi che infermi: e spesse volte l’erede del morto non può nodrire tanta famiglia così di subito; laonde essi sono dalla fame assaliti fieramente, se non sono a rubare valorosi. E che altro possono fare? Quando che se vanno alquanto tempo errando, consumano le vesti e infermano; laonde essendo poi squallidi per l’infermità e vestiti di grossi panni, non si degnano i nobili di riceverli, e i contadini temono di accettarli, sapendo che l’uomo nodrito nell’ozio in delizie, ed avvezzo di andare con la spada e fiero viso sprezzando la vicinanza, non è atto con la zappa e la marra di guadagnarsi il parco vivere e servire ad un povero fedelmente. Rispose colui: dobbiamo noi mantenere simili uomini, che sono di più generoso spirito che gli artefici e i contadini. Questi sono i nervi dell’esercito. Con la stessa ragione, diss’io, manterremo i ladri, de’ quali non mancherete, sin che avrete tali uomini. Sono gli assassini buoni soldati, e i soldati gagliardi assassini; tanto queste arti si rassomigliano insieme. Questo vizio però, è quasi comune a tutte le nazioni. In Francia è una peggiore pestilenza: tutta la patria è piena di soldati stipen- 94 diarj quando è pace, se però quella si può chiamar pace, con quest’istessa persuasione, che sia bene avere uomini esercitati alla guerra, la quale si debba quasi cercare, acciocchè (come dice Salustio) la mano e l’animo non comincin per ozio ad intiepidirsi. Ma quanto sia pernicioso nodrire queste bestie, la Francia con suo danno se ne è avveduta; e gli esempi de’ Romani, Cartaginesi e Soriani lo manifestano; quando che tali uomini non solo rovinarono l’imperio di quelli, ma le città ancora ed i campi. Mostrasi ancora che questo non vi sia necessario, chè i soldati francesi dalla puerizia nelle armi esercitati sono stati vinti dal vostro esercito raccolto allora: non dirò più, per non esser tenuto assentatore. Quei vostri artefici e contadini non sogliono temere di questi spadacini, i quali tenuti deliziosamente diventano di animo vile ed effemminato. Finalmente non mi pare che giovi questo per stare apparecchiati alla guerra, la quale non avete se non quando vi piace. Avvi poi un’altra necessità di rubare, a voi particolare. Quale è questa? disse il cardinale; ed io risposi: le vostre pecore, le quali per addietro furono tanto mansuete e parche nel mangiare, ed ora sono tanto feroci e devoratrici, che consumano gli uomini, i campi, le case e le città. Perchè ove nel regno nasce lana più sottile e di maggior prezzo, ivi i nobili ed alquanti abati santi uomini, non contenti delle entrate annuali che sogliono pigliare dei loro larghi poderi, nè bastando loro di vivere delicatamente, senza giovare alla repubblica, anzi noiandola, rovinano le case, abbattono le terre per lasciare alle pecore più larghi paschi. Come se occupas- 95 sero poco terreno le selve e i vivai, quei buoni uomini fanno dei luoghi abitati e coltivati un deserto(6). Così, perchè un insaziabile divoratore rinchiuda infiniti campi, sono cacciati i lavoratori, o con inganni privati dei loro beni, o con ingiurie continue astretti a venderli. Così pur sono i miseri forzati a partirsi, maschi e femmine, mogli e mariti, orfani e vedove, padri con i piccioli figliuoli, e famiglia piuttosto numerosa che ricca. Si partono, dico, dai soliti luoghi senz’aver dove ridursi; le povere masserizie sono vendute a vil prezzo: il quale poichè hanno in breve tempo consumato errando qua e là, che altro possono fare che rubare ed essere appiccati, vedete voi con qual giustizia? ovvero mendicare; Benchè allora sono imprigionati come poltroni che non vogliono lavorare; e quantunque essi più che volentieri lavorerebbero, essendo condotti al lavoro. Ma non lavorandosi il terreno, che è l’arte loro, altro non sanno che si fare. Quando che un pecoraro ed un bifolco bastano a coltivare quel terreno, il quale prima aveva bisogno di molte mani. Perciò la vittovaglia in molti luoghi è cara. Il prezzo delle lane tanto è cresciuto, che i poveri, usati di fare i panni appo voi, non ne possono comperare, e perciò molti stanno in ozio. Ed aumentati i pascoli, una pestilenza, per divina vendetta, ha ucciso infinite pecore, la quale più giustamente doveva uccidere gli avari padroni; tuttavia quantunque cresca il numero delle pecore, non iscema il prezzo delle lane. Perchè sono in mano di pochi e ricchi, i quali le vendono quando loro piace, perchè non sono astretti di venderle. Sono cari 96 eziandio gli altri animali, perchè rovinate le ville non v’è più chi abbia cura di allevarne. E i ricchi non così pigliano cura di allevare altri animali, come le pecore; anzi comperandoli altrove magri, poichè sono ingrassati nei loro pascoli, li rivendono a gran prezzo. Questo incomodo non ancora si comprende al tutto. Ma poichè saranno esausti quei luoghi ove si comprano, quivi ne patirete estrema carestia; dalla quale specialmente era libera quest’isola. Causa questa penuria, che i padri di famiglia mandano via di casa quanti possono: e dove? Se non a mendicare, ovvero a rubare, al che sono piuttosto persuasi gli animi generosi. A questa misera povertà si aggiunge il vivere lussurioso e dilicato, perchè i famigliari dei nobili, gli artigiani e i contadini vestono troppo sontuosamente, ed usano cibi troppo delicati. Nei postriboli, nelle taverne, nei vari giuochi impoveriscono, laonde poi sono astretti di andar a rubare. Cacciate queste perniciose pesti, ordinate che rifacciano le ville e le terre coloro che le hanno rovinate, o che le lascino da altri riedificare. Raffrenate le compre di questi nobili, rimettete in assetto l’agricoltura ed il lavorio di lana; acciocché si possano occupare questi ladri per povertà, e i mendichi, ovvero gli oziosi ministri. Se non provvedete a questi mali, in vano si commenda la severa giustizia contra i ladri, piuttosto bella, che onesta ed utile. Perchè allevarli pessimamente in corrotti costumi, e volerli punire quando sono cresciuti nel vizio, altro non è che farli ladri per appiccarli. Erasi quel giureconsulto apprestato di usare il costume de’ disputanti, i quali meglio replica- 97 no le cose dette, che rispondono; e disse: Tu, essendo qui forestiero, ottimamente hai parlato, come io ti mostrerò, replicando le tue ragioni, ed a quelle rispondendo. Cominciando dal primo, parmi che quattro cose.... Taci, gli disse il cardinale, perchè vuoi esser troppo lungo nel rispondere: ma ti riservo per il seguente giorno, se non occorre altro impedimento. E volto a me disse: vorrei, o Rafaello, da te sapere, con qual fondamento giudichi che non si punisca il furto con morte, e qual pena tu assegneresti ai ladri, che fosse alla repubblica più utile, quando che non tu ancora pensi che si debba tollerare il furto? E se la morte ora non ispaventa i ladri; se fossero della vita sicuri, qual forza li raffrenerebbe? Parmi, rispos’io, iniquità torre la vita all’uomo, per aver egli tolto i danari; perchè niun bene umano si può con la vita ragguagliare. Se diremo che si appendono per aver violato la giustizia e le leggi; non chiameremo noi quella somma giustizia, una somma ingiuria? Nè si commendano le leggi tanto imperiose, che per minimo errore stringano la spada, nè tanto stoiche che giudichino i peccati essere eguali, come uccidere l’uomo e rubare danari. Dio vietò l’uccisione, e noi così prontamente uccidiamo per picciolo furto? Se dirà alcuno l’omicidio esser vietato, quando non è dalla legge umana ordinato, potrà questa legge ancora ordinare che si adulteri o spergiuri. Avendo Iddio ordinato che l’uomo non uccida altri, neanco se stesso; se possono gli uomini ordinare che si uccida alcuno senza la divina autorità, valerà il divino precetto quanto le umane leggi consentono: ed ordine- 98 ranno gli uomini in ogni cosa in che guisa si hanno da osservare i divini precetti. La legge mosaica, benchè aspra, punì il furto con danari, non con morte. Non pensiamo già che Dio nella nuova legge di clemenza ci abbia concesso maggior licenza di crudeltà. Cosi volendo noi punire egualmente i ladri e i micidiali, facciamo i ladri micidiali, i quali aspettando l’istesso supplicio, uccidono spesse fiate colui che rubano, per assicurarsi che sia il furto nascosto. Circa la punizione che sia convenevole di dare ai ladri, niuna è più comoda di quella, che tanto piacque ai Romani, nel maneggio della repubblica peritissimi. Essi dannavano a cavare metalli e pietre coloro che erano convinti di gravi colpe. Quantunque io più commendi l’istituto che vidi pellegrinando io Persia tra i Polileriti, popoli ottimamente istituiti, e liberi nell’uso della loro legge, pagando solamente un tributo al re di Persia. Ma perchè sono dal mare lontani e da monti circondati, stanno contenti dei frutti che nascono nei loro campi assai ben fertili, laonde vanno di raro ad altri popoli, e pochi vanno a loro. E per costume antico non istudiano di ampliare i loro confini, i quai sono con i monti da esterna ingiuria difesi. Cosi vivono felici, e pagando il loro tributo, sono da ogn’altra gravezza esenti, e perciò solamente dai vicini popoli conosciuti. Chi è convinto di furto, lo rende al padrone di quello non al principe, come si fa altrove. Parendo loro che tanta ragione abbia il principe nella cosa rubata, quanta vi ha il ladro. Non trovandosi il furto pagasi de’ beni del ladro, ed assegnato il rimanente alla moglie ed ai figliuoli di 99 lui, egli è dannato a lavorare: e se non ha commesso qualche gran furto, non è imprigionato, nè porta i ceppi, ma libero e sciolto si esercita nelle opere pubbliche. Quei che non vogliono sottostare a questa pena, sono piuttosto battuti che imprigionati; quelli che si affaticano gagliardamente non patiscono ingiuria alcuna. La notte chiamati per nome, vengono rinchiusi in certe camere, nè altro incomodo sostengono che l’affaticarsi di continuo. Sono cibati comodamente del pubblico. Raccogliesi in alcun luogo il loro vivere per elemosiua, la quale per la pietà di quel popolo basta d’avvantaggio a nodrirli. Altrove si deputano a ciò entrate del pubblico. In alcun luogo ognuno contribuisce a nodrire questi tali. Ed in altri non lavorano in opere pubbliche; ma ciascuno, come gli fa mestieri, li conduce a lavorare a giornata, con mercede alquanto minore di quella che si dà ad uomo libero; ed è lecito castigare la dapocagine dei servi con battiture, così stanno sempre in esercizio, ed oltre il vivere loro, ogni dì danno qualche cosa nell’erario. Vestono essi soli d’uno stesso colore, con i capelli tagliati sopra le orecchie, una delle quali lor tagliano. Possono i loro amici dar loro mangiare e bere, ed abiti del lor colore; ma v’è pena la testa a chi dà loro danari, e ad essi che li ricevono. Non è pericolo minore ad uno libero che ricevesse danari da un servo (così chiamano essi i dannati), e parimente ai servi che toccassero arme. Ogni regione fa un segno particolare ai suoi, ed è pena la vita levarselo via, siccome ancora uscire de’ suoi confini, e parlare con servo di altra regione. L’aver disposto di 100 fuggire è pena la testa; il servo consapevole di questa fuga vi lascia la vita, e il libero cade in servitù. Il libero che avvisa di questo fuggire ne riceve danari, ed il servo libertà, ed è loro perdonato di aver partecipato in questo consiglio. Questo è l’ordine di quel paese circa i ladri, la cui umanità e comodo facilmente si vede, quandochè punisce il vizio e castigalo, trattandoli in tal guisa, che sono astretti ad esser buoni. E tanto è indubitato che non tornano ai passati costumi; che i viandanti si tengono sicurissimi, avendo per guida uno di questi servi: perchè sono senz’arme, con tanto pericolo se loro fossero trovati danari, e senza speranza di fuggire, avendo abito differente dagli altri, onde nol potriano se non ignudi, ma l’orecchia tagliata li farebbe conoscere. Non possono ancora disporsi a fuggire, poichè tanto pericolo portano i consapevoli di questa fuga, ed un tal premio chi la manifesta; nè possono parlare con i servi delle altre regioni. E tutti sperano portandosi bene di acquistare la libertà; perchè ogni anno se ne francano alcuni, veduta dai magistrati la loro pazienza. Avendo io narrato questo, ed aggiuntovi, che introducendo in Inghilterra simil costume, ne riuscirebbe maggior frutto che di quella giustizia, tanto da quel giureconsulto commendata; egli rispose: non si potrebbe stabilire quest’ordine in Inghilterra che non venisse la repubblica in gran pericolo; e, torta la bocca, tacque, confermando tutti il parere di quello. Allora il cardinale disse: tu sei molto pronto ad indovinare prima che se ne vegga la prova. Ma potrebbe il principe sentenziare a morte i colpevoli, e non ese- 101 guendo la sentenza, aspettare il successo di questa benignità sua, vietando intanto che non si possano ridurre in luogo di franchigia, e non riuscendo in bene, eseguire la giustizia; nè potrebbe di questo nascere pericolo alcuno. Si potrebbe trattare parimente i mendichi, contra i quali sono fatte invano tante leggi. Detto questo dal cardinale tutti confermarono il mio parere, ma sommamente commendarono quello che aveva detto il cardinale dei mendichi. Seguirono poi cose ridicolose, le quali narrerò pure, da che non son triste. Eravi certo parasito, il quale facendo il matto rideva di lui, e talora confermava i detti suoi. Dicendo uno, ch’io aveva acconciamente provveduto ai ladri, ed il cardinale ai mendichi, ma che restava di provvedere a quei poveri, che per infermità o vecchiaia sono impoveriti: Io, rispose il parasito, provvederò a questi; perchè già sono fastidito dai loro pianti e miserabili domande, colle quali tuttavia non mi hanno potuto cavare di mano un danaro. Perciò quando passo non più mi ricercano di elemosina, non sperando da me cosa alcuna, come s’io fossi sacerdote; ma io con una legge ho provvisto che sieno distribuiti pei monasteri Benedettini, i maschi come del terz’ordine, e le femmine come pinzochere. Il cardinale con un riso commendò il suo parere. Un frate teologo si mostrò molto lieto contra i sacerdoti e i monaci, e disse: neanco in tal guisa ti espedirai dai mendichi, non provvedendo a noi frati. A questo è provveduto, disse il buffone, perchè avendo provveduto il cardinale ai mendichi vagabondi, a voi ancora è provveduto, che siete medesimamente vagabondi 102 mendichi. Mosse questo matto tutti a riso, vedendo che se ne prese giuoco il cardinale; ma il frate non già, il quale spruzzato di tale aceto, si sdegnò in guisa, che svillaneggiando il buffone lo chiamò detrattore, figliuolo della perdizione, minacciando con sentenze della sacra scrittura. Allora il buffone da dovero buffoneggiando disse: non ti sdegnare o frate, perchè gli è scritto: “Nella pazienza vostra possederete le anime vostre”. Non mi sdegno, rispose il frate, o ladrone, e non pecco, dicendo il salmista: “Sdegnatevi, e non vogliate peccare”. Ed essendo dal cardinale benignamente ammonito, che si temperasse, egli rispose: Io parlo, signor mio, solamente per buon zelo, come fecero i santi uomini, laonde è scritto: “Lo zelo della casa tua mi mangiò”. Coloro che schernirono Eliseo sentirono quanto poteva lo zelo del calvo; come sentirà forse questo ribaldo beffatore. Forse ti muovi, disse il cardinale, a buon zelo; ma faresti da prudente a non ti fare con un buffone schernire. Non farei signor mio, rispose egli, più saviamente a tacere, dicendo il savio Salomone: “Rispondi al pazzo secondo la sua pazzia”: e se furoni puniti molti per ischernire un calvo, che seguirà a questo beffatore dei molti frati, tra i quali sono assai calvi, ed abbiamo privilegio papale che chi ci beffeggia sia scomunicato. Il cardinale vedendo costui non far fine accennò al buffone che si partisse, e mutato acconciamente il parlare, poco appresso diedesi ad udire le cause de’ suoi clienti, e ci mandò via. Ecco, o Moro, quanto ho ragionato a lungo, vedendo che ti piaceva udire a punto il tutto: ed era necessario ch’io lo 103 narrassi per farti vedere il giudizio di quelli che aveano sprezzato il mio parlare, e poi come parassiti lo confermarono, vedutolo confermare dal cardinale; laonde puoi comprendere quanto stimerebbono i miei consigli i cortigiani. Io gli risposi: il tuo prudente e solazzevole parlare, o Rafaello, mi è sommamente piaciuto; e mi è paruto, non solo trovarmi nella patria, ma eziandio ringiovenire con la gioconda memoria di quel cardinale, nella cui corte fui da fanciullo nodrito; ed amoti assai più, vedendoti alla memoria di tant’uomo affezionato. Tuttavolta sono pur del medesimo parere, che non ti spiacendo tanto, vogli entrare nella corte di un principe, dicendo il tuo Platone: saranno felici le repubbliche che si reggeranno dei filosofi, ovvero se i re si daranno alla filosofia. Quanto si allontanerà la felicità, se non vorranno i filosofi fare partecipi i re de’ consigli loro? Anzi lo farebbero volentieri, e lo hanno già fatto coi loro scritti, quando che volessero i principi ubbidire ai buoni avvisi. Ma ben previde Platone, che non filosofando i re, essi malamente istrutti dalla fanciullezza, sprezzerebbero i consigli dei filosofi, com’egli vedeva per prova appo Dionisio. S’io proporrò ad un re sani decreti, rigettando i cattivi semi, sarò da lui cacciato o schernito. Poniamo ch’io fossi nel consiglio del re di Francia, e che tra buon numero di uomini prudentissimi si trattasse con quali arti si dovesse tener Milano(7), pigliare Napoli, andar contra i Veneziani, ed occupare i paesi vicini, confederarsi con i principi, e partecipare con quelli del bottino. Consigliano alcuni che si conducano Alemanni, altri che 104 si plachino con danari gli Svizzeri, altri che si diano danari all’imperatore, altri che si faccia accordo col re d’Aragona, lasciandogli il regno di Navarra. Ad altri piace che si faccia speranza al principe di Castella di qualche parentado, che si corrompano con danari alquanti nobili della sua corte. Circa l’Inghilterra dicono che più importa, che si faccia con essa finta amicizia, tenendo tuttora in punto gli Scoti, i quali ad ogni movimento degl’Inglesi entrino nel paese loro nemicamente. E che di secreto si favorisca a qualche nobile bandito, il quale pretenda di aver ragione in quel regno, e così terrà sempre il re in sospetto. Se io uomicciolo tra tanti uomini egregi, che consigliano a guerreggiare, mi levassi consigliando che si lasciasse stare l’Italia, essendo la Francia tanto grande, che a fatica può essere da un solo governata, onde non dovesse pensare il re di più aumentare il suo dominio: se io gli proponessi i decreti degli Ancorj(8), popoli opposti all’isola degli Utopiensi vicino all’Euronoto, i quali avendo guerreggiato per ottenere un regno al re loro, che secondo lui gli veniva per eredità; e presolo, vedendo che non meno travaglio sostenevano a mantenerlo, per le civili ribellioni e correrie esterne, nè mai poter lasciare l’esercito, ed esser rubati, e spargere il sangue per l’altrui gloria, la pace non esser sicura, corrompersi i loro costumi, molti bramar pigliare l’altrui ed uccidere, e le leggi esser sprezzate; perchè il re distratto al governo di due regni, meno attendeva a questo ed a quello; non vedendo fine a tanti mali, fatto consiglio, proposero benignamente al re, che tenesse 105 uno di quei due regni, perchè eran eglino tanti che non potevano essere governati da mezzo un re, come non patirebbe alcuno di aver un mulatiero con un altro comune, onde quel buon re tenutosi l’antico regno, diede il nuovo ad un suo amico, il quale tosto ne fu cacciato: se io gli mostrassi ancora che tanto sforzo di guerra, consumati i tesori e rovinati i popoli, gli riuscirebbe in sinistro; sicchè attendesse ad ornare il regno, dai suoi avoli sino a lui conservato, amasse i suoi, per esser da quelli amato, vivesse con loro, usando benignità nel comandare, e lasciasse gli altrui regni poichè il suo è ampio e capace; questo parlare come pensi o Moro che sarebbe grato? Ma seguiamo. Si tratta tra il re e i consiglieri di ammassare tesori, consigliando uno che si aumenti il prezzo delle monete, dovendone dispensare, e che si abbassi poi nel riceverle(9); persuade altri che finga di far guerra, e raccolti i danari faccia con solenni cerimonie la pace, mostrando come pietoso principe di aver pietà dell’umano sangue. Alcuno revoca a memoria certe antiche leggi, contra le quali ognuno (perchè non erano in uso) ha contraffatto, e asserisce che riscuotendo le condannagioni di quelle, ne piglierebbe una buona somma, e parimente si mostrerebbe giusto principe. L’ammoniscono gli altri, che sotto gravi pene faccia nuovi statuti in cose che giovino al popolo, e poi dispensi con danari quei, contra i quali va l’interdetto: così piglierà doppio frutto, e da quei che contravveranno, e vendendo ad altri molto cari i privilegi. Gli persuade alcuno che stringa i giudici a dispensare in ogni cosa a favore del dominio 106 regale, e facciali venire a litigare innanzi a se, perchè così non vi sarà alcuno tanto stupido, che per aggradirsi al re non trovi qualche via di calunniare. Contendendo dunque i giudici in cosa chiarissima, si viene in dubbio della verità, e può il re a suo comodo interpretare la legge; gli altri o per vergogna o per timore staranno addietro, e così darassi arditamente la sentenza, quando che basta al re potersi mostrar giusto torcendo le leggi, ove gli pare, e, ciò che più importa, vogliono i religiosi giudici che non si disputi la causa regale. Consentendo tutti nel detto di Cassio: che non basta ogni gran tesoro a quel principe che debba mantenere un esercito; e che non può il re far cosa ingiusta, ancorchè ne fosse bramoso, perch’egli è padrone del tutto, e tanto è proprio di ciascuno, quanto la sua benignità non gli leva; e che importa assai al principe, al quale appartiensi di difendere il popolo, studiare che quello non sia per delizie e libertà morbido; le quali cose lo fanno ardito a non sopportare i duri e giusti imperj, ma la povertà lo fa paziente, e priva i nobili di ardire di ribellarsi. Or pensa ch’io levandomi persuada, che questi consigli sono al re disonesti e perniciosi, il cui onore o sicurezza consiste piuttosto nelle forze del popolo che nelle sue, e mostri gli uomini eleggere il re, acciocchè con istudio e fatica di quello essi stiano comodamente e siano da ingiurie sicuri, perchè è ufficio di principe portarsi verso i sudditi da pastore, il quale pasce le pecore, non se stesso(10). Le contenzioni poi regnano più nei poveri, i quali specialmente studiano a cose nuove, e con speranza di guada- 107 gno sono arditi ad ogni impresa. Se fosse un re tanto da poco ed odiato dai suoi, che non potesse tenerli soggetti senza far loro ingiuria o impoverirli, fia meglio ch’egli rinunzi il regno, che tenerlo con tali arti, con le quali tiene la signoria, ma perde la maestà, e conviensi alla regal dignità esercitar piuttosto la signoria negli uomini potenti, che sopra i poveri, come volle inferire Fabrizio dicendo, che voleva piuttosto signoreggiare ai ricchi che esser ricco. Ed in vero chiameremo piuttosto guardiano di prigione uno che voglia esser solo ricco ed impoverire gli altri, e fa come l’imperito medico, che non sa cacciare una malattia, senza introdurvene un’altra. Confessi di non sapere signoreggiare ad uomini liberi, o cacci da se la dapocaggine e la superbia, le quali cose fanno sprezzare, ovvero odiare il principe. Viva egli del suo, misuri la spesa con le rendite, raffreni i mali; e prevenga con buoni ordini che non si commettano, rinovi le leggi antiquate, non pigli per alcuna colpa quello che non lascierebbe pigliare ad alcuno giudice. Io proporrei quivi la legge dei Macarensi(11), non lontani dall’Utopia, il cui re nella sua creazione giura di non aver mai nell’erario più di mille libbre d’oro, e d’argento alla valuta di quell’oro. Dicono che un re, il quale amò più il comodo della patria che il proprio, fece questa legge: parendogli che tanta somma potesse bastare al re per raffrenare i ribelli, o ribattere i nemici con arme, non dargli animo di assaltare gli altrui regni. Per questo specialmente si fece quella legge, e perchè non mancassero danari da cambiare ai cittadini, e da dispensarsi dal re quando fosse 108 necessario. Tal re era temuto dai cattivi e dai buoni amato. Ma come narrerei tali cose ai sordi? Ai sordissimi, anzi, soggiuns’io; nè giudico, per dire il vero, che si diano tai consigli ove non sono accettati. Come potrà entrare nell’animo loro un parlare tanto insolito, essendo del contrario persuasi? Questa scolastica filosofia può esser grata in un famigliare parlamento tra gli amici, ma nei consigli dei principi, ove si trattano gran cose con grande autorità, queste cose non hanno luogo. Perciò, disse Rafaello, non ha luogo appo i principi la filosofia. Non diss’io questa filosofia scolastica, che si crede potersi accomodare ad ogni cosa: ma v’è un’altra filosofia più civile, la quale secondo le cause e i tempi difende acconciamente la ragion sua con riputazione. Questa bisogna che tu usi. Altrimenti rappresentandosi la commedia di Plauto, ove i servi gareggiano insieme, se tu vestito da filosofo, entrassi in scena, e narrassi qualche sentenza della Ottavia(12), ove Seneca disputa con Nerone, non sarebbe meglio che avessi taciuto, che recitando cose aliene, aver fatto una tragicommedia? Avresti corrotto la presente favola, mescolandovi cose diverse, ancorchè fossero migliori. In quella favola che ritrovi, portati meglio che puoi; nè ti devi porre a turbar quella, quantunque ti venga a memoria di un’altra che sia più piacevole. Così è nella repubblica e nei consigli dei principi. Se non puoi al tutto estirpare le sinistre opinioni, nè provvedere ai vizj già posti in uso, non pero si debbe abbandonare la repubblica; siccome nè anche la nave agitata dalla fortuna, quantunque tu non potessi raffrenare il fu- 109 ror dei venti. Non si debbe ancora replicare un parlar insolito, sapendo come non fia ricevuto negli animi che sono del contrario persuasi; ma biasgna andare per lungo circuito, e sforzarsi di condurre a buon porto quello che si tratta. Nè potendo ridurre le cose a bene, studia almeno che siano men cattive, perchè non possono esser le cose al tutto buone, se non sono tutti buoni, e questo io non aspetto fin a molti anni. Con quest’arte, rispose egli, altro non farei, che, volendo medicare l’altrui furore, con gli altri impazzirei. Perchè volendo ragionare il vero, sono astretto a ragionare di queste cose in tal guisa. Non so se si appartenga al filosofo di ragionare il falso, ma a me certo non appartiene; benchè quel mio parlare, come che fosse a quelli forse men grato, tuttavia non mi penso che si debba giudicare al tutto insolente ed inetto. Ma s’io narrassi quello che finge Platone nella sua repubblica, ovvero gl’istituti che fanno da dovero gli Utopiensi nella loro; quantunque fossero, come sono in vero, migliori, tuttavolta potrebbero parere alieni da questi costumi, perchè qui sono le possessioni divise tra privati, ed ivi comuni. Ma non potrebbe il mio parlare esser ingrato se non a coloro, che avessero seco disposto di andare a rovina, perchè dimostra i pericoli, e ci ritrae da quelli; altrimenti qual cosa vi fu che non sia da dire convenevolmente ove ti piace? Se si debbono tralasciare tutte le cose sconcie, e le introdotte da rei costumi degli uomini; bisogna che noi cristiani dissimuliamo assai cose, le quali Cristo non vuole che siano dissimulate, anzi comandò che fossero predicate in pubblico. E gran- 110 dissima parte di queste è più aliena dai presenti costumi, che non è stato il mio parlare. Ma gli accorti predicatori, vedendo che malagevolmente gli uomini accomodavano i costumi loro alla legge di Cristo, acconciarono ai costumi la legge, come se fosse una squadra di piombo, affinchè si unissero in qualche guisa; ma per mio avviso hanno operato che più sia loro lecito esser cattivi. E tanto farei io a dar consiglio ai principi: perchè ovvero sarò di parer diverso, ovvero, come dice Terenzio, aumenterò la loro pazzia(13). Quel modo di circuire nel parlare, e portarmi in guisa, che non potendo ridurre le cose a perfezione, almeno studj che riescano men cattive, non vedo che mi possa succedere. Perchè non è lecito in quei parlamenti dissimulare nè chiuder gli occhi, anzi bisogna apertamente confermare i pessimi consigli, e sottoscrivere ai pestiferi decreti. Sarà come una spia e quasi traditore colui che loderà malignamente i rei consigli. Nè mi soccorre cosa alcuna, con la quale possa giovare chi entra fra quei consiglieri, i quali più agevolmente corromperebbono un uomo da bene, che essi si emendassero. Perchè sono nella maligna usanza corrotti e guasti; laonde sei astretto con la tua innocenza colorire l’altrui pazzia, senza però che ti riesca di poterli ridurre, che si mutino in meglio. Perciò Platone con bellissima similitudine rende ragione perchè s’astengano i savi dal maneggiar la repubblica: perchè vedendo il popolo per la piazza sparso esser dalla pioggia bagnato, nè potendo a quello persuadere che si ritiri al coperto; e giudicando vana impresa uscire allo scoperto e bagnarsi, ricorrono 111 essi al coperto, riputandosi aver fatto assai, di essersi ritratti in luogo sicuro, poichè non possono sanare l’altrui pazzia. Quantunque o Moro (per dire circa quello ch’io sento la verità) ove sono le possessioni de’ privati, ove il tutto si misura coi danari; ivi a fatica, per mio avviso, è possibile che si maneggi con giustizia una repubblica e con prospero successo. E tienti per certo, che non si fa cosa alcuna giustamente ove le cose ottime vengono in mano di pessimi: ovvero che sia felicità ove il tutto si divide tra pochi; i quali non però stanno molto comodamente, essendo gli altri nelle miserie. Perciò volgendomi per la mente gli ottimi, prudentissimi e santissimi istituti degli Utopiensi, i quali con sì poche leggi governano le cose loro tanto acconciamente, che la virtù ha il suo premio; e tuttavia, fatte le cose uguali, tutti ne hanno in copia: paragonando ai loro costumi quelli delle altre nazioni, che sempre ordinano nuove leggi, nè mai ne hanno fatto abbastanza; nelle quali nazioni ognuno chiama suo quello, che può avere, nè si possono ordinare tante leggi, che siano sufficienti per acquistare, conservare o conoscere il suo dall’altrui; il che manifestano le infinite liti, che non mai hanno fine: considerando io meco stesso queste cose, non mi maraviglio che Platone non si degnasse di far legge a coloro, che non accettavano quelle, con le quali ogni cosa si fa comune. Previde quell’uomo prudentissimo quella esser unica e sola via alla salute, che si faccia un’ugualità de’ beni esterni, la quale come si può conservare, ove ciascuno ha di proprio? Perchè traendo ciascuno a sè quanto può, dividen- 112 dosi i pochi ogni gran tesoro, e lasciando agli altri la povertà; avviene che una parte sembri dell’altra più degna, la qual però è rapace, malvagia e inutile; ed opprime gli uomini modesti e semplici, i quali con industria cotidiana sono più benigni verso la repubblica, che verso loro stessi. Io mi rendo certo che non si possano trattare le cose dei mortali, nè distribuire con giusta ragione e con felicità, ove non sia al tutto levata via la proprietà. E che durando quella, buona parte e la migliore degli uomini non possa schivare la povertà e l’infelicissima miseria, la quale io confesso che si può allegerire, ma non al tutto annullare. Se fosse ordinato che niuno avesse più che certo numero di campi, e una tal determinata somma di danari; e se vi fossero leggi che il principe non fosse troppo ricco, nè il popolo insolente; che non si cercassero i magistrati, nè si vendessero, nè fosse di necessità maneggiarli con spesa, onde poi si dà occasione di ricuperare i danari con frodi e rapine, o è forza preporre i ricchi a quegli ufficj a cui non dovriano preporsi che i saggi; tai leggi variano come le medicine, che possono porger ristoro al corpo, già guasto per infermità, ma non sanarlo, riducendolo al suo primo stato. Nè vi è di questo speranza alcuna, mentre che ognuno possiede di proprio; anzi volendo sanare una parte farai incrudelire la ferita dall’altra, perchè una s’inferma con la sanità dell’altra, non potendosi aggiugnere all’una, che all’altra non si levi. A me, diss’io, pare il contrario, che non si possa vivere comodamente, ove sono tutte le cose comuni. Come avranno tutti abbastanza i bisogni loro, 113 quando ciascuno si ritragga dalla fatica non essendovi dalla necessità astretto? E il fidarsi dell’altrui industria fa l’uomo negligente. Ma essendo gli uomini dalla povertà stimolati, nè potendo tenere per proprio ciò che guadagnano con industria e sudori, non seguono di necessità uccisioni e sedizioni tra loro; levata via specialmente l’autorità del magistrato, la quale non può aver luogo appo tali uomini, che non sono in cosa alcuna differenti? Non mi maraviglio, Rafaello rispose, che a te così ne paja, il quale non ne hai veduto pur un’immagine falsa. Ma se fossi stato meco in Utopia, ed avessi di presenza veduto i loro costumi, come feci io, che vi sono vissuto più di cinque anni, nè mai avrei voluto partirmene, se non era per manifestare di qua sì nuovo mondo; confesseresti veramente non aver veduto altrove che in quel luogo un popolo bene istituito. Certamente a fatica mi darai a credere, soggiunse Pietro Egidio, che si trovi in quel nuovo mondo un popolo meglio istituito, che in questo da noi conosciuto, nel quale non sono gl’ingegni peggiori; e penso che siano qui più antiche le repubbliche, e più comodi trovati dal lungo uso, per tacere di alcune cose fortuitamente scoperte, che non si potrebbero trovare da alcun ingegno. Circa l’antichità, rispose Rafaello, diresti altrimenti, quando avessi letto le storie loro delle cose pubbliche, alle quali se dobbiamo dar fede, furono prima le città appo loro, che appo noi; ed ha potuto esser così qua come là ogni cosa a caso o per ingegno trovata. E per mio avviso, ancorchè fossimo più acuti d’ingegno che quelli; certamente per 114 studiosa industria loro siamo di gran lunga inferiori. Perchè narrano le loro storie, che innanzi al venir nostro, non aveano inteso cosa alcuna di noi, come ci chiamano, oltrequinoziali, se non che, già mille e dugento anni, una nave che si ruppe appo l’Utopia, ivi portata per fortuna, ebbe sopra alquanti Romani ed Egizj, i quali condotti al lido non più si partirono di quel paese. Vedi come fu loro tale occasione comoda per loro industria. Non era arte appo il romano imperio, che fosse acconcia ai fatti loro, la quale essi non imparassero da que’ forestieri, o con acute indagini quindi non ritrovassero. Eccoti quanto bene riuscì loro da pochi uomini portati là da questo nostro mondo. E se per simile fortuna alcuno di loro è stato spinto a noi, questo si è così scordato, come si scorderanno i discendenti loro, ch’io abbia abitato in quel luogo. E siccome essi ad un incontrarsi con noi hanno fatto propria ogni nostra industriosa invenzione; così penso che andrà lungo tempo, prima che pigliamo il migliore loro istituto. E penso altresì che una sola cosa sia cagione, che non essendo noi nè per ingegno, nè per forze inferiori, tuttavia le cose loro sono più felicemente amministrate, e con maggior felicità fioriscono. Pregoti di grazia, diss’io, o Rafaello, che ci vogli descrivere questa isola, non già in brevità, ma che ci dimostri con ordine i campi, i fiumi, le città, gli uomini, i costumi, gl’istituti, le leggi, ed ogni cosa che ti parrà noi voler conoscere; cioè tutto quello, che non sappiamo. Lo farò, disse Rafaello, molto volentieri, specialmente che tengo il tutto in memoria: ma bisogna aver tempo. An- 115 diamo adunque a desinare, e poi piglieremo il tempo a tua voglia. Così facciamo, rispose egli. Ed entrati desinammo, e poi tornammo nel medesimo luogo, e comandando ai famigliari che non ci turbassero, io e Pietro Egidio, confortammo Rafaello che ci attenesse la promessa. Egli adunque vedendoci attenti e bramosi di udire, stato alquanto tacito a sedere pensando, cominciò a parlare in questa guisa. 116 UTOPIA DI TOMMASO MORO LIBRO SECONDO. L’isola degli Utopj, larghissima nel suo mezzo, si stende dugentomila passi, e per lungo tratto non si stringe molto, ma ver la fine d’amendue i capi si va assottigliando: i quali, piegati in cerchio di cinquecentomila passi, fanno l’isola in forma della nuova luna. Questi suoi corni, dal mare combattuti, sono distanti uno dall’altro circa undici miglia, ed il mare, tra essi dai venti difeso, fa come un piacevol lago e comodo porto; di onde l’isola per suo bisogno manda le navi agli altri 117 paesi: la bocca da una parte con guadi e secche, dall’altra con aspri sassi mette spavento a chi pensasse d’entrarvi come nemico. Quasi nel mezzo di questo spazio è un’alta rupe, quale perciò non è pericolosa, sopra di cui in una torre da loro fabbricata gli Utopiensi tengono il presidio: molte altre rupi vi sono nascoste e perigliose. Essi solamente hanno cognizione dei canali: indi avviene di raro che alcun esterno, che non sia da uno di Utopia guidato, vi possa entrare; quandochè essi a fatica v’entrano senza pericolo, non si reggendo a certi segni posti nel lido, i quali, essendo mossi dai luoghi soliti, guiderebbono ogni grande armata nimica in precipizio. Dall’altra parte è un porto assai frequentato, e dove si scende, fortificato dalla natura e con arte in tal guisa, che pochi uomini lo possono difendere da copioso esercito. Ma come si narra, ed anco la qualità del luogo ne dà indizio, quella terra anticamente non era dal mare circondata. Utopo, che le diede il nome, perchè prima si nomava Abraxa, e ridusse coloro che l’abitavano da una vita rozza e villesca a questa foggia di vivere umano e civile, nel quale vincono quasi tutte le generazioni degli uomini; preso in un tratto il luogo, tagliò quindicimila passi di terreno, col quale era la Utopia continuata a terra ferma, e la fece isola. Ed avendo astretto a tale opera non solamente quelli dell’isola, ma i soldati suoi ancora, con tanto numero di uomini, in brevissimo tempo fornì tale impresa, lasciando stupiti i vicini popoli, i quali di questo prima ridevano. Sono nell’isola cinquantaquattro città grandi e magnifiche di medesima favella, istituti e 118 leggi, e quasi all’istesso modo situate, quanto il luogo ha permesso. Le più vicine sono scostate una dall’altra miglia ventiquattro: ma niuna è tanto lontana dall’altra, che non vi possa andare un pedone in un giorno. Tre vecchi cittadini e prudenti di ciascuna città ogni anno concorrono in Amauroto(14), la quale per esser nel mezzo dell’isola, e a tutti comoda, è tenuta la principale, ed ivi trattano delle comuni bisogne dell’isola. Ogni città non ha meno di ventimila passi di terreno d’ogni intorno: ed alcune più, come sono più scostate una dall’altra. Niuna brama di ampliare i suoi confini, riputandosi gli abitanti piuttosto lavoratori dei campi che tengono, che padroni. Hanno per le ville acconciamente le case, di ogni instrumento campestre fornite: in queste vanno ad abitare i cittadini a vicenda. Niuna famiglia rusticana ha meno di quaranta persone, oltre due villani. Ad essa è preposto un padre ed una madre di famiglia per età e costumi ragguardevoli, e ad ogni trenta famiglie dassi un capo. Tornano nella città ogni anno venti di ciascuna famiglia, i quali sono stati in villa due anni. In luogo di questi vengono altri venti dalla città, perchè siano nelle opere villesche ammaestrati da quelli, che per esservi stati un anno, sono di tali opere più esperti; e l’anno vegnente ammaestrino gli altri, a fine che non si trovino tutti del lavorare i campi ignoranti, e nel raccogliere la vettovaglia non commettano errore. Benchè questa foggia di rinnovare gli agricoltori sia solenne, acciocchè niuno sia astretto di continuare la vita rusticana più lungamente; nondimeno molti dilettandosi dell’agricoltura, impetra- 119 no di starvi più anni. Gli agricoltori coltivano il terreno, nodriscono gli animali, apparecchiano le legne, e le portano alla città per terra o per mare, come viene loro più in acconcio, fanno nascere con mirabile artificio un’infinità di polli, senza che covino le galline, ma con un caldo proporzionato, e come madri gli accompagnano e governano. Nodriscono pochi cavalli, e feroci, dei quali si servono solamente per le imprese che si fanno a cavallo; perchè ogni fatica di coltivare e condurre le cose loro fanno con opera dei buoi, i quali benchè siano più lenti che i cavalli, tuttavia sono alla fatica più pazienti, e meno soggetti alle infermità: oltre che riescono di minor spesa, e quando più non vagliono alla fatica, si possono mangiare. Usano di seminare solamente il frumento, bevono vino di uva, di pomi o di pera, ovvero l’acqua pura, che talvolta cuocono con miele o liquirizia, della quale hanno copia. E quantunque sappiano quanta vettovaglia si consuma nelle città e nel contado, nondimeno seminano di più, per darne ai vicini. Ogni istromento richiesto all’agricoltura si piglia nella città dai magistrati, senza costo alcuno: e molti là concorrono ogni mese alle feste solenni. Quando è tempo di tagliar il frumento, i preposti dei lavoratori avvisano i magistrati quanto numero di cittadini si debba mandare, e concorrendovi tutti a tempo, in un giorno sereno quasi tagliano tutto il frumento. 120 DELLE CITTÀ E SPECIALMENTE DI AMAUROTO. Chi ha veduto una di quelle città, le ha vedute tutte; tanto sono una all’altra simili, ove la natura del luogo lo consente. Ne dipingerò adunque una; e benchè non importi descrivere più questa che quella, nondimeno ragionerò di Amauroto come più degna. La quale, per avervi il senato, è da tutte le altre onorata; ed io ho di quella maggior cognizione, perchè vi sono stato circa anni cinque. Amauroto è situata in una costa di monte, ed è quasi quadrata, perchè la sua larghezza comincia poco di sotto dalla cima del colle, e per duemila passi si stende al fiume Anidro(15), lungo la ripa del quale alquanto più si stende. Anidro sorge da picciol fonte ottanta miglia sopra Amauroto; ma dal concorso d’altri fiumi accresciuto passa avanti Amauroto largo cinquecento passi, ed indi poi slargandosi a seicento, mette nell’oceano. In questo spazio di alquante miglia, tra il mare e la città, l’acqua va e torna con molta fretta ogni sei ore. Il mare, quando v’entra, occupa il letto del fiume per trenta miglia, e caccia indietro le acque di quello: e alle fiate le corrompe col salso. Ma tornando poi addietro, il fiume a l’usato corre con dolci acque irriganti la città: ed un ponte non di travi o legnami, ma di pietra egregiamente 121 lavorata, serve per passarlo a quella parte, che è più dal mare lontana, acciocchè le navi possano trascorrere innanzi a quel luogo della città senza pericolo. Hanno ancora un’altro fiume, non già grande ma tranquillo e piacevole: il quale sorgendo del monte, ove la città è fabbricata, passa per mezzo di quella, e mette nell’Anidro. Gli Amaurotani hanno tolto dentro nella città la fonte di questo fiume, che non era molto lontana, e fortificatola, acciocchè non potessero i nimici divertire l’acqua o corromperla. Indi con cannoni di pietra cotta derivano l’acqua alle più basse parti: ed ove per il luogo non si può condurla, fanno cisterne, nelle quali si raccoglie la pioggia, e ne pigliano i popoli il medesimo comodo. Il muro largo ed alto cinge la città con torri e rivellini: la fossa secca, ma larga e profonda, e con spine e siepi, da tre bande circuisce le mura; e dalla quarta il fiume serve per fossa. Le piazze sono fatte acconciamente e per condurvi le cose necessarie, e perchè siano sicure dai venti: gli edificj non vili e tirati al dritto, quanto è lungo ogni borgo, con le case a rimpetto una dell’altra: le fronti dei borghi hanno tra loro una via larga venti piedi. Dietro le case, quanto è largo il borgo, è l’orto largo e rinchiuso dalle muraglie di dietro dei borghi: ogni casa ha la porta di dietro e davanti, la quale si apre agevolmente in due parti, e si chiude da sè stessa: ognuno vi può entrare. Tanto hanno ogni lor cosa comune, che ancora mutano le case ogni dieci anni. Fanno gran stima degli orti, nei quali piantano viti, frutti, erbe e fiori con grande ordine e vaghezza. Gareggiano i borghi uno con l’altro di aver 122 orti più belli: nè hanno cosa, della quale piglino più diletto e comodo, che di questi; dei quali pare che avesse più cura il loro autore, che di qualunque altra cosa. Perchè dicono Utopo da principio aver descritto questa forma della città, lasciando poi la cura di ornarla ai discendenti. Nelle loro istorie da quel tempo, che fu presa l’isola, che comprende anni mille settecento e sessanta, le quali conservano molto diligentemente, leggesi, che le case erano basse come tuguri, fatte di ogni sorta di legnami, che potevano avere: le pareti lutate, e la coperta di strami levata nel mezzo. Ma ora le case hanno tre palchi, i muri di selice o mattoni con calce incrostati, e ripieni di rottami. I tetti piani e rassodati in guisa, che non portano pericolo del fuoco, sono coperti di piombo per tollerar le piogge. Le finestre di vetro, che hanno bellissimo, li difendono dai venti; usano ancora a questo tele sottili unte d’olio lucidissimo o di ambra; e indi hanno più chiara luce, e sono dal vento meglio difesi. 123 DEI MAGISTRATI. Ogni trenta famiglie si eleggono ogni anno un magistrato, detto da loro anticamente Sifogranto, ed ora Filarco. Quello, che è preposto a dieci Sifogranti con le loro famiglie, si nomava Traniboro, ed ora Protofilarco. I Filarchi, che sono dugento, giurano di eleggere principe quello, che giudicheranno di comune utilità, e così danno voti segreti per uno dei quattro, che sono proposti dal popolo e si pigliano dalle quattro parti della città, uno di ciascuna. Questo magistrato dura in vita, purchè non venga in sospicione di voler tirannizzare. I Tranibori si eleggono ogni anno, ma non li mutano senza causa. Tutti gli altri magistrati sono annuali. I Tranibori ogni terzo dì, e talvolta più spesso, vengono a consiglio col principe circa le cose della repubblica, e se v’è pure qualche controversia l’achetano. Chiamano ogni dì in senato due Sifogranti per ordine: ed hanno per legge che niuno statuto sia di valore, del quale non sia prima stato trattato tre dì nel consiglio. Gli è pena la testa a trattare di cose pubbliche fuori del senato, acciocchè non potesse il principe ovvero i Tranibori ordire una congiura, ed opprimere il popolo con tirannia, e mutare lo stato della repubblica. Perciò ogni cosa importante va al consiglio de’ Sifogranti, i quali ragionatone con le loro famiglie, ne consigliano tra loro, e del loro parere avvisano il se- 124 nato. Talvolta nel consiglio trattasi di tutta l’isola. Usano i magistrati di non ragionare sopra cosa alcuna quel giorno, che essa viene proposta, ma la differiscono nel seguente: a fine che pensandovi sopra, deliberino quello che sia alla repubblica profittevole, e non si abbiano a pentire della loro risoluzione, come poco considerata. 125 DEGLI ARTEFICI. L’agricoltura è comune arte a maschi e femmine, e niuno è di quella inesperto. Tutti dalla fanciullezza l’imparano; parte in iscuola, ove se ne danno i precetti; parte nei campi alla città più vicini, ove sono condotti quasi a giuocare, acciocchè non solamente veggano l’arte, ma piglino occasione di esercitare il corpo. Oltre l’agricoltura, a tutti, come dicemmo, comune, ciascuno impara un’arte, o di muratore, o di magnano, o di legnajuolo, o a lavorare di lana o di lino, perchè non è appo loro altro artificio, nel quale si occupino molte persone. Le vesti sono di una forma, eccetto che variano quanto basta a discernere il sesso, ed i maritati dai non maritati. Questa usano per ogni età; ed è vaga da vedere, e comoda all’estate ed al verno. Ogni famiglia fa le sue vesti, ed ognuno impara alcuna di quelle arti; non solo i maschi, ma le femmine ancora, le quali perchè sono men robuste, si danno alla lana e al lino, lasciando ai maschi le arti faticose. La maggior parte impara l’arte del padre: tuttavia se alcuno ad altra arte s’inchina, egli impara l’arte della famiglia, nella quale viene adottato; il che si fa per opera del magistrato insieme col padre di quella. Se uno, imparata un’arte, brama d’impararne un’altra, parimente se gli concede: e poi esercita qual più gli aggrada, se la città non ha più bisogno di una che 126 dell’altra. L’officio de’ Sifogranti è specialmente di provvedere, che niuno stia ozioso, ma eserciti con sollecitudine l’arte sua; non però dalla mattina per tempo sino allo sera, che è miseria estrema, ed usasi in ogni paese, eccetto che appo gli Utopj. I quali di ventiquattr’ore tra il dì e la notte sei ne assegnano al lavoro; tre avanti desinare, dopo il quale riposano due ore, ed indi tre altre, appresso alle quali cenano. Annoverando la prima ora dopo il desinare, verso l’ottava vanno a dormire, e dormono otto ore. Il tempo, che avanza tra le opere e il desinare, ognuno lo dispensa a suo modo, pure in opere virtuose: e molti si occupano in lettere. Leggesi ogni dì innanzi giorno, e vi vanno specialmente coloro, che sono eletti allo studio. Ma vi concorrono assai altri maschi e femmine, come è il desio loro. Se alcuno, a cui non aggrada lo studio, vuole in questo tempo esercitarsi nell’arte sua, niuno lo vieta; anzi viene lodato, come persona utile alla repubblica. Dopo cena stanno a diporto un’ora, la state nei giardini, e l’inverno nelle sale, ove mangiano. Ivi cantano ovvero ragionano. Non sanno giuochi di fortuna e perniciosi. Ma usano due giuochi, non dissimili a quello degli scacchi: uno è il contrasto dei danari, nel quale un numero vince l’altro numero: nell’altro le virtù combattono coi vizj. In questo giuoco accortamente si può vedere la discordia tra essi vizj , e la loro concordia contra le virtù; quali vizj a quali virtù si oppongano; con quali forze combattano apertamente; con quali macchine da traverso resistono; con quali ajuti le virtù vincano le forze de’ vizj; con quali arti ribattano 127 ogni loro sforzo, e con quali modi una parte resti vittoriosa. Ma perchè non pigliate quivi errore, bisogna considerarvi attentamente. Potreste pensare che essi lavorando solamente sei ore, patissero disagio delle cose necessarie, il che non avviene; anzi lavorando appena quel tempo, guadagnano quanto fa loro bisogno ad ogni comodo, ed anche di più: e questo potrete comprendere, considerando quante persone appo le altre nazioni stiano oziose. Primieramente quasi tutte le femmine, che sono la metà del popolo: ed ove le femmine si affaticano, ivi gli uomini ai danno al riposo. Quanta turba di preti e religiosi? I ricchi e nobili con le copiose famiglie dei servi, spadaccini e parassiti. Aggiugnivi i furfanti che si fingono infermi, per dapoccagine, e troverai che picciol numero apparecchia quello, che da tutti gli uomini si consuma. Considera in questi quante arti non necessarie si fanno per servire alla vita lussuriosa, dalle quali si piglia gran guadagno. Se i pochi, che lavorano, fossero divisi nelle poche arti al vivere umano più comode, la vettovaglia sarebbe a sì vil prezzo, che gli uomini avanzerebbono assai oltre il lor vivere. Se consideri quei che esercitano arti inutili, e che stanno oziosi, vivendo delle altrui fatiche, comprenderai quanto poco tempo basterebbe per guadagnare quanto fosse opportuno non solo al vivere, ma eziandio alle voluttà con avvantaggio ancora, il che si vede manifestamente nell’Utopia. In tutta la capitale e nel contado non sono cinquecento tra uomini e donne, che stiano in ozio, e siano gagliardi. I Sifogranti istessi, benchè siano per le·leggi dal lavoro esenti, 128 tuttavia affaticano, per invitare col loro esempio gli altri a far lo stesso. Sono pure esenti coloro, i quali commendati dai sacerdoti al popolo, vengono per segreta ballottazione dei Sifogranti applicati agli studj. Quelli che in essi non riescono, sono rimandati ad imparare alcun’arte; ma avvien sovente all’incontro, che qualche meccanico, a quelle ore che non lavora, fa tanto profitto in lettere, che viene levato dall’arte e posto nell’ordine dei letterati. Di quest’ordine de’ letterati si eleggono i sacerdoti, i Tranibori ed anco il principe, nomato anticamente Barzane, ed ora Ademo. L’altra moltitudine, non oziosa, nè occupata in esercizj inutili, fa in poche ore grandi opere; tanto più ch’essa ha d’uopo in molte arti necessarie di minor fatica che le altre genti. Perchè altrove il figliuolo, non curando di mantenere quello che ha fabbricato suo padre, lascia venire gli edificj a tale, che il suo erede è astretto a rifare con gran spesa quello, che si poteva prima con poco ristorare. E alcuni sontuosi, non contentandosi della casa fabbricata da un altro, ne edificano una nuova, e lasciano andare quella in rovina. Ma nella repubblica Utopiense, così bene ordinata, di raro si edifica di nuovo, anzi si prevede ad ogni mancamento, che possa avvenir nelle case, prima che avvenga. Così durano lungamente gli edificj con poca fatica; laonde non hanno i muratori molte volte che fare, se non squadrano legnami e lavorano le pietre, per aver la materia ad ordine di fabbricare quando fa mestieri. Vedi quanto poca fatica usano nell’apprestarsi il vestire. Quando sono al lavoro, usano vesti di cuoio o di pelle, e 129 queste durano anni sette; quando vanno in pubblico, si mettono sopravvesti, che cuoprono quelle sì rozze, e le usano tutte di un colore nativo nell’isola. Così i panni di lana meno costano appo loro, che presso le altre nazioni. Il lino poi, che meno vale, è più in uso; e si considera in esso solamente la candidezza, come nella lana la mondizia; nè si apprezza più il filo, perchè sia più sottile. Così ognuno si contenta di una veste quasi per due anni, quandochè altrove non hanno abbastanza gli uomini di quattro, di cinque, e neanco di dieci di seta e di lana. Ma gli Utopiensi, avendo abito che li difende dal freddo, non sono astretti desiderarne più; quando che ivi niuno è dell’altro più ornato. Pertanto esercitandosi in vili arti, avviene che in poche ore guadagnano assai; e quanto avanza loro dal vivere dispensano a ristorare le opere pubbliche. E quando non fa bisogno di questo, per pubblico editto lavorano ancora meno. Non vogliono i magistrati occupare i loro cittadini alla fatica contra lor voglia; quandochè l’istituzione della loro repubblica a questo mira specialmente, che quanto per le pubbliche necessità è lecito, si diano alle occupazioni intellettuali, in cui pensano che consista la vera felicità. 130 DEL COMMERCIO TRA I CITTADINI. È ragionevole che si dichiari in che guisa i cittadini hanno commercio insieme, e trattano le loro bisogne. Essendo la città composta di famiglie, essi le fanno grandi col maritar le figliuole. Perchè vanno le giovani maritate in casa dei mariti, ma i figliuoli maschi e i discendenti rimangono nella famiglia ed ubbidiscono al più vecchio, al quale si sostituisce un altro per età prossimo, se egli mancasse di giudizio. Ma perchè la città non venga meno di cittadini, nè cresca oltre modo, vietasi che niuna famiglia (perchè in ogni città ne sono seimila, non contando il senato) abbia meno di dieci o più che sedici fanciulli, poichè negli adulti non si può tener misura. E fassi questo agevolmente, dando nelle famiglie più rare quei figliuoli, che nascono nelle più copiose; e quando crescono oltre modo, mandandoli nelle altre città meno popolose. Quando poi moltiplicano per tutta l’isola, inviano colonie ai luoghi vicini, ove siano larghi terreni non coltivati dagli abitatori; cui pigliano in compagnia a vivere con le loro leggi, se si contentano. E se ne contentano facilmente, perchè i coloni coi loro buoni istituti rendono fertile il terreno, il quale forse era giudicato sterile e maligno. Ma se non vogliono abitare con loro, li cacciano da quei confini, che si prendono. E credono aver causa giustissima di guerreggiare e trattar 131 da nemici coloro, i quali non lasciano lavorare ad altri quel terreno, che ad essi avanza, e di cui si possono nodrire molti. Se alcune città loro tanto si scemano di uomini, che non vi si possa supplire dalle altre (il che a memoria loro è accaduto solamente due fiate per la pestilenza) richiamano i cittadini dalle colonie, per far l’isola loro popolosa; volendo piuttosto disfare le une, che lasciar venir meno le altre. Ma torno alla foggia del viver loro. Il più vecchio è preposto alla famiglia, le mogli servono ai mariti, e i figliuoli ai padri, ed universalmente i minori ai maggiori. Ogni città si divide in quattro parti eguali, e nel mezzo di ciascuna è una piazza, ove ogni famiglia porta i suoi lavori, e li dispone per ordine in certi granaj. Ogni padre di famiglia piglia di qui ciò che fa bisogno ai fatti suoi, senza prezzo alcuno; quando che hanno copia di ogni cosa, nè alcuno teme che gli manchi, e si contenta solamente di quanto gli fa mestieri. Essendo manifesto che dove non è il timore di dover mancare delle cose necessarie, nè superbia di volersi aumentare di ricchezze soverchie (le quali cose fanno l’uomo avido e rapace; il che non avviene agli Utopj), ivi è un vivere tranquillo. Evvi il mercato dei cibi, ove si portano erbe, frutti, pane, pesci, carne di ogni animale, e questo fuori della città vicino al fiume, ove si possono lavare le immondizie. Gli animali sono uccisi e lavati per mano di famigli, onde non si contaminino i cittadini, parendo loro che la umanità e clemenza all’uomo naturale, con tali uccisioni a poco a poco venga meno. Nè lasciano introdurre nella città cosa alcuna 132 sporca o fracida, acciocchè non si corrompa l’aria, e indi nasca pestilenza. Ogni borgo ha certe spaziose sale, distanti ugualmente una dall’altra, e con i loro proprj nomi. In queste abitano i Sifogranti; e le trenta famiglie a loro commesse, quindici da un lato e quindici dall’altro della loro dimora, ivi hanno a venire a mangiare in comune. Quelli, a cui spetta di apparecchiare i cibi per ciascuna sala, vengono in piazza a chiedere i cibi per quante persone si trovano avere. Hanno special cura degli infermi, i quali sono governati in pubblici alberghi. Perchè mantengono fuori della città quattro stanze tanto capaci, che pajono quattro picciole città, onde vi stiano molti infermi acconciamente, e i contagiosi possano tenersi dagli altri lontani. Sono queste stanze ad ogni comodo degli infermi artificiosamente fabbricate, e tanta diligenza vi si usa e assidua cura di medici, che ognuno infermando, si contenta piuttosto di esser governato in tai luoghi, che nella casa propria: ma niuno vi si manda contra sua voglia. I cibi, secondo l’ordine dei medici, sono assegnati ai dispensieri, che li dividono tra quelli di ciascuna sala. Se non che si ha riguardo al principe, al pontefice, ai Tranibori, agli ambasciatori e agli stranieri, i quali peraltro vi si veggono di raro, e a cui si provvede altresì di certe stanze a sufficienza fornite. Concorrono ad ora di mangiare a suono di tromba di metallo tutte le famiglie raccomandate ad un Sifogrante, eccetto gl’infermi che giacciono negli alberghi o nelle proprie case. Benchè, soddisfatto alle sale; non si nega il cibo della piazza a chi lo chiede, sapendosi di certo che 133 questo non faccia senza causa ragionevole. Perchè quantunque non sia vietato ad alcuno il mangiare in casa; tuttavia niuno vi sta volentieri, non essendo tenuta per cosa onesta, anzi sembrando pazzia pigliar la fatica di apprestare un magro desinare, potendo trovarlo delicato nella sala. Ivi i servi ministrano in quelle cose, che sono di fatica o di qualche sporchezza; e le femmine cuocono i cibi ed apparecchiano il convito. Mangiano le famiglie a tre tavole o più, come porta il numero loro, i maschi colla schiena al muro, e le femmine di fuori; acciocchè volendosi levare per qualche disconcio, come suole avvenire alle gravide, non turbino gli ordini; ed anco possano andare a rivedere le balie, che stanno in una stanza sempre col fuoco e l’acqua monda, per governare i bambini a voglia loro, Ognuna latta i suoi figliuoli, se non è impedita da infermità; e quando avviene questo, le mogli dei Sifogranti agevolmente proveggono di balia. Perchè quelle che sono atte a far questo, si afferiscono spontaneamente; massime che tutti le commendano di clemenza, e quegli che da alcuna è lattato, la riconosce per madre. Nella stanza delle balie stanno i fanciulli da cinque anni in giù. Gli altri sinchè sono all’età di maritarsi, e maschi e femmine, servono alle tavole; e chi non può servire sta presente con sommo silenzio. Mangiano quello che loro viene sporto da quei che seggono, senza avere ora alcuna assegnata al loro desinare. Nel mezzo è la prima tavola a traverso del cenacolo, dalla quale si mirano tutte le tavole. A quella seggono il Sifogrante e la moglie, e due de’ più vecchi. Seggono a quattro a 134 quattro per tutte le tavole. Se in quella sifogranzia è tempio alcuno, il sacerdote e la moglie di quello seggono a tavola col Sifogrante. Si pongono d’amendue le parti i più giovani, di poi i vecchi, di maniera che si trovano insieme di età dissimili, acciocchè la gravità e riverenza dei vecchi raffreni i giovani da ogni sconvenevole atto o parlare. Le vivande più dilicate sono portate primieramente ai più vecchi, i luoghi dei quali sono ragguardevoli: di poi si serve agli altri ugualmente. I vecchi dispensano a chi loro piace quei delicati cibi, dei quali non era tanta copia, che se ne potesse dare a tutti. Così vengono onorati i vecchi, e nondimeno il comodo a tutti perviene. In ogni desinare e cena si legge brevemente qualche cosa, che vaglia a formare i costumi. Da questa lezione i vecchi pigliano occasione di onesti parlamenti, ma sollazzevoli e grati. Non però tanto sono prolissi nel parlare, che non vogliano udire ragionare i giovani; anzi a studio li provocano, per comprendere nella libertà del convito la prontezza e disposizione di ciascuno. Il desinare è di corto tempo, perchè si va al lavoro; ma la cena tengano più lunga, perchè segue poi il dormire, che giudicano molto efficace per il digerire. Non cenano senza canti, e copia di frutti o confezioni; fanno profumi odoriferi; spargono unguenti, e non risparmiano cosa alcuna, che possa rallegrare il convito: non parendo loro che sia vietata alcuna voluttà, purchè non ne riesca qualche incomodo. In questa guisa vivono nella città: ma in villa, ove sono le famiglie una dall’altra lontane, tutte mangiano a casa propria, nè manca loro cosa alcuna, 135 perchè viene ad esse portato di quello che si mangia dagli altri nella città. 136 PELLEGRINAGGI DEGLI UTOPIENSI. Se alcuno brama di vedere qualche suo amico che stia in altra città, oppure la città stessa, ottiene facilmente licenza di andarvi dai suoi Sifogranti e Tranibori, purchè non sia qualche bisogno dell’opera sua. Mandasi alcun nunzio con un’epistola, che significa aver egli licenza di andarvi, e gli assegnano il giorno del ritornare. Se gli dà un carro con un servo pubblico, che guidi e governi i buoi. Se non ha femmine in compagnia, rimanda il carro, per non aver seco tale impedimento. Quantunque nulla porti con sè; alcuna cosa, tuttavia, non gli manca per viaggio, perchè ovunque si trova, è in casa sua. Stando in un luogo più che un dì, ciascuno ivi esercita l’arte sua, ed è trattato umanamente dagli artefici a lui simili. Se alcuno da sè stesso, senza la licenza in iscritto del principe, è trovato andare fuori dei suoi confini, e viene pigliato, è come fuggitivo ridotto nella città, ove si vede gravemente punire. Se di nuovo commette tale errore, è punito con servitù. Nondimeno ognuno può andar diportandosi per i campi della sua regione, avendone licenza dal padre, e consentendolo la moglie. Ma in qualunque villa perviene, non gli è dato mangiare, se prima non fa quant’opera è tenuto innanzi desinare o innanzi cena. Con questa legge può ciascuno andare per i campi tra i suoi confini; perciocchè tanto gioverà alla città, 137 quanto se fosse in quella. Vedete già quanto sia loro vietato lo stare in ozio, senza niun colore di darsi alla dapoccagine. Non hanno magazzini da vini nè di cervogia, nè luogo pubblico da meretrici, niun luogo da nascondersi, niun ridotto di vizii; anzi la presenza di tanti occhi fa la fatica onesta parer necessaria. Al costume di questo popolo segue di necessità l’abbondanza, la quale tra tutti si divide, e così non può essere tra loro alcun bisognoso. Nel senato amaurotico ove (come dicemmo) ogn’anno concorrono tre di ogni città, essendo manifesto che una città abbia copia di qualche rendita, della quale un’altra sia bisognosa, si provvede che la copia di una supplisca alla povertà dell’altra senza prezzo alcuno. Anzi la città che della sua copia avrà ajutato l’altra, senza pigliar da quella cosa alcuna, ricorre ad una terza per qualche oggetto, di che ella ha bisogno: quantunque non le abbia dato il minimo che. Così tutta l’isola è come una sola grande famiglia. Poichè è provveduto agli interni bisogni, il che non giudicano aver fatto, se non si assicurano per due anni, essendo incerta la raccolta del seguente; quanto avanza, cioè gran copia di frumento, miele, lana, lino, zafferano, porpore, veli, cera, sevo e cuojo, ed anco animali portano ad altre regioni, alle quali donano del tutto la settima parte, in pro degli indigenti, ed il rimanente vendono per mediocre prezzo. Di questo commercio riportano a casa non solamente le merci, delle quali hanno bisogno nell’isola, che è per lo più il ferro, ma eziandio buona somma d’argento e di oro. E da tale continua consuetudine sono di tali cose mirabilmente copio- 138 si. Perciò non fanno differenza dal dare in credenza a toccare il danaro, anzi hanno il più in crediti. Benchè fanno pubblici istromenti, e vogliono che vi concorra l’autorità dei luoghi, ove danno in credenza, e questa riscuotendo a tempo i danari dai debitori, li mette nell’erario e ne cava la usura fin a che gli Utopiensi li dimandano; i quali non mai riscuotono di quelli la maggior parte, non parendo loro cosa giusta pigliare dagli altri quello, di che essi non si accomodano, e i debitori pigliano frutto. Quando avviene che vogliano prestare ad altra città danari, li pigliano da quella, che è loro debitrice; e ciò pur fanno accadendo guerreggiare, al che riservano tutto quel tesoro, che tengono nell’erario per servirsene negli estremi pericoli, e subiti casi (specialmente quando soldano con grossi stipendii soldati esterni, i quali più volentieri mettono in pericolo, che i loro cittadini) perchè sanno di certo che gl’inimici ancora si sogliono comperare con danari. A quest’effetto conservano un tesoro inestimabile, non già come tesoro; ma mi vergogno narrare in che modo lo tengono, temendo che non mi sia creduto, specialmente che io non lo crederei a me stesso, se cogli occhi proprj non l’avessi veduto. Ed è necessario che ogni cosa sia meno credibile, quanto ella è dai costumi di chi la sta ad udire lontana: benchè l’uomo prudente forse meno si meraviglierà, vedendo i loro istituti tanto dai nostri dissimili, se ancora l’uso dell’oro e dell’argento più si accomoda ai loro costumi, che ai nostri. Certamente non usando essi il danaro, ma tenendolo per quei casi che forse non avvengono mai, 139 l’oro e l’argento non è più stimato di quanto merita per sua natura, cioè a giudizio di tutti è inferiore del ferro, il quale a noi è tanto necessario, quanto il fuoco e l’acqua. E già veggiamo l’oro e l’argento non aver dalla natura virtù alcuna, della quale non possiamo mancare; se non che la sciocchezza umana l’ha tenuto in prezzo, perchè si trova di raro. Anzi la natura come pia madre ha posto negli occhi di tutti quelle cose, che sono ottime, come l’aria, l’acqua e la terra, ed ha nascosto quelle che poco giovano. Se essi rinchiudessero questi metalli in una torre, potrebbe il popolo sospettare che il principe od il senato ne pigliasse qualche comodo, ingannando in qualche guisa il popolo. Se poi ne facessero vasi, quando venisse occasione di volerne far moneta per pagare i soldati, forse spiacerebbe a molti privarsi di quei vasi che usato avessero ai loro comodi. Essi per provvedere a tali cose, hanno, siccome nelle altre cose, trovato una via molto simile ai loro istituti, e dai nostri dissimile, la quale non sarà facilmente creduta, se non dagli uomini esperti. Essi bevono in vasi di terra e di vetro bellissimi, e fanno vasi da immondizie e da orinare d’oro e d’argento, ed anche catene e ceppi. A quelli che sono infami pongono in dito, e attaccano alle orecchie anelli, o catene d’oro al collo, e con oro cingono ad essi il capo. Così pongono ogni loro studio che l’oro e l’argento appo i lor popoli sia vilipeso. Così avviene che questi metalli tanto grati alle altre nazioni, sono tanto vili appo gli Utopiensi, che perdendoli tutti, non parrebbe loro di aver perduto un danaro. Raccolgono nei lidi perle, e nel- 140 le rupi diamanti e piropi, i quali non vanno cercando, ma avendoli trovati, li puliscono. Con questi ornano i fanciulli, i quali si gloriano di tali ornamenti, e ne divengono arroganti; ma poichè sono cresciuti, e veggono che solamente i fanciulli usano di simili inezie, senza essere dai padri ammoniti, per vergogna le lasciano, siccome i nostri, poichè sono grandicelli, gittano le noci, i giocherelli e simili inezie. Quanti diversi effetti partoriscono negli uomini questi diversi istituti, non mai mi è paruto vedere tanto manifestamente, quanto negli ambasciatori degli Anemolii(16). Questi erano giunti ad Amauroto, mentre ch’io mi vi trovava: e perchè venivano a trattare di gran cose, tre cittadini di ogni città aveano precorso il loro arrivo; e parimente gli ambasciatori delle genti vicine, venuti prima. I quali sapendo i costumi degli Utopiensi, che non onorano gli abiti sontuosi, e poco apprezzano l’oro, anzi è tra loro biasimato, usavano di presentarsi in vesti quanto meno potevano sontuose. Ma gli Anemolj, ch’erano popoli lontani, e aveano poco commercio cogli Utopiensi, intendendo come tutti vestivano rozzamente, si diedero a credere, che facessero questo per povertà, onde più arroganti che savi determinarono di mostrarsi come Dei cogli abiti ornati, e movere i miseri Utopiensi a meraviglia. Così entrarono nella città tre ambasciatori con cento in compagnia vestiti a varj colori, e molti di seta. Gli ambasciadori, cbe erano nobili nel paese loro, aveano manti e collane d’oro, anelli d’oro pendenti dalle orecchie, ed altre collane pendenti dai capelli con gioie, e perle lampeggianti: ed in somma 141 erano ornati di quelle cose, che sono appo gli Utopiensi o supplicj de’ servi, o biasimi d’uomini infami, ovvero inezie di fanciulli. Era un giuoco mirare come si mostravano arroganti, quando faceano comparazione dal loro ornamento al vestire degli Utopiensi, perchè tutto il popolo si era ridotto in piazza. Considerate ora quanto si trovarono ingannati della loro speranza, e lontani da quello che imaginavano di ottenere. Questo loro ornamento fu giudicato cosa vergognosa dagli Utopiensi, eccetto da pochi, i quali per giuste cause erano stati a vedere altre nazioni; per il che salutando per signori ogni minimo servo di quelli, pensarono che gli ambasciatori fossero servi: e non gli onorarono punto. Avresti veduto i fanciulli che avevano gettato le perle e le gioje, quando le videro pendere dai capelli degli ambasciatori, mostrargli alle madri dicendo: Eccoti o madre quello sciocco, che usa perle e gioje come se fosse un bambino. La madre da dovvero diceva: Taci figliuolo, perchè forse colui è un buffone degli ambasciatori. Altri biasimavano quelle catene d’oro con dire che erano tanto sottili, che un servo le potrebbe rompere, e tanto larghe, che se le potrebbe levare dal collo e fuggire. Gli ambasciatori stati ivi due giorni, e vedendo quanto a vile vi era tenuto l’oro, anzi più biasimato appo gli Utopiensi, che non era appo loro in prezzo: e mirando le catene e i ceppi di un servo fuggitivo, nei quali era più oro ed argento, che non valeva ogni ornamento di tutti tre, deposero ogni lor vago portamento, del quale prima andavano arroganti. Poichè parlarono cogli Utopiensi, compresero come si 142 maravigliavano che un uomo potesse mirare una gioja lampeggiante, al quale fosse lecito di mirare le stelle e il il sole: e che alcuno si riputasse più nobile per il filo di lana più sottile, quando che quello pure è stato portato da una pecora, la quale perciò non è più che pecora. Si meravigliano ancora che l’oro di sua natura così inutile tanto venga stimato dalle altre genti, che l’uomo, per causa del quale l’oro è in pregio, sia meno stimato che l’oro; in tanto che alcuno rozzo e stupido tenga in servitù molti nomini dabbene e savi, solamente perchè possede molti danari. I quali se per fortuna o per qualche sottilità delle leggi fossero condotti in mano del peggior servo di quello, sarà egli astretto farsi servo del suo servo, solamente per questo mutamento di posseder danari. Mi meraviglio ed abbomino quelli che danno ai ricchi quasi gli onori divini, non perchè loro siano obbligati, nè debitori, ma solamente perchè sono ricchi, benchè non sperino, vivendo quelli, aver pur un danaro de’ tanti che possedono, conoscendoli miseri ed avari. Queste e simili opinioni hanno bevuto gli Utopiensi parte col latte nella fanciullezza, parte negli istituti della repubblica, i quali da ogni inezia sono molto alieni, e parte dalla dottrina. E benchè non molti sono in ciascuna città esenti dalle fatiche ed applicati alle lettere, cioè quelli soli che dalla fanciullezza mostrano acuto ingegno, e l’animo inchinato alle buone arti; tuttavia tutti i fanciulli vengono ammaestrati nelle lettere e buona parte del popolo maschi e femmine occupano in istudj quelle ore che avanzano loro da lavorare. Imparano le scienze nella loro fa- 143 vella, la quale è copiosa di parole, soave ad udire, e innanzi ogn’altra fedelissima interprete dell’animo. Questa istessa, benchè in molti luoghi corrotta e diversa, in ogni parte di quel clima è in uso. Prima che vi andassi, non avevano pur udito il nome di quei filosofi, che sono di qua illustri; nondimeno essi hanno trovato in musica, logica, aritmetica e matematica quasi le istesse cose, che trovarono i nostri antichi. Ma siccome ragguagliano quasi in ogni cosa gli antichi, così nelle nuove invenzioni di logica sono molto inferiori: perchè non hanno niuna regola delle restrizioni, amplificazioni e supposizioni trovate acutamente nella logica, che tra noi dai fanciulli s’impara. Le seconde intenzioni tanto sono dal loro discorso lontane, che non possono comprendere l’uomo in comune ed universale, quantunque noi l’abbiamo fatto grande come un gigante e quasi lo mostriamo a dito. Ma nel corso delle stelle e movimento dei cieli sono peritissimi; ed hanno trovato stromenti di figure diverse, colle quali comprendono a pieno i movimenti del sole, della luna e delle stelle, che sono nel loro orizzonte. Non sanno cosa alcuna dell’amicizia ed inimicizia delle stelle, nè dell’astrologia indovinatrice, anzi ingannatrice. Conoscono molto avanti le piogge, i venti e le tempeste per certi lor segni. Ma circa le cause di tutte le cose, del corso e salso del mare, ed in somma dell’origine e natura del cielo e del mondo, dicono parte come i nostri filosofi; parte son come quelli di vario parere. Circa la filosofia morale, disputano delle stesse cose come noi. Ragionano dei beni dell’anima, del corpo e degli esterni; se 144 tutti si possono chiamar beni, o solamente quelli dell’animo. Disputano della virtù e della voluttà, ma la principale controversia tra di loro è in qual cosa consista la vera felicità dell’uomo, ovvero se consista in più cose. Ma inchinano più del giusto a credere che nella voluttà consista il viver felice. E si servono a questo della religione, la quale però appresso di loro è grave e severa: nè mai disputano della felicità, che non uniscano insieme alcuni principj tolti dalla religione e dalla filosofia. Senza i quali pensano che la ragione umana sia tronca e debole ad investigare la vera felicità. Quei principii sono tali; che l’anima è immortale, nata per benignità di Dio alla felicità; che alle virtù e buone opere nostre sono assegnati i premj, ed alle scelleragini i supplici. Benchè tali principj vengano dalla religione, tuttavia pensano che siano con ragioni e fondamenti umani condotti a crederli, ed a concederli, e levati via questi, confermano arditamente, che ciascuno quantunque stupido è astretto di cercare la voluttà a dritto e a torto: e solamente ha da mirare che un minor diletto non impedisca il maggiore, onde ne segua qualche affanno, che annulli l’avuto solazzo. Perchè il seguire la virtù, così aspra e malagevole, e non solamente cacciar da se il vivere soave, ma sofferire ancora spontaneamente i dolori, non porta frutto alcuno, se dopo morte non ne segue alcun premio, avendo passato la vita miseramente: e questo giudicano estrema pazzia. Tuttavia non pongono la felicità in ogni voluttà, ma solamente nell’onestà; perchè la natura è tratta a quella, come ad un sommo bene 145 dalla virtù, nella quale sola la parte avversa mette la felicità. Questi dicono che la virtù è un vivere secondo la natura, e che siamo creati a questo disposti. E che segue la natura colui, il quale nel bramare e fuggire le cose ubbidisce alla ragione, la quale primieramente muove gli animi umani ad onorare la divina maestà, alla quale siamo tenuti dell’essere, e per cui siamo capaci della felicità; secondariamente ci ammonisce e desta, che cerchiamo di vivere lietamente con minore ansietà che si può, e che ajutiamo gli altri ad ottenere questo bene, per la naturale compagnia che è tra noi. Niuno mai ha seguito tanto rigidamente la virtù, nè dato si è tanto ostinatamente alle fatiche e vigilie, ch’egli non sia stato pronto ad alleggerire le altrui miserie, ed a commendare per cosa umana che l’uomo studj a giovare all’uomo, e mitigando i travagli di quello, ricondurlo dalle miserie a vita tranquilla e sollazzevole. E perchè non debbe la natura istigarci che facciano lo stesso ufficio verso noi stessi? Perciocchè o la vita sollazzevole e gioconda è cattiva, e non solamente non devi porgere ajuto ad alcuno di ottenerla, anzi quanto puoi devi privarne ciascuno, come di cosa perniciosa e mortifera; o è buona, e tanto più devi procurarla a te stesso, a cui non meno sei tenuto di provvedere che agli altri. Dicono adunque: la natura ci assegna la vita gioconda, cioè la voluttà, come un fine di tutte le opere nostre; e vogliono che il viver secondo la natura sia il vivere virtuoso. Ma invitandoci la natura ad ajutarci l’un l’altro (il che fa ella meritamente, quando che niuno è di tanta dignità, che la natura si pigli cura di 146 lui solo, perchè essa porge il seno a tutti quelli, ai quali ha dato una forma comune) essa stessa veramente ti ammonisce, che non procuri i tuoi comodi con l’altrui incomodo. Vogliono adunque che si osservino le convenzioni fatte tra privati uomini, ed anche le pubbliche leggi fatte da buono principe, o da un popolo che non sia oppresso da tirannia, le quali assegnano il modo a comunicare i comodi e godere le voluttà. Gli è poi gran prudenza se, non offendendo queste leggi, si cerca il proprio comodo; ed è singolare pietà studiare al comodo universale. Ma egli è strana e spiacevole ingiuria volersi pigliare solazzo con altrui dispiacere: ed è singolare benignità spogliare se medesimo di qualche sollazzo per accomodarne altri; il che tuttavia riporta comodo uguale al danno che se ne sente. Perchè viene con beneficj ricompensato; e la coscienza dell’opera buona, con la memoria della carità e benevolenza di coloro ai quali hai fatto benefìcio, porta all’animo più diletto che non avrebbe dato quella voluttà corporale, dalla quale ti sei astenuto. Finalmente (come la religione persuade all’animo umano) Iddio con perpetua allegrezza ricompensa una breve voluttà. Così vogliono che si considerino le operazioni nostre, e tra queste le virtù, mirando finalmente alle voluttà, cha sono della felicità il fine. Chiamano essi voluttà ogni movimento o fermezza di animo e di corpo, nel quale l’uomo dalla natura guidato si diletta di trovarsi. Nè senza causa vi aggiungono l’appetito della natura. Perchè siccome non solamente il sentimento, ma la dritta ragione segue ogni cosa, che è per natura gioconda, 147 alla quale non si vada con ingiuria altrui, nè perdendo maggior solazzo, o incontrando fatica; così quelle cose reputano inutili alla felicità, che sono dagli uomini contra l’ordine di natura reputate dolci: anzi le tengono per nocive, quando che avendo una fiata occupato l’uomo, tanto lo adescano con falso diletto, che non lo lasciano pigliar piacere dei veri solazzi. Sono veramente assai cose, che di loro natura non hanno alcuna soavità, anzi non poca amaritudine; ma per il diletto dei tristi piaceri non solamente sono annoverate tra le più gioconde voluttà, ma eziandio tra le principali cause della vita nostra. Tra queste sorta di falsa voluttà annoverano la soddisfazion di coloro, i quali per esser meglio vestiti, si reputano migliori; nel che pigliano doppio errore, riputando migliore la loro veste, che l’altrui, e se medesimi degli altri più degni. Qual maggior dignità ha il filo di lana più sottile che il grosso, considerando l’uso della veste? Tuttavia molti si tengono da più, per esser più pomposamente vestiti, e si sdegnano, quando non si veggono stimare più che gli altri; il che è una sciocchezza considerando quanto sia vano l’onore dagli abiti causato. Che natural diletto porge, che alcuno si cavi la beretta, o pieghi le ginocchia ad onorarti? Ti gioverà forse questo a levarti il dolore del capo o dei ginocchi? Quanto soavemente impazziscono in questa falsa imagine di voluttà coloro, che si tengon nobili, per esser nati da progenie, la quale per molte età sia stata ricca, quando che non conoscono altra nobiltà. Benchè non si tengono men nobili, quantunque non sia lasciata loro da’ maggiori alcuna 148 facoltà, ovvero essi l’abbiano consumata. A questi si aggiungono coloro che si dilettano di gioje, e si reputano Dei, quando avviene che ne abbiano qualcuna di gran prezzo, e molto stimata a sua età. Non la comprano legata in oro, anzi la vogliono nuda, e con sicurtà che sia buona, tanto temono di essere ingannati. Nondimeno all’occhio umano tanto diletta una gioja fina quanto una finta, non discernendo una dall’altra. Dovrebbe tanto valere la gioja fina come la finta appresso di te, che non sei in questo giudizio differente da un cieco. Che diremo noi di coloro che conservano soverchie ricchezze solamente per mirarle a lor solazzo? Godono essi la vera felicità, oppure si trovano ingannati da falsi diletti? Ma quei che nascondono il tesoro, il quale forse non più vedranno, stando in pensiero di non perderlo, lo perdono. Mettendolo sotterra, ove nè a te nè agli altri può servire, nondimeno tu ti rallegri poichè hai nascosto il tesoro: e stai con l’animo sicuro. Se alcuno però te lo rubasse dieci anni prima che tu morissi, ove tu ignori un tal furto, che nuocerebbe esso per tutto questo spazio alla tua felicità? Fra gli amatori di vane allegrezze annoverano gli Utopiensi i giuocatori di dadi o di carte, i quai giuochi solamente per nome conoscono, e parimenti i cacciatori e gli uccellatori, e dicono: Che sollazzo è gettare i dadi, poichè gettandoli spesso l’uomo dovrebbe saziarsi? non è piuttosto un fastidio udir abbajare i cani? che maggior diletto è veder un cane seguire la lepre, che un cane l’altro cane? perchè veramente si vede la velocità del correre a questo ed a quel modo. Se ti diletta veder stra- 149 ziare ed uccidere quell’animaletto, dovresti piuttosto moverti a pietà mirando la lepre impotente, fuggitiva, timida ed innocente esser stracciata dal cane gagliardo, feroce e crudele. Così gli Utopiensi hanno rifiutato al tutto quest’esercizio del cacciare, come arte conveniente ai beccaj, la quale hanno commessa ai servi. Anzi giudicano che il cacciare sia di quella la più infima parte, stimando le altre piu utili ed oneste, quando si ammazzano gli animali per la necessità del vivere umano, laddove il cacciatore solamente si piglia piacere della morte del misero animale. Il qual desiderio pensano essi che nasca da un animo alla crudeltà disposto. Queste ed altre cose innumerabili, delle quali gli uomini altrove pigliano diletto, sono appo gli Utopiensi sprezzate, come di niuna soavità. E benchè piacciano al volgo, il quale pervertendo la natura, reputa dolci le cose amare: siccome le femmine gravide, le quali tengono la pece ed il sevo per più dolce che il miele, perchè hanno corrotto il gusto; il quale però non può mutare la natura di niuna cosa, e specialmente della voluttà. Fanno diverse specie di voluttà; alcune assegnano al corpo, alcune all’anima. All’anima danno l’intelletto e quella dolcezza che nasce dal contemplare la verità. Vi si aggiunge la gioconda memoria di aver vissuto bene. La voluttà del corpo dividono in due forme, e la prima, secondo essi, è quella che diletta il sentimento e ristora le parti che sono in noi da calor naturale consumate, il che si fa col cibo e col bere. Perchè evacuandosi il corpo nel mandar fuori le cose soverchie scaricando il ventre, o generando, o levando il 150 prurito in qualche parte è di mestiero che sia riempiuto. Evvi un’altra voluttà, che non dona ai sentimenti nostri cosa alcuna da loro bramata, nè di alcuna li priva, ma solamente con occulta forza porge loro diletto: come è la musica. Mettono un’altra forma di corporal voluttà, la quale consiste nel quieto e tranquillo stato del corpo: e nomasi da tutti sanità. Questa, non essendo da qualche dolore afflitta per se stessa, diletta senz’altro sollazzo esteriore. E quantunque essa non si mostri così manifestamente ai sentimenti, come la voluttà del mangiare e del bere, tuttavia tutti l’hanno per grandissima voluttà, e gli Utopiensi la tengono per fondamento di ogni sollazzo, senza il quale ogni voluttà è nulla. Perchè mancare di dolore senza sanità, è piuttosto uno stupore che un sollazzo. Quella opinione che dice la sanità non essere voluttà, perchè non si sente, se non con qualche esterno movimento, è da loro al tutto rifiutata. Anzi tutti concordevolmente affermano la sanità essere una speciale e primaria dilettazione. E dicono: se nella infermità è il dolore, mortal nemico della voluttà, perchè non sarà nella quiete della sanità una giocondezza singolare? Non fanno differenza che si dica l’infermità istessa esser dolore, ovvero il dolore essere l’infermità, perchè ne riesce la medesima sentenza. Ma se la sanità è la voluttà istessa, ovvero necessariamente partorisce voluttà, come il fuoco produce caldo; veramente ad ogni modo segue, che la ferma sanità riesca una vita gioconda. Oltre di questo dicono, quando mangiano ristorarsi col cibo la sanità, la quale per la fame cominciava ad indebolirsi; e 151 quando è tornata al solito vigore, sentiamo la giocondità del mangiare, tanto maggiormente, quanto la sanità è più robusta. Così appare esser falso quello che taluni asseriscono, che la sanità non si sente. Il che non può avvenire in uomo che non sia stupido, e per conseguente non sano. Abbracciano adunque primieramente quelle voluttà dell’animo (che sono appo loro le principali) le quali sanno che nascono da virtù e dalla buona coscienza. Ma pongon la sanità innanzi ad ogni altro corporeo diletto. Nè vogliono che si brami il mangiare ed il bere o altra voluttà, se non per conservare la sanità. Perchè non sono tali cose da loro istesse gioconde, ma in quanto mantengono la sanità. Però debbe il savio piuttosto cercare di non essere occupato dall’infermità, che bramare la medicina; di tener lungi i dolori, che d’aver bisogno di voluttà, le quali si conviene temperare. Se alcuno per esse si tiene beato, egli è astretto di confessare che allora sarà felicissimo, quando da fame, sete, pizzicore sarà travagliato, le quali cose veggiamo manifestamente esser sozze e misere. Queste adunque sono le meno sincere voluttà, le quali ci avvengono solamente per medicare ai contrarj dolori; perchè col diletto di mangiare si accompagna la fame, e con legge non uguale. Perchè il dolore tanto è più lungo, quanto è maggiore; e nascendo innanzi al piacere, non si estingue se non insieme col piacere. Stimano essi poco queste voluttà, se non quando la necessità li stringe di usarle. Nondimeno godono queste ancora, e ne ringraziano la natura madre, la quale adesca con soavità i suoi figliuoli a quello che era ne- 152 cessità che si facesse. Con quanto fastidio vivremmo, se avessimo a cacciar la fame e la sete con pozioni e veleni, siccome cacciamo le altre infermità? Ma abbracciano lietamente la bellezza, le forze e la destrezza, come doni giocondi e propri della natura. Gli altri solazzi che per le orecchie, per gli occhi e per le nari passano all’anima, i quali sono proprj dell’uomo (perchè niuno animale considera la bellezza del mondo, nè sente gli odori, se non quanto fa mestiero per discernere il cibo, nè si diletta della varietà de’ suoni) questi dico volentieri accettano. In tutti però tengono tale misura che il maggior sollazzo non sia dal minore impedito. Ma sprezzare la bellezza, diminuire le forze, mutare la destrezza in pigrizia, estenuare con digiuni il corpo, fare ingiuria alla sanità, e rifiutare gli altri sollazzi dalla natura a noi concessi, se non fosse per giovare alla repubblica, reputano una sciocchezza, e che questo nasca da un animo crudele e ingrato alla natura, i cui beneficj rifiuta, come sdegnandosi di essergliene debitore, e specialmente facendosi questo per una vana ombra di virtù, ovvero per sopportare con minor dispiacere le avversità, le quali forse non mai verranno. Questo è il loro parere circa la virtù e la voluttà, e se Dio non ne inspira ad essi un migliore, credono che non se ne trovi altro più saggio. Non mi occuperò a disputare della verità della loro opinione, perchè non lo concede il tempo; ed io mi sono posto a narrare gl’istituti degli Utopiensi non a difenderli. E siano questi decreti quali si vogliano, io tengo di certo che non si trovi più degno popolo, nè repubblica più felice. Sono di 153 corpo agile e vigoroso, e di maggior forze che non promette la loro statura, la quale però non è picciola. E quantunque il loro terreno sia mal fertile, e l’aria poco sana, tuttavia con temperato vivere si mantengono contra l’aria, e con l’industria vincono la terra di maniera, che in niun luogo vengono più copiosi ricolti, nè animali meglio nodriti, ed i corpi umani più vivaci e meno alle infermità soggetti. Perciò non vedrai solamente fare da loro quelle opere, che fanno i lavoratori altrove per vincere la malignità del terreno. Anzi ivi si vede una selva cavata dalle radici ed un’altra piantata altrove; nel che non si è considerata la fertilità del terreno, ma il comodo di condurre i frutti, le legne o altre cose al mare o al fiume, ovvero alle città. Sono gli Utopiesi gente benigna e piacevole, che ama il riposo: e quando fa mestieri, paziente della fatica, specialmente negli studj che ornano l’animo. Essi avendo da me inteso delle lettere e dottrina de’ Greci, perchè delle cose latine altro non commendano, che le storie ed i poeti, si mostrarono molto bramosi ch’io di quelle lettere gli ammaestrassi. Così io cominciai a legger loro, piuttosto, acciò non credessero ch’io schivassi la fatica, che io ne sperassi frutto alcuno. Ma avendo letto alquanti giorni, la loro diligenza mi diede ardire che non sarebbe vana la mia sollecitudine. Perchè cominciarono a scrivere le lettere, pronunciare le parole, e mandarle con tanta prestezza a memoria, che mi parve cosa miracolosa: e molti per ordine del senato furono destinati a questo studio, cioè quelli del numero de’ studenti, che erano di più acuto ingegno e di matura 154 età. Così in tre anni leggevano speditamente ogni autore greco, purchè non fosse corrotto il libro. Ed essi, per mio avviso, tante agevolmente impararono quelle lettere, perch’io credo che derivassero dai Greci; quandochè nella loro favella, che è persiana, sono molte parole greche, specialmente nel nominare le città ed i magistrati. Io la quarta fiata che navigai alla volta loro, mi posi nella nave buon numero di libri in luogo di mercanzie; avendo meco disposto di non tornar mai, piuttosto che tornar presto. Così lasciai a quelli molte opere di Platone e di Aristotile, e Teofrasto delle piante, ma troncato in più luoghi. Perchè essendo tenuto con poca cura nella nave, una scimia ne cavò fuori alquante carte, e stracciatele giuocando, le avea sparse qua e là. Hanno in gramatica Costantino Lascari; non avea portato meco Teodoro Gaza, nè altro dizionario che Esichio e Dioscoride. Tengono carissimi i libretti di Plutarco, e si dilettano delle piacevolezze di Luciano. Dei poeti hanno Aristofane, Omero, Euripide e Sofocle in forma piccola di Aldo. Degli storici, Tucidide, Erodoto ed Erodiano. In medicina Tricio Arpino mio compagno avea portato alcune opere di Ippocrate, e il Microtecne di Galeno, i quai libri tengono in gran pregio. E quantunque meno sono bisognosi della medicina che qualunque altra nazione, tuttavia è presso di loro onorata più che in altro paese, perchè l’annoverano tra le parti principali ed utilissime della filosofia; ed investigando le cose di natura con l’ajuto di questa, si danno a credere non solamente di prendere gran diletto, ma eziandio di aggradirsi sommamente 155 all’autore e artefice di quella. Pensando ch’egli (come fanno gli altri artefici) abbia posto innanzi agli occhi dell’uomo, il qual solo ha fatto di tal cognizione capace, questa macchina, acciocchè la consideri: e che più gli sia caro l’uomo, che considera con ammirazione le degnissime opere sue, che colui, il quale, come animale senza intelletto e stupido, non si cura di contemplare questo mirabile spettacolo. Così gl’ingegni degli Utopiensi nelle lettere esercitati vagliono mirabilmente a trovare le arti utili ai comodi della vita. Ma sono a noi debitori di due, cioè di imprimere libri e fare la carta bambacina; benchè in buona parte da loro stessi ne vennero a perfetta cognizione. Perchè mostrando loro le lettere di Aldo impresse in tale carta, e ragionando dello stampare libri, intesero assai più oltre di quello, che dicevamo, niuno di noi essendo molto esperto nè dell’una nè dell’altra. Essi di subito fecero congettura come si potessero fare cotali arti: e perchè scrivevano per addietro in pelli, in scorza ed in papiro, tentarono subito di fare la carta e stampare. Nè riuscendo bene a principio, fecero tante fiate l’esperienza, che appresero alfine ciò che desideravano; e se non mancassero loro copie, avrebbero già stampato assai libri greci. Ma non hanno altri libri che i sopraddetti, e di questi hanno stampato gran numero. Ognuno che sia di singolare ingegno, ovvero che abbia veduto buona parte del mondo, il quale pervenga a loro per mirarne gl’istituti, è accolto benignamente, perchè odono volentieri ciò che si fa negli altri paesi. Pochi mercanti vi vanno. Che altro vi possono 156 portare, che ferro? e che vorrebbero portar via altro che oro? Ma essi vogliono in persona condurre altrove le cose loro, per aver cognizione degli altri paesi, e non si scordare la perizia del navigare. 157 DEI SERVI. Non tengono per servi quelli che sono presi in guerra, ancorchè fosse fatta da loro, nè i figliuoli dei servi, nè alcuno che serva appo altre nazioni, i quali possono comperare; ma quelli che per qualche mancamento sono da loro dannati alla servitù, ovvero altri di esterne nazioni, che sono lor dati a tale supplicio, per qualche delitto; il che avviene sovente, e molti ne hanno per vilissimo prezzo. Tengono questi servi in continua fatica, ed in catene, ma trattano i loro proprj più duramente, giudicando che siano incorreggibili e degni di più grave supplicio, poichè essendo tanto egregiamente nodriti alla virtù; non si hanno potuto raffrenare dal vizio. Evvi un’altra sorte di servi, quando alcuno di altra nazione avvezzo alla fatica, povero e di bassa condizione elegge di servir loro. Questi (eccetto che danno ad essi alquanto più fatica) trattano benignamente, e li tengono poco meno che per loro cittadini. Se alcuno vuole partirsi (il che di rado avviene) non lo tengono contra sua voglia, nè lo mandano via senza doni. Gl’infermi, come dicemmo, trattano con gran carità, non tralasciando cosa alcuna circa le medicine ed il governo del vivere, che vaglia a rendere a quelli la sanità. Se alcuno è incurabile, tenendogli compagnia, parlando con lui, e servendolo allegeriscono la sua calamità. Che se l’infermità sua è di 158 perpetuo dolore, i sacerdoti ed il magistrato lo confortano, che essendo già inetto agli ufficj della vita, molesto agli altri e grave a se stesso, non voglia sopravvivere alla propria morte, e nodrire seco la pestifera infermità: e che essendogli la vita un tormento, non dubiti di morire: anzi che, avendo buona speranza, liberi se stesso da sì acerbo carcere, o si lasci dagli altri liberare(17); e che farà opera da prudente, quando che le calamità saranno da lui lasciate morendo, non i comodi: oltre che seguendo il consiglio dei sacerdoti interpreti degli Dei, farà opera santa e pia. Coloro che sono a questo persuasi, ovvero con astinenza finiscono la vita, ovvero dormendo sono uccisi. Ma non ne fanno morire alcuno contra sua voglia, nè mancano di servirlo nell’infermità parendo loro che questa sia onorata cosa. Ma se alcuno si uccide senza il consentimento dei sacerdoti e del magistrato, egli senza esser sepolto viene gettato in una palude. Le femmine non si maritano innanzi degli anni dodici, ed i maschi dei sedici. Se il maschio o la femmina sono trovati a lussuriare innanzi al matrimonio, vengono puniti gravemente, e privati in perpetuo del matrimonio medesimo, ove il principe non si muova a pietà di perdonar loro tal fallo. Il padre e la madre di famiglia, sotto il governo dei quali avviene tal mancamento, sono infamati, come poco attenti al dover loro. E il motivo di tanta severa punizione è il prevedere che pochi si mariterebbero volentieri, per non vivere tutti gli anni con una sola, e non tollerar le molestie del matrimonio, quando fossero avvezzi a liberi piaceri. Nell’eleggere le mogli tengono 159 un modo a mio parere ridicoloso, ma riputato da loro prudentissimo. Una onesta matrona mostra la vergine, o vedova che sia, nuda allo sposo; e parimente un uomo di gravità mostra il giovane nudo alla giovinetta. E biasimando io questo costume come inetto, essi all’incontro risposero che si meravigliavano assai della pazzia delle altre genti, le quali nel comperare un cavallo, ove si tratta di pochi danari, vanno tanto cautamente che lo vogliono vedere senza sella, acciocchè sotto quella non avesse qualche piaga, e in elegger la moglie, la quale può dare o sollievo o dispiacere mentre che dura la vita, sono tanto negligenti, che si contentano di veder la donna quasi tutta coperta, anzi di non vederne che il volto: e tuttavia potrebbe essa nascondere qualche diffetto, pel quale non mai si vorrebbe averla presa. Nè tutti sono di tanta sapienza, che mirino solamente ai costumi; anzi nei matrimonj dei savi uomini, le doti del corpo fanno più grati i doni dell’animo. E veramente tale bruttura potrebbe nascondersi sotto gli abiti, che la moglie sempre fosse odiosa al marito; ed a questo si debbe provvedere con leggi, prima che segua l’inganno, quando che essi soli di tutte quelle nazioni sono contenti di una sola moglie, nè si scioglie il matrimonio se non per l’adulterio, o per altra intollerabile molestia. In tali casi il senato concede all’innocente di rimaritarsi, ed il colpevole resta infame e privo in perpetuo del matrimonio. Non vogliono che la moglie non colpevole sia ripudiata contra sua voglia, ancorchè cadesse in qualche calamità del corpo; parendo loro una crudeltà, che si abbandoni la 160 persona, quando ha maggior bisogno di consolazione; perchè la vecchiezza, che porta con se infermità, ed è l’infermità stessa sarebbe dalla compagnia abbandonata. Avviene alle fiate, che i conjugi non si confacendo dei costumi, e trovando amendue con chi sperano di vivere più soavemente, si separano, e rimaritansi, con l’autorità però del senato, il quale non ammette il divorzio, se prima non ne conosca e non ne fa dalle proprie donne investigare le cause. Ed anco si rende difficile a questo, acciocchè non si speri di mutar facilmente il matrimonio. Gli adulteri si puniscono con durissima servitù: e se alcun di essi non era celibe, si concede che, i conjugi offesi, ripudiati gli adulteri, si maritino insieme, ovvero con altri. Ma se quello che è offeso, tanto ama l’offensore che non voglia fare divorzio, non gli è vietato di mantenere il matrimonio, purchè voglia seguire nell’opera il dannato. E sovente è avvenuto, che la sollecita pazienza dell’innocente ha ottenuto la libertà al colpevole. Ma chi adultera dopo questo perdono, è punito nella testa. Alle altre colpe non si assegna determinato supplicio, ma secondo il mancamento segue il supplicio più o men grave come pare al senato. I mariti castigano le mogli, i padri i figliuoli, se non fosse qualche enorme mancamento, che si dovesse punire pubblicamente. Ma quasi tutte le gravi colpe sono punite con servitù, il che non meno spiace agli scellerati, ed è più comodo alla repubblica che ucciderli, perchè giovano più con la fatica che con la morte, e con l’esempio continuo ammoniscono gli altri a guardarsi da simili colpe. Se in tale stato sono perversi ed 161 inobbedienti, allora come bestie indomite gli uccidono. I pazienti non sono fuori di speranza, che tollerando i travagli e le fatiche, e mostrando che più loro spiaccia il peccato, che la penitenza non siano francati o venga loro mitigata la servitù per autorità del principe o suffragi del popolo. Non meno puniscono chi ha provocato alcuna persona a lussuria, che se avesse commesso l’errore; parendo loro che la volontà determinata a peccare, ancorchè non possa venire ad effetto, sia degna dello stesso supplicio. Si pigliano piacere de’ buffoni, ma non è lecito far loro ingiuria. Nè gli danno in governo a chi non si diletta delle loro facezie, temendo che non siano ben trattati. Non si concede il farsi beffa d’alcuno, che sia tronco o sciancato, parendo sconvenevole schernire quel vizio, che è venuto nell’uomo senza sua colpa. Siccome tengono per da poco chi non ha cura di conservarsi la bellezza naturale, così biasimano quelli che con belletti studiano di aumentarla; avendo per certo che la bontà dei costumi assai più vale a render grata la moglie al marito, che alcuna bellezza corporale. Non solamente si rimangono dalle sceleragini per tema dei supplicj, ma sono invitati alle virtù con egregi onori. Rizzano nella piazza statue agli uomini, che per la repubblica hanno fatto qualche degna impresa, acciocchè si conservi la memoria delle opere illustri, ed i loro discendenti siano alla virtù incitati. Chi cerca di avere alcun magistrato ne viene privato al tutto. Vivono assieme amichevolmente, perchè i magistrati non sono terribili; si chiamano padri, e si portano da padri; ed i popoli gli onorano spontanea- 162 mente. Il principe non è dagli altri conosciuto per diadema o corona, ma per un manipolo di frumento, che gli viene portato innanzi, ed il pontefice per un torchio. Hanno poche leggi, e biasimano gli altri popoli, che empiono di leggi e d’interpreti smisurati volumi. Parendo loro che sia iniquità obbligare a tante leggi l’uomo, che non si possono leggere, e tanto oscure, che non siano intese. Non ammettono avvocati, anzi vogliono che ognuno in giudizio dica la sua ragione, perchè in tal guisa si disputa meno, e meglio si cava la verità senza ornamento di parole. Il giudice sollecitamente spedisce ogni causa, e favorisce agli ingegni semplici contro i malvagi ed accorti: il che a fatica si può osservare appo le altre nazioni tra tante dubbiose leggi. Appo loro ciascuno è giureconsulto, perchè hanno pochissime leggi, e commendano sommamente la più semplice interpretazione, che loro si dia. Perchè la sottile interpretazione non può esser da tutti intesa; il che è contra la intenzione delle leggi, le quali si danno, acciocchè siano a tutti manifeste. I popoli vicini, che sono liberi, ma dei quali molti hanno sofferto la tirannia, mossi da queste virtù, dimandano dagli Utopiensi i magistrati per un anno, ed anco per cinque; e quando hanno fornito il loro ufficio, li rimandano onorevolmente, e ne conducono degli altri. Ed in vero questi popoli ottimamente provveggono alla loro repubblica, la cui salute o rovina dipende dai costumi dei magistrati, nè potevano fare miglior elezione. Quandochè sono gli Utopiensi di una tale costanza, che non si piegano a prezzo alcuno, ed avendo da ritornare alla pa- 163 tria, non hanno occasione di far ingiustizia, massimamente che non conoscendo quei cittadini, non possono da alcuno agevolmente esser persuasi di contravvenire al giusto. Questi due mali, amore ed avarizia quando hanno potere nei giudizj, pervertono ogni giustizia, ed indeboliscono ogni nervo della repubblica. Gli Utopiani chiamano compagni quei popoli, ai quali danno magistrati, ed amici quelli a chi hanno fatto beneficj. Essi non fanno con altre genti confederazioni, le quali tanto sovente appo altri popoli sono fatte e rinovate. Perchè si hanno da fare, dicono essi, confederazioni alcune, bastando ad amicarsi l’uomo la comune natura, la quale non giovando, che potranno più valere le parole? Sono in questo parere, perchè le convenzioni e patti tra principi in quei paesi, poco fedelmente si osservano. Ma in Europa e specialmente dove regna la fede di Cristo, si conservano inviolabilmente le confederazioni, parte per giustizia e bontà dei principi, parte per riverenza e timore dei sommi pontefici; i quali, siccome non commettono cosa alcuna, che contravvenga alla religione, così comandano che gli altri principi mantengano le loro promesse, e con scomuniche severissime sforzano i contumaci a serbare la loro fede. E meritamente in vero tengono per biasimo vituperevole, che non si osservi fede nelle confederazioni da coloro, che specialmente si nominano fedeli(18). Ma in quel nuovo mondo tanto dal nostro distante, quanto sono ancora i costumi dissimili, non si fidano di confederazioni, quando che non si possono fare con tante cerimonie e sagramenti, che non si 164 trovi nelle parole qualche calunnia postavi a studio, e non vi si occulti un uncino da eluderle. Ed è singolar cosa che se trovano simili accortezze o inganni nei contratti degli uomini privati, li dannano come sagrileghi e degni di morte quegli stessi consiglieri de’ principi, i quali si gloriano d’essere stati autori delle fraudolente confederazioni, acciocchè si potessero rompere. Indi avviene, che non vi sia altra giustizia, se non l’umile e plebea, e molto inferiore dalla regale maestà. Come se vi fossero due giustizie, una del volgo umile e bassa, la quale avvinta con molti nodi, non ardisca levarsi, l’altra dei principi alta e magnifica, alla quale tanto sia lecito quanto loro piace. Io credo che gli Utopiensi non facciano alcuna confederazione perchè i principi di quel paese tanto sono a contravvenire ad ogni loro promessa disposti: tuttavia, se vivessero in queste parti, muterebbero proposito. Benchè essi giudicano, ancorchè fossero osservate le confederazioni ottimamente, che non sia bene il farle; perchè si potrebbero tenere per nemici quei popoli, che sono divisi con un rivo o con un colle, non avendo tra loro tai segni di parti, ed indi guerreggiare insieme. Anzi fatte le confederazioni, non si stringe però l’amicizia, e resta la licenza di saccheggiare, non avendosi per imprudenza potuto porre nella confederazione ogni cautela sufficiente a ribattere l’ingiuria. Ma essi all’incontro giudicano che non si tenga alcuno per nemico, dal quale non si abbia ricevuto ingiuria. E che basti la compagnia naturale in luogo di confederazione: per- 165 chè gli uomini più volentieri e con maggior fermezza si uniscono cogli animi, che per confederazioni o parole. 166 DELLA GUERRA. Gli Utopiensi hanno sommamente in abominazione la guerra, come cosa d’animali, di cui però niuno così lungamente guerreggia, come l’uomo: nè tengono altra cosa più biasimevole, che la gloria acquistata coll’armi. E quantunque si esercitino nella milizia non solamente i maschi ma le femmine ancora a certi giorni, per non essere al combattere inetti, quando fosse il bisogno; tuttavolta non si mettono a guerreggiare inconsideratamente, ma solo per difendere i loro confini, o per liberare dalla tirannia e servitù qualche misero popolo. Benchè talvolta porgono ajuto agli amici, non solamente perchè si difendano, ma eziandio perchè ricompensino le avute ingiurie. Questo però fanno, essendone dimandato loro consiglio, prima che si venga alle armi, ed ove sia provata la causa per giusta; cioè quando gl’inimici di quelli, facendo correrie, abbiano cqndotto via il bottino, e ridomandato, non l’abbiano voluto rendere. Ma guerra più atroce intraprendono, quando i loro mercanti sono maltrattati o calunniati ingiustamente appo le altre nazioni. Tale fu quella che fecero, poco avanti la nostra memoria, pei Nefelogiti(19) contra gli Alaopoliti(20), i quali avendo maltrattato i mercanti dei Nefelogiti sotto colore di osservare le loro leggi, furono con la guerra, sanguinosa però d’ambe le parti, di maniera afflitti, che molti- 167 plicando le calamità, caddero in servitù de’ Nefelogiti medesimi; perchè gli Utopiensi combatterono per questi, e non per proprio interesse. Così gli Utopiensi prendono atroce vendetta delle ingiurie fatte agli amici anco nei danari, ma non tanto fieramente vendicano le proprie: perchè se gli uomini loro per qualche inganno perdono i beni, purchè non sia lor fatto violenza nei corpi, si contentano che si soddisfaccia al danno e più non tengono commercio con quella gente che gli offese. Non che meno curino i loro cittadini che i loro confederati, ma perchè i mercanti di questi, essendo ingannati, perdono del proprio avere, laonde sentono maggior danno; e i cittadini Utopiensi altro non possono perdere che dei beni della repubblica, i quali si mandano ad altri paesi, quando avanzano loro, ed indi quasi niuno ne prova disagio. Perciò reputano che sia una crudeltà voler punire con morte di molti quel danno, dal quale niuno sente incomodo nel vivere o nella vita. Ma se alcuno dei loro cittadini viene ferito o morto ingiuriosamente, sia per consiglio pubblico o privato, mandano ambasciatori a dimandare i colpevoli, e, non essendo loro dati, movono guerra contra quel popolo a cui appartengono. I colpevoli, che sono lor consegnati, ovvero uccidono, o tengono per servi. Si vergognano e pentono della vittoria sanguinosa, parendo loro di aver comperato troppo caro le mercanzie, ancorchè fossero di gran prezzo. Si gloriano di aver vinto i nemici con arte o con inganno; di questo trionfano pomposamente e ne rizzano un trofeo: ed allora si vantano arditamente quando hanno vinto con 168 quell’industria, con la quale l’uomo solamente può vincere, cioè con le forze dell’ingegno, il che reputano un’egregia virtù. Dicono essi: i leoni, gli orsi, i lupi, i cinghiali, i cani e le altre bestie combattono con le forze del corpo; ma siccome assai di quelle ci vincono per valore e ferocità corporale, così noi le superiamo tutte con l’ingegno e con la ragione. Nel loro guerreggiare mirano di ottenere quella cosa, per cagion della quale hanno mosso guerra; e se alcuno ad essi resiste, ne fanno così atroce vendetta, che gli altri per l’avvenire non ardiscono contrapporsi. Propostosi uno scopo, in breve ne vengono all’effetto, avendo però l’occhio principalmente piuttosto a schivare il pericolo, che a farsi gloriosi. Perciò, intimata la guerra, fanno porre segretamente molti scritti col bollo pubblico nei luoghi più frequenti dei nemici, dando a sperare gran premio a chi ammazza il principe, e minore in proporzione per la testa degli altri, che proscrivono, cioè i consiglieri, i quali dopo il principe sono autori delle ostilità. Ma danno doppia ricompensa a chi li presenta vivi, ed anco invitano con larghe promesse gli stessi proscritti ad andare contra i loro popoli, e perdonano a quelli ogni passato fallo. Così gl’inimici in breve tempo hanno sospetto di tutti gli uomini, nè si fidano tra loro medesimi, laonde si trovano in gran pericolo e timore. Ed è più volte avvenuto, che buona parte di essi, e tra questi il principe, siano stati traditi da coloro, nei quali aveano maggiore speranza. Tanto facilmente vengono spinti ad ogni sceleraggine gli uomini coi doni, i quali sono dati dagli Utopiensi in questi casi 169 senza misura alcuna, perchè considerando a quanto pericolo li confortano, studiano di ricompensarneli con la copia dei beneficj. Perciò promettono, ed attendono poi con effetto, non solamente gran somma d’oro, ma eziandio grandi rendite in luoghi sicuri appo gli amici. Questa foggia di apprezzare e mercare il nemico, biasimato appo le altre nazioni, e riputato di animo vile e crudele, appo loro è tenuta per gloriosa impresa. Poichè si credono in questo prudenti, che forniscono guerre grandissime senza venire a conflitto, e pietosi, perchè con la morte di pochi salvano la vita di molti, che morirebbero nei fatti d’arme, parte dei cittadini, parte dei nemici, dei quali hanno quasi tanta pietà come dei loro proprj, sapendo che non vengono alla guerra spontaneamente, ma spinti dal furore dei loro principi. Se loro ciò non riesce, seminano e nodriscono discordie tra nemici, dando speranza di ottenere il regno al fratello del principe, o a qualcuno che vi possa aspirare. Quando non valgono queste sedizioni, eccitano i popoli vicini a guerreggiare contra i nemici con mostrare loro qualche ragione, che abbiano nel paese di quelli, e promettendo di favorirli danno ad essi danari copiosamente. Ma di rado vi mandano i loto cittadini, i quali tengono tanto cari, che non ne cangierebbero uno col principe della parte nemica. Danno l’oro e l’argento più facilmente; perchè lo conservano a questo effetto, nè vivrebbero meno comodamente ancorchè lo dispensassero tutto. Ed anco, oltre le ricchezze che tengono in casa, hanno infinito tesoro, che loro debbono molte nazioni. Mandano però alla guerra 170 soldati di alcuna di quelle, e specialmente dei Zapoleti( 21). Questo popolo è lontano dall’Utopia cinquanta miglia, verso oriente, orrido, rusticano e feroce, il quale abita le selve, dove ancora è nodrito. Gente dura, atta a patire il freddo, il caldo e la fatica, senza alcuna delicatezza, non si dà all’agricoltura, nè studia come si vesta o fabbrichi; solamente governa gli animali, e vive di cacciagione e di rapina. Nata al combattere, brama la guerra studiosamente, offerendosi per vil prezzo a chi la ricerca. Non ha per sostentamento della vita che questa sola arte, con la quale si cerca la morte; ma serve fedelissimamente e virilmente a chi l’assolda, obbligandosi sino ad un certo giorno, con patto che passato quello possa andare al soldo del nemico: tuttavia ritorna per poco maggior prezzo. Si fanno poche guerre che non vi sia di questo popolo d’amendue le parti. Così avviene che i parenti e gli amici, soldati da questa e da quella parte, concorrano insieme a mortale uccisione, scordandosi dell’amicizia e del parentado, solamente mossi dal ricevuto stipendio, al quale sì avidamente mirano, che potendo aver un danaro di più al giorno, passano alla parte nemica. Tanto sono immersi nell’avarizia! la quale però non giova punto ad essi, perchè consumano a vivere lussuriosamente in breve tempo quanto hanno acquistato col sangue. Questo popolo serve nella guerra agli Utopiensi contra chiunque essi vogliano, perchè gli danno maggior stipendio, che altri possano dargli. Siccome gli Utopiensi cercano gli uomini dabbene per accomodarsene; così pigliano gli uomini malvagi, per servirsene 171 alla guerra, e quando fa mestieri, con gran promesse gli spingono a grandi pericoli; laonde spesse volte una gran parte di loro non torna a dimandarne l’eseguimento. Gli Utopiensi però le attendono fedelmente a quelli, che rimangono vivi, per accenderli a simili imprese. Nè si pigliano cura se ne muojono gran numero, parendo loro di giovare alla natura umana, ove potessero purgare il mondo della feccia d’un popolo tanto scelerato e malvagio. Dopo questa mandano le squadre di quei popoli, pei quali combattono, e dietro ad essi la gente degli amici, che porge loro ajuto. Finalmente vi aggiungono i loro cittadini, dei quali uno, che sia per virtù illustre, fanno di tutto l’esercito capitano. A costui sostituiscono due, i quali, vivendo egli prosperamente, siano uomini privati; ma morto lui, o rimanendo prigione, uno di loro gli succede come per eredità. Così secondo il caso aggiungono un terzo, acciocchè pericolando il capitano (come avviene nella guerra) non si turbi tutto l’esercito. Di ogni città si ammaestrano i soldati, che spontaneamente vogliono militare; perchè niuno è mandato fuori alla guerra mal suo grado; avendo per cosa certa, che l’uomo timido, oltre che non si porterà virilmente, darà timore agli altri. Movendosi però guerra contro la patria, mettono nelle navi quelli, che sono timidi, purchè siano di corpo gagliardi; e li mescolano con uomini arditi e valorosi, ovvero li collocano sulla muraglia in guisa, che non possano fuggire. Così la vergogna dei suoi, l’aver l’inimico a fronte, ed il non poter fuggire, fa che vincono il timore: e l’estrema necessità spesse volte si muta in virtù. E sic- 172 come niuno è tratto a guerra estrema contra sua voglia, così confortano e con lodi incitano le mogli a seguire i mariti, e nel conflitto le pongono vicino ad essi, e d’intorno i figliuoli ed altri loro prossimi, i quali sono mossi dalla natura a porgersi ajuto inseme. Il marito che torna senza la moglie è biasimato; così il figliuolo perduto il padre: indi avviene che se il nemico non fugge, si combatte fino allo sterminio. Perchè, siccome schivano quanto possono di venire a fatto d’arme, e conducono a quest’effetto soldati forastieri; così quando sono astretti di combattere vi corrono tanto arditamente, quanto prima studiosamente lo hanno schivato. Non s’infuriano da principio, ma a poco a poco pigliano vigore, con animo fermo di morire piuttosto, che dare le spalle. Quella sicurezza delle cose al vivere necessarie, senza l’affanno dei loro discendenti (il che in ogni luogo indebolisce gli spiriti generosi) fa gli Utopiensi di animo altiero, e che si sdegna di esser vinto. Si fidano ancora nella perizia che hanno nella guerra; ed anco le dritte opinioni e i buoni istituti della repubblica che hanno imparati dalla fanciullezza, aumentano in essi la virtù; con la quale non tanto sprezzano la vita, che la gettino, nè tanto l’hanno cara, che, richiedendo onesta causa di esporla alla morte, se la vogliano avaramente e con biasimo conservare. Quando più fiera in ogni parte arde la pugna, alquanti giovani congiurati mirano ad uccidere il principe nemico, ora a faccia aperta, ora con inganno, di lontano e d’appresso, con lunga e continuata squadra, sostituendosi ognora i più freschi agli stanchi. E di rado 173 avviene, se non fugge, che non rimanga morto o prigione. Se sono vittoriosi, non attendono ad uccidere inimici che fuggono, ma piuttosto li pigliano, Nè mai tanto li perseguitano che non tengano sempre una squadra in ordinanza, e piuttosto li lasciano fuggire che guastare i proprj loro ordini, avendo a memoria che molte fiate, essendo rotto il campo avverso, i vittoriosi spargendosi qua e là, e lasciando pochi per retroguardia, hanno dato occasione al nemico di farsi di vinto vittorioso. Non saprei narrare se siano più astuti a disporre le insidie o più accorti a schivarle. Alle volte penserai che fuggano, quando sono più ostinati di non fuggire, nè si può a segno alcuno indovinare quando da dovero si dispongono di farlo. Perchè sentendosi in disvantaggio nel numero, o per sito del luogo, si levano di notte tacitamente o fingono qualche astuzia, ovvero di giorno si partono, ma con tal ordine, che non è minore pericolo assalirli quando se ne vanno, che quando stanno fermi. Fortificano i loro alloggiamenti con larga e profonda fossa, nè si servono in questo dei vili servi; anzi i soldati di lor mano la cavano, gettando la terra dentro, eccetto quelli, che per ogni subito caso stanno armati alla guardia. Così, adoperandovisi tanto numero, fortificano gran campo in pochissimo tempo. Usano arme a pigliare i colpi ferme, e non inette da portare e muovere, in tanto che non gl’impacciano nuotando. Perchè tra gli ammaestramenti della milizia si avvezzano a nuotare armati. Per arme di lontano usano le saette; e sono a lanciar quelle ove disegnano gagliardi ed esperti, non solamente i pedoni, ma 174 eziandio i cavalieri. Da presso non usano spade, ma accette, che tagliano e pungono acutissimamente, e col peso ancora sono mortali. Fanno certe macchine, le quali tengono nascoste finchè fa mestiero di usarle, onde non siano piuttosto di ludibrio che di vantaggio; e mirano a farle tali che agevolmente si possano condurre e girare, come porta il bisogno. Osservano le tregue tanto santamente, che essendo ancora ingiuriati non le violano. Non saccheggiano il paese nemico, nè ardono le biade; anzi a loro potere non le lasciano calpestare dai pedoni, nè da cavalieri, facendo presupposto che crescano per loro. Non uccidono alcuno disarmato, se non è qualche spia. Difendono le città che loro si rendono, e non devastano quelle che pigliano a forza, ma uccidono solamente coloro, che non lasciavano che si arrendessero, e gli altri, che le difendeano, fanno servi. Ma non offendono la turba inetta a guerreggiare. Danno parte dei beni dei dannati a coloro, che persuadevano che la città si rendesse; ed il rimanente, che si vende, donano ai compagni venuti loro in ajuto. Niuno di loro piglia cosa alcuna del bottino. Finita la guerra, non prendono dagli amici quello, che vi hanno speso, ma da quelli che sono vinti: per questa causa parte riscuotono danari, parte si appropriano alcuni terreni, dei quali i popoli vinti pagano loro ogni anno certe rendite, che fra tutte ben montano a più di settecentomila ducati. Mandano in que’ luoghi alcuni lor cittadini per camerlinghi, acciocchè vivano magnificamente e vi stiano come nobili: tuttavia ne riportano buone somme nell’erario, ovvero le prestano 175 a’ popoli vinti, nè le riscuotono, se non quando lo ricerca il bisogno: e di raro tutte intere. Di tali campi assegnano parte a quelli, che fanno per loro qualche pericolosa impresa, com’è sopra detto. Se alcun principe apparecchia di assalire con armi il loro paese, con grande esercito gli vanno subito contra fuori dei loro confini; per non guerreggiare nel proprio paese: nè mai vengono a tanta necessità, che accettino nell’isola ajuto alcuno dagli amici. 176 DELLE RELIGIONI DEGLI UTOPIENSI. Sono varie le religioni, non solo per l’isola, ma per le città ancora. Altri onorano il sole, altri la luna, altri alcuna delle stelle erranti. Alcuni venerano per Sommo Dio qualche uomo, che sia stato egregio per virtù. Ma la maggior parte, i più prudenti dico, non adora alcuna di queste cose; ma pensa che vi sia una occulta, eterna, immensa ed inesplicabile divinità, sopra ogni capacità umana, la quale con la virtù non con la grandezza si stenda per questo mondo, e tal Dio chiamano Padre. Da lui riconoscono l’origine, l’aumento, i mutamenti ed il fine di tutte le cose, ed a lui solo danno i divini onori. Gli altri tutti, benchè adorino cose diverse, in questo parere concorrono, che vi sia un sommo Dio, il quale abbia creato il tutto, e con sua prudenza lo conservi, e chiamanlo in loro linguaggio Mythra(22). Ma discordano in ciò, che uno afferma che questo sommo Dio sia una cosa, ed alcuno un’altra. Affermano però che quel sommo, il quale tengono per Dio ha il governo del tutto. Ma tutti a poco a poco si scostano dalla varietà delle superstizioni, e concorrono in quella religione, che con più ragioni ed evidenza si prova. E già sarebbero tutti di una religione; se non che ogni disgrazia che loro accade nel 177 mutare, si pensano che ad essi sia mandata dal cielo per castigo, e che quel Dio, il quale vogliono abbandonare, si vendichi di questa loro empia intenzione. Ma poich’io predicai loro il nome di Cristo, la dottrina di quello, i miracoli e la costanza di tanti santi martiri, che spontaneamente vollero spargere il sangue; e come tante nazioni si sono a lui convertite, mirabilmente vi s’inchinarono, ovvero per divina inspirazione, ovvero che parve loro tal via molto simile alla loro religione. E valse questo assai, perchè avevano compreso che la foggia del lor vivere piaceva a Cristo, e che i veri cristiani avevano monasteri, molto simili ai loro istituti. Sia però avvenuto per qual caso si voglia, molti si convertirono alla fede cristiana, e vollero essere battezzati. Ma poichè di noi quattro, che ivi eravamo, gli altri due essendo morti niuno era sacerdote, quei popoli ancora desiderano avere sagramenti, cui s’appartien di ministrare solamente ai sacerdoti; e disputano sovente se sia lecito, senza commissione del pontefice, eleggere sacerdote uno di loro: e già stavano per eleggerlo, ma non ancora l’avevano fatto, quando io mi partii. Quelli che ancora non hanno appreso la fede cristiana, non biasimano chi la crede. Se non che uno di nuovo battezzato, cominciò ardentemente (quantunque io lo ammoniva che tacesse) a commendare il culto di Cristo, e dannare ogni altra setta, chiamando empj coloro, che adoravano altro che la santissima Trinità, e degni del fuoco eterno. Costui fu preso, non già come violatore della religione, ma come colui, che aveva levato nel popolo tumulto: allegando gli anti- 178 chissimi loro istituti, che ognuno possa tenere qual religione più gli piace. Gli Utopiensi avendo inteso i primi abitatori dell’isola essere stati circa la religione di pareri diversi, e considerando che le varie sette, combattendo tra loro, aveano dato ad essi occasione di vincerli tutti, fecero un editto che ognuno potesse tenere qual religione più gli aggradiva all’animo; e se alcuno bramava di tirare l’altro nella sua, con modestia e ragioni studiare a persuaderlo, ma non usare in questo alcuna violenza o ingiuria: e chi contendeva di ciò importunamente, era punito con esilio o con servitù. Fecero gli Utopiensi tale statuto, non solamente per conservare la pace, la quale con la contenzione, e con l’odio si estingue, ma eziandio pensando che piacesse a Dio il culto vario e diverso, e che perciò ispirasse varj riti a questo ed a quello. Giudicarono quindi che non fosse convenevole voler con forza e minacce costringere alcuno a credere quello, che tu credi per vero. E quantunque una fra le differenti lor religioni fosse vera; tuttavia vollero che i cittadini venissero a quella persuasi con modestia, sperando che la verità, quando che sia, debba rimaner vittoriosa. Laddove, contendendosi con arme, gli uomini ostinati potrebbono con le loro vane superstizioni opprimere la vera religione, come avviene che i frutti vengono affogati dalle spine. Mossi da tali ragioni lasciarono libero ad ognuno di credere quello, che più gli piaceva. Solamente vietarono che niuno affermasse, le anime morire coi corpi, e che il mondo fosse governato a caso, senza previdenza divina, tenendo anzi per fermo che, dopo questa vita, fossero 179 puniti i vizj e premiate le virtù. Chi nega, quindi, tali cose, è tenuto peggio che bestia, volendo rassomigliare l’anima umana alla pecore; nè lo reputano loro cittadino, come colui, il quale (non essendo da timore raffrenato) sprezzerà ogni buon costume ed istituto. Ed è da credere ch’egli contraffaccia di nascosto alle leggi, o studi di annullarle, per servire al suo appetito, non avendole in riverenza, nè sperando o temendo cosa alcuna dopo questa vita. A chi tiene tale opinione non danno onore alcuno, nè magistratura; così è lasciato da parte, come uomo inetto e da poco. Non però viene punito, giudicandosi che non sia in potere di alcuno credere quello, che gli piace; e neppure è forzato con minacce a tener segreto il suo parere, fingendo di credere come gli altri. Gli vietano però il disputare di quella sua opinione, specialmente appo il volgo. Ma confortano gli uomini di gravità, ed i sacerdoti che ne ragionino, sperando che tale pazzia debba essere vinta dalla ragione. Altri in gran numero tengono che le anime ancora delle bestie siano immortali, ma delle nostre men degne e non nate ad eguale felicità. Tanto sono persuasi dell’immensa felicità delle anime nostre, che piangono gl’infermi e non i morti, se non quelli, che veggono mal volentieri lasciare questa vita. E questo hanno per cattivo augurio, come se l’anima senza speranza di bene alcuno, spaventata dalla propria coscienza, temesse il supplicio. E pensano che non piaccia a Dio l’andare di colui, il quale non corre volentieri quando è chiamato, ma sta ritroso. Se veggono alcuno morire in questa guisa, se ne smarriscono, e lo por- 180 tano a seppellire tacitamente, e pregano Dio che perdoni alla sua dapoccagine. Niuno piange quelli, che muojono lietamente, e con buona speranza; anzi seguendone le esequie cantando, raccomandano affettuosamente le loro anime a Dio, e ne ardono i corpi con riverenza piuttosto, che con rammarico. Rizzano una colonna, ove sono scolpite le lodi del defunto, e tornati a casa, ricontano i costumi e la vita di quello, e specialmente commendano la sua morte. Tengono che tale commemorazione di bontà sia ai vivi uno stimolo alla virtù, e gratissimo culto ai defunti, dandosi a credere, che questi invisibilmente si trovino presenti a simili parlari. Perchè non sarebbero felici, quando non potessero andate ove piace loro, e sarebbero ingrati, se non bramassero di rivedere i loro amici, a cui erano uniti con rispondente carità, la quale, essendo uomini dabbene, piuttosto debbe essere accresciuta, che scemata. Credono adunque che i morti pratichino tra’ vivi, mirando quanto si fa e dice. Perciò si mettono arditamente alle imprese, fidandosi di tali ajuti; e portando onore alla presenza dei loro maggiori, si guardano dal commettere cosa disonesta anche segretamente. Sprezzano gli augurj e le altre superstizioni d’indovinare, le quali sono appo le altre nazioni tanto riputate. Onorano quei miracoli, che vengono senza ajuto alcuno di natura, come testimoni della divina presenza; e nelle grandi cose con pubbliche supplicazioni studiano a placare Dio. Pensano che contemplare le cose di natura sia un culto a Dio gratissimo. Molti ancora mossi da religione sprezzano le lettere, non si danno a contempla- 181 re cosa alcuna, ma solamente pensano di acquistare la felicità perpetua con buone operazioni. Così altri servono agl’infermi, altri riconciano le vie, altri purgano le fosse, altri rifanno i ponti, cavano sabbia e pietre, conducono nella città legne e frutta, altri tagliano alberi e li segano: e, come fossero servi, si pongono volentieri ad ogni impresa difficile, strana o sozza, la quale dagli altri per la fatica o pel fastidio è lasciata. Travagliano continuamente, perchè gli altri riposino, non biasimando però alcuno che viva altrimenti. Questi quanto più si portano da servi, tanto vengono dagli altri più onorati. Ma sono di due sorta. Alcuni vivono casti, non mangiano carni di animale alcuno, e lasciano da parte ogni diletto con speranza della vita futura, e non pertanto sono sani e prosperosi. Altri dati parimente alle fatiche, si maritano per eseguir l’opera della natura, e generar figliuoli alla repubblica. Non fuggono quei sollazzi che non li ritirano dalle necessarie occupazioni. Mangiano carni d’animali di quattro piedi, dandosi a credere, che con quel cibo si mantengano più robusti al lavoro. Gli Utopiani tengono questi per più prudenti, e quelli per più santi. Ma quando più apprezzano il celibato che il matrimonio, e la vita austera che la deliziosa, li beffano: nondimeno dicendo che sono mossi a questo da religione, gli onorano; perchè si guardano sommamente di non dannare la religione di alcuno. Essi chiamano questi tali Butreschi, che appo noi significa religiosi. Hanno sacerdoti di vita santissima, ma solamente tredici per ogni città, secondo il numero dei tempj. Quando vanno alla guerra ne condu- 182 cono seco sette, e ne creano altri sette in luogo loro, finchè si torna; e allora gli ultimi accompagnano il pontefice, sinchè per morte dei primi succedono al sacerdozio. Sono eletti dal popolo, come i magistrati, segretamente, acciocchè non nascano odj tra loro; e dal loro collegio vengono sagrati. Questi sono preposti ai divini misteri. Hanno cura delle religioni, sono giudici dei costumi, ed è biasimato colui, che sia da essi ripreso. Siccome è loro ufficio ammonire i malfattori, così ai magistrati conviensi di castigarli. Solamente scomunicano gli ostinati, il che è appo loro sommamente biasimevole, e tenuto per grave supplicio. Perchè temono l’infamia e la religione; oltre che non sono sicuri del corpo, perchè se tardano a pentirsi, e soddisfare ai sacerdoti, sono puniti dai magistrati. Questi sacerdoti ammaestrano i fanciulli, avendo egual cura a formarli nelle lettere, che nei buoni costumi. E pongono ogni studio che imparino buone opinioni, e piglino desiderio di essere utili alla repubblica, acciocchè gli animi giovanili in questo formati, nell’età virile siano disposti a mantenere lo stato comune, il quale solamente vien meno pei vizj che nascono da sinistre opinioni. Danno ai sacerdoti elettissime mogli del popolo loro: fanno sacerdotesse ancora le femmine, ma di rado, se non sono vedove, o di età matura. Sono più onorati i sacerdoti appo gli Utopiensi, che qualunque magistrato, e se commettono qualche rea opera, non vengono puniti da alcuno, ma lasciati al divino giudizio, ed alla propria coscienza. Perchè non par loro giusta cosa di toccare con mano mortale colui, che è a Dio 183 sagro. Questo costume possono osservare agevolmente, perchè eleggono sacerdoti quelli, che sono di ottima vita. I quali di rado cadono nei vizj, vedendosi con tanto favore eletti, perchè osservino la virtù. E se pure avviene che pecchino, come accade nell’umana natura, tuttavia perchè sono pochi, e senza potestà alcuna, non si teme che possano a modo alcuno infestare la repubblica. E ne fanno pochi, acciocchè sia tale dignità più ragguardevole: e perchè tengono che sia difficil cosa trovare gran numero di buoni, che possano esserne degni. Questi e dai loro popoli e dagli stranieri sono molto onorati, il che per mio avviso è cagionato da ciò, che facendosi alcun fatto d’arme, essi separati dagli altri stanno in ginocchione vestiti coi sagri abiti, e con le mani al cielo levate; pregano prima per la pace, e poi per la vittoria al loro popolo, senza spargimento di sangue d’amendue le parti. Vincendo la propria, corrono nelle squadre, vietando l’uccisione degli sconfitti, e ciò basta a salvarli; anzi tanta è la riverenza verso di essi, che il solo tocco delle ondeggianti lor vesti difende le persone e le cose da ogni bellica ingiuria. Perciò sono in tanta venerazione appo le estere nazioni, che molte fiate hanno salvato non meno i nemici dalle mani dei proprj cittadini, che questi dalle mani de’ nemici. Alle volte è avvenuto ch’essendo sconfitto il campo loro, e mettendosi i nemici a saccheggiare, sopravvenendo i sacerdoti, è stata raffrenata l’uccisione, e fatta la pace con onesti partiti. Non mai si trovò gente alcuna tanto feroce e cruda, la quale non abbia onorato il corpo di quelli, come sagrosanto ed 184 inviolabile. Celebrano gli Utopj solennemente il primo e l’ultimo del mese, e parimente dell’anno, il quale dividono secondo il corso della luna. I primi giorni chiamano Cinemerni, e gli ultimi Trapemerni, cioè prime feste, ultime feste. Hanno egregi tempj non molto lavorati, ma, com’era necessario nel loro picciol numero, capaci di uno assai maggiore. Sono questi alquanto scuri, per consiglio dei sacerdoti, perchè la molta luce distrae i pensieri nostri, e la mediocre li raccoglie, e fa l’uomo alla religione più dedito. Benchè siano di varie forme, nondimeno tutti sono alla religione accomodati quasi ad una comune foggia. I sagrificj particolari di ciascuna setta sono celebrati nelle case particolari. I pubblici poi si fanno con tal ordine, che nulla derogano ai privati. Così non tengono nei tempj alcuna imagine degli Dei, acciocchè possa ognuno liberamente imaginarsi Dio in qual forma più gli piace. Chiamano Dio solamente per questo nome Mythra: e tutti per questa voce intendono la natura della divina maestà. Non si fanno orazioni, le quali non si possano pronunciare senza offendere le altre sette. Concorrono al tempio nelle ultime feste al vespro e digiuni, per rendere grazie a Dio di aver passato quel mese prosperamente. Il giorno appresso, che è la prima festa, concorronvi la mattina a supplicare felice successo per il mese che segue. Nelle ultime feste prima che si vada al tempio, le mogli innanzi ai mariti, i figliuoli ai padri si mettono in ginocchione, chiedendo perdono di ogni mancamento: così ogni odio nascosto o dispiacere nato tra loro si estingue, e si trovano ai sagri- 185 ficii con animo candido e puro. Perchè temono di intervenirvi, non avendo l’animo da ogni odio ed ira purgato. I maschi vanno alla destra parte del tempio, e le femmine alla sinistra, ed ogni padre e madre di famiglia si mette innanzi a tutti i suoi, per vedere i gesti di coloro che hanno in governo, e poterli correggere da ogni errore, che commettessero. Attendono che i giovani stiano vicini ai vecchi, acciocchè non si diano a cose puerili se stanno tra fanciulli o garzoni; parendo loro che in quel tempo debbano, col levare la mente a Dio, essere incitati alla virtù. Non sagrificano animali, dandosi a credere, che la divina clemenza non si plachi con sangue od uccisione, avendo quella dato la vita agli esseri perchè vivano. Ardono incenso, ed altre cose odorifere, e portano assai torchi. Non già che non sappiano come tali cose niente vagliono a placare la divina natura; neanco le orazioni degli uomini: ma piace loro questo culto senza nocumento alcuno; e con tali odori e lumi si sentono muovere a divozione verso Dio, e diventare più pronti ad onorarlo. Il popolo nel tempio si veste di bianco, ed i sacerdoti di varj colori, ma non di preziosa materia; perchè sono le lor vesti quasi ricamate non di pietre preziose, ma di varie penne di uccelli, in tal modo disposte, che l’opera oltre ogni stima più assai vale, che la materia. Dicono ancora che in quel variare di penne sono compresi alcuni segreti misteri, l’interpretazione dei quali imparata dai sacerdoti, che diligentemente l’insegnano, fa loro comprendere i divini beneficii, che ricevono, e quale pietà debbano usare verso Dio ed il pros- 186 simo. Quando il sacerdote ornato esce del santuario, tutti si piegano con la faccia in terra, con tanto silenzio, che muove agli animi timore, come se Dio fosse presente. Poichè sono stati alquanto in terra, ad un segno del sacerdote medesimo si levano, e cantano a Dio laude con musicali stromenti, di forma assai differenti da quelli, che si veggono appo noi, ma nel suono alcuni più, alcuni meno soavi, che i nostri. Ci vincono però di gran lunga in questo, che ogni lor musica, o con organi, o con voce umana imita, ed esprime gli affetti naturali, e si accomoda alla materia, sia orazione supplicatoria, lieta, placabile, turbata, lugubre o sdegnata, e rappresenta in tal guisa il sentimento, che gli animi di tutti sono a quello disposti ed accesi. In fine dei sagrifizii tutti ad una voce dicono certe parole col sacerdote, le quali, benchè siano pronunziate in comune, ognuno può applicare a se medesimo. In queste riconoscono Iddio autore della creazione e del governo, e di tutti gli altri beni; e di tanti beneficj gli rendono grazie, ma particolarmente che siano nati in repubblica felicissima, ed abbiano religione, a loro parere, d’ogni altra più vera. E se pigliano errore in questo, pregan Dio che inspiri loro la miglior via, offerendosi pronti a seguirla; ma se la repubblica loro è ottima, e la religione verissima, dia ai medesimi costanza a perseverare in quella, e conduca tutti gli uomini alla medesima foggia di ben vivere, e nello stesso parere circa la religione, se però non si diletta più di tanta varietà per la sua inscrutabile sapienza. Supplicano poi che li riceva a se dopo la morte, e che questa non sia crudele, nè stra- 187 na. Fatta quest’orazione, di nuovo si piegano in terra, e poco appresso levati vanno a mangiare: il rimanente del giorno consumano in giuochi ed esercizj militari. Vi descrissi, quanto più veracemente mi è stato possibile, la forma di quella repubblica, la quale non solamente giudico ottima, ma eziandio sola, che possa con ragione esser chiamata repubblica. Perchè altrove si ragiona veramente del pubblico comodo, ma si attende al particolare. In questa da dovvero si mira al ben pubblico, lasciando al tutto da parte ogni proprio utile. Chi è nelle altre repubbliche, ancorchè siano fiorite e prospere, il quale non tema di morirsi per fame, se non procura piuttosto i suoi privati comodi, che il pubblico bene? Ed anco la necessità nelle altre repubbliche strigne l’uomo a far questo. Nella Utopiense, ove ogni cosa è comune, niuno teme di patire, purchè siano pieni i granai pubblici. Perchè ivi non si distribuisce con malvagità, nè vi è alcuno povero; e quantunque niuno posseda in particolare, tutti sono nel pubblico ricchi. Perchè veramente, non avendo pensieri circa l’acquistare particolarmente, menano lieta vita con tranquillo animo. Non istanno in pena del loro vivere, non sono con domande continue dalle mogli travagliati, non temono che i figliuoli impoveriscano, nè di indotare la figliuola stanno in pensiero. Anzi sono sicuri del vivere felice dei figliuoli, nipoti e d’ogni lor discendente, ed anco di se stessi, perchè primieramente si provvede a chi non può più lavorare, come a quelli che lavorano. Ardirà alcuno di comparare l’equità di altre genti, le quali a mio parere non ne tengono ombra alcu- 188 na, con l’equità di questa repubblica? Che equità è quella che un nobile ovvero orefice od usurajo, oppure qualunque altro che non opera cosa alcuna, ovvero ogni cui fatto è poco necessario alla repubblica, si acquisti il vivere dilicato e splendido; quando che un servo, un lavoratore de’ campi, un fabbro, un carrettiere con tanta fatica diurna e notturna, che non la patirebbero i buoi, si guadagna parcamente il vivere, quasi peggiore che quello degli animali? Perocchè questi non lavorano tanto assiduamente, nè stanno in timore delle cose avvenire; ma gli altri sono afflitti dalla poco fruttuosa fatica, e pensando alla povertà, che aspettano in vecchiezza, restano vinti dal dolore. Poichè vedendo di non poter tanto guadagnare, che basti loro di giorno in giorno, perdono ogni speranza di riporre cosa alcuna pel futuro. Non è ingiusta quella repubblica ed ingrata, la quale dà liberamente tanti doni ai nobili, agli oziosi, agli artefici de’ vani diletti, agli adulatori, e non provvede ai lavoratori di terreno, ai carbonai, ai servi, ai carrettieri ed ai fabbri, senza i quali non può stare alcuna civil società? Anzi essendosi delle loro fatiche servita, mentre che erano giovani, poichè invecchiano, li lascia di disagio morire in estrema povertà. Che dirò come i ricchi pigliano ancora del salario diurno dei poveri, non solamente con violenza o frode, ma con pubbliche leggi? Considerando adunque tutte le repubbliche, che ora fioriscono, così mi ami Dio, che non veggo altro, che una congiura di ricchi, la quale tratta dei proprj comodi. Sotto nome di repubblica ricercano essi ogni modo ed arte, con la quale possano fare 189 grandi acquisti, e tenerseli senza timore; di poi come con piccioli salarj aver le fatiche dei poveri, e servirsene a loro voglia. Questi trovamenti de’ ricchi sotto colore di repubblica diventano leggi. Tuttavia que’ pessimi uomini, poichè hanno con insaziabile appetito diviso tra loro ciò, che a tutti dovea bastare, sono degli Utopiensi inferiori, quanto alla felicità della repubblica loro; dalla quale essendo levata via la cupidigia del danaro, ogni molestia e sceleragine è insiem rimossa. Chi non sa quante frodi, rapine, risse, tumulti, contestazioni, sedizioni, uccisioni, tradimenti, incantesimi puniti piuttosto che raffrenati coi supplicj, collo sprezzare i danari se ne vanno, e con ciò la sollecitudine, i pensieri, le fatiche, le vigilie, ed anco la povertà, la qual sola pare che di danari sia bisognosa? E per meglio chiarirti, pensa di qualche anno sterile, nel quale siano morti per fame gli nomini a migliaja, e troverai che nel fine di quella carestia era tanto frumento nei granai dei ricchi, che avrebbe nodrito quelli, che morirono di fame, nè alcuno avrebbe sentito la sterilità di quel tempo. Così facilmente si acquisterebbe il vivere se il desio di accumulare danari, non impoverisse gli altri. I ricchi stessi, non ne dubito, ciò comprendono e sentono che sarebbe miglior partito non mancare di cose necessarie, che abbondare di tante soverchie. Ed io tengo certo, che ovvero il rispetto del comodo, ovvero l’autorità del salvator Cristo, il quale per sua sapienza e bontà seppe e potè consigliare quello che era meglio, avrebbe già ridotto il mondo tutto sotto migliori leggi, se non si contrapponesse la superbia, la 190 quale si tiene felice, non pei proprj comodi, ma per gli incomodi altrui, dilettandosi col suo pompeggiare di affliggere i poveri. Questa serpe infernale ritarda gli uomini dalla vera via. Ed essendo essa oggimai radicata negli umani petti, mi rallegro che tengano gli Utopiensi, almeno, quell’ottima forma di repubblica felicissima, e, quanto può l’umana cognizione prevedere, ancora perpetua. Perchè essendo tra loro estirpati i vizj dell’ambizione, e le radici delle sette, non vi è pericolo di discordia, la qual sola basta a rovinare le ben fortificate città. Ma vivendo in concordia con salutiferi istituti, non potrà l’invidia de’ vicini principi, già più volte ribattuti, crollarne l’imperio. Poichè Rafaello ebbe così detto, quantunque mi parevano esservi molte sconvenevolezze nei costumi e leggi loro, non solo circa il guerreggiare, ma ancora nella religione, e specialmente quel vivere in comune senza danari, il qual pare che estingua la nobiltà, la magnificenza e lo splendore, che sono per comune opinione i veri ornamenti dello stato; tuttavia vedendolo già stanco, e temendo di non offenderlo nel riprendere una repubblica tanto affettuosamente da lui commendata, lodai il suo parlare; e presolo per mano, lo menai a cena, dicendo che ad altro tempo potremmo delle stesse cose pensare e ragionare, il che piaccia a Dio che avvenga. 191 Fine del secondo ed ultimo libro. 192 NOTE AL LIBRO PRIMO E AL LIBRO SECONDO 193 (1) Poi Carlo V imperatore. (2) Che sonerebbe per noi contastorie, se mai a tal nome può darsi greca derivazione. (3) La Nuova Castiglia. (4) Lucano, Farsaglia lib. VII, v. 819. (5) Il testo dice: afferrò a Taprobana, (ossia Ceylan) ed indi si rese a Calicut. Era opinion generale di que’ tempi, che l’America comunicasse, per terra, coll’India, di cui supponevasi formare la parte occidentale. Nella Gujana collocavasi il famoso paese di Eldorado, di cui vedesi nella relazione di sir Walter Raleigh con quanta credulità i viaggiatori andassero in cerca. (6) Quando verso la metà, e più efficacemente sulla fine dello scorso secolo, si cominciò nell’alta Scozia a pensare alla propagazione e al governo delle pecore, i fittajuoli mossero gli stessissimi lamenti che quei d’Inghilterra a’ tempi del Moro, il qual mostra di approvarli. S’ei però, non è immune da pregiudizj economici o legislativi dell’età sua; si guardi al suo zelo generoso verso gli oppressi, e se ne avrà ancor più giusta maraviglia. (7) Ciò si riferisce al cominciamento del regno di Francesco I. (8) Probabilmente da A”xωρoς senza luogo, senza terra. (9) L’alterazione e falsificazione delle monete, vergogna frequentissima d’altri tempi, or più non oserebbe riprodursi che all’ombra d’insolito travestimento. In mez- 194 zo alle violazioni della pubblica fede, il valor delle specie metalliche fu ai nostri giorni mantenuto dovunque nella sua integrità. E sebben la frode non abbia fatto, per avventura, che cangiar di forma, è pur qualche cosa, e da saperne grado alla forza dell’opinione, l’averle imposto certo limite. (10) Fénélon scriveva al duca di Borgogna: “Non debbono già tutti essere di un solo; ma un solo di tutti, onde formare la loro felicità”. (11) Che nel greco linguaggio è quanto dire felici. (12) Una delle tragedie attribuite a Seneca. (13) Adelfi, atto I, scena 2. (14) E’ varrebbe città mal nota od oscura, stando alla greca significazione. (15) Sembra così detto per antitesi, poichè significa senz’acqua. (16) Può interpretarsi nazion vana, popolo frivolo. (17) I dolori fisici, scrive madama Staël, le infermità incurabili, tutte le miserie, infine, che si accompagnano all’esistenza corporea, parrebbero cause di suicidio assai naturali; e tuttavia mai non sono quelle, che sospingano gli uomini, specialmente moderni, ad atto così disperato. Le pene, che ci provengono dal corso ordinario delle cose, opprimon l’animo, non lo rivoltano. È necessario che al sentimento del mal, che si prova, aggiungasi l’irritazione contro il destino, perchè si tenti liberarsene o vendicarsene come di un tiranno………... Mai non conviene disprezzare i doni primitivi del Creatore, la vita e la natura. L’uomo sociale dà troppo 195 valore al tessuto delle circostanze, onde componsi la personale sua istoria. Ma l’esistenza non è forse in sè stessa una cosa meravigliosa?………………………... Egesippo di Cirene, discepolo di Aristippo predicava ad un tempo il suicidio e la voluttà. Non dovendo gli uomini, a parer suo, proporsi altro fine che il piacere; ed essendo difficilissimo assicurarsene il godimento, ei consigliava la morte a chi non poteva ottenerlo. Quella dottrina del piacere infatti è una delle più valide a giustificare l’uccision di se stesso; ma prova insieme evidentissimamente qual egoismo abbia parte all’atto con cui si cerca il proprio annientamento………….. Vi ha due maniere di sagrificar la vita, o anteponendo ad essa il dovere, o preferendo le passioni, per cui si ricusa di vivere, perduta che sia la speranza d’esser felici. La qual seconda risoluzione chi mai vorrà chiamare degna di stima? Ma l’afforzarsi del proprio pensiero in mezzo a rovesci, che potriano abbatterci; il farsi appoggio di sè contro sè stesso, opponendo la calma della propria coscienza all’irritazione del proprio temperamento; questo è ben vero coraggio, in confronto del quale ogni altro è picciolissima cosa, e quello che dà l’amor proprio ancor meno. Pretendono alcuni che vi siano circostanze, in cui l’uomo sentendosi a carico degli altri, può creder suo debito il liberarneli. Tristissimo eppur sicurissimo mezzo di introdurre errori nella morale è pur questo di supporre condizioni, intorno alle quali altro non si può rispondere, se non che sono affatto imaginarie. Qual è lo sventurato, che mai non sia per incontrare un suo simile, a 196 cui recar possa qualche consolazione? Qual uomo è sì infelice, che colla pazienza e rassegnazion sua non vaglia a porgere tale esempio, che commova gli animi, e desti sentimenti, cui nessuna lezione basterebbe ad inspirare! (Réflex. sur le Suicide, sec. 3.), (18) Sa ognuno quanto a queste parole del buon Rafaello sia conforme la storia, specialmente de’ tempi suoi. L’America gli avea ben fatto dimenticare l’Europa. (19) Forse da Νεφελογενήϛ, e varrebbe nubigeni. (20) Nomadi, o girovaghi o fuorusciti. (21) Probabilmente invece di Zoepoleti, cioè venditori della vita. (22) Secondo Erodoto altro non era fra i Persi antichissimi che l’Amore, principio delle generazioni e della focondità, che perpetua e ringiovanisce il mondo. Da’ Greci e da’ Romani fu confuso col Sole, risgurdato come “il ministro maggior della natura”. 197