Una luce nel labirinto

Una luce nel labirinto
Non arrendersi mai.

una luce nel labirinto

una luce nel labirinto
Non sottomettersi mai.

domenica 12 marzo 2023

Priamo ai piedi di Achille.

Solo nel libro XXIV dell’Iliade, che chiude l’intero poema, il ciclo delle distruzioni innescate dal contagio dell’ira ha finalmente il suo termine. Una notte, un Priamo insonne dal giorno della morte di Ettore si introduce di nascosto nella tenda di Achille, anch’egli prostrato da numerose veglie notturne, trascorse nel ricordo di Patroclo. Il vecchio bacia le giovani mani che hanno assassinato suo figlio e chiede al più forte/temibile dei suoi nemici un atto di umanità: la restituzione delle spoglie di Ettore, in cambio di numerosi e preziosi doni. Dopo un ultimo rigurgito dell’ira funesta che aveva fatto il suo esordio nel libro I, Achille cambia atteggiamento, perché avverte un sentimento che non aveva provato con tale intensità prima d’ora. Si tratta della tristezza, che riporta tutto nella sua giusta prospettiva. Che cos’è ora la vendetta che Achille aveva considerato tanto desiderabile, durante il fuoco divampante dell’ira? Nient’altro che questo: un cumulo di cenere che aveva preso forma in un vecchio re caduto in ginocchio e in lacrime, per chiedergli indietro soltanto un cadavere. Achille fa un passo indietro, quello che non aveva saputo fare quando subì torto da Agamennone, e consente la restituzione di Ettore. Il re può tornare nella sua reggia. Il morbo si spegne. Infine uomini e dèi si abbandonano, dopo tanto tribolare, al ristoro e al silenzio del sonno, che appare tanto più desiderabile dopo tanto caos e il rumore della mischia. Dall’alba bruciante in cui Achille interroga Calcante alla notte di Priamo, la rabbia che divide gli uomini si dissolve gradualmente, per riaggregarsi nella solidarietà della tristezza. Questa solidarietà che in molti oggi non alberga nei cuori e che sembrano assistere a situazioni tragiche o a condizioni misere di tanti esseri umani quasi con gioia e indifferenza. Chi ha un comportamento di tal tipo è colmo di disumanità e ha una visione del mondo di sopraffazione su tanti esseri umani. La nostra società ha bisogno di umanità! Dobbiamo conquistare una visione nuova e diversa dei rapporti economico-sociali per mettere in condizione ogni essere umano di vivere nella libertà dai bisogni materiali e spirituali, nella fratellanza, dettata dai comuni interessi, dall’uguaglianza. . Omero, Iliade. Libro XXIV Priamo ai piedi di Achille. ..E, nei ricordi immersi, l’uno Ettore prode piangeva dirottamente, steso dinanzi ai piedi d’Achille: ed il Pelide anch’egli piangeva, or pensando a suo padre, ora a Pàtroclo; e tutta suonava di pianto la casa... Finiti i giochi funebri, tutti vanno a riposare, ma Achille piange ancora Patroclo; infierisce ancora sul cadavere di Ettore, facendogli fare tre giri attaccato al carro. Apollo è mosso a compassione di Ettore, e alla fine convince anche gli altri dei che è meglio che Achille renda il corpo di Ettore a suo padre Priamo. Giove perciò fa convocare Teti, per comunicarle questa decisione. Fine ebbe allor la gara, si sparsero tutte le genti, ciascuno alla sua nave. Pensarono gli altri alla mensa, tutti, a godere il sonno soave. Soltanto il Pelide, pensando al suo compagno diletto, piangeva, né il sonno che tutti vince, lui vinceva. Qua, là, si voltava, pensando il gran valore di Pàtroclo e il baldo coraggio, e quante imprese aveva compiute, e dolori sofferti con lui, guerre affrontando, solcando gl’infidi marosi. Pensando a tutto ciò, versava amarissimo pianto, ora giacendo sul fianco, volgendosi poscia supino, poscia bocconi; e talora, levandosi in piedi, girava, pieno di smania, lungo la spiaggia del mare. L’Aurora non gli sfuggiva, però, quando il mare imbiancava alla spiaggia; ma dopo avere al giogo costretti i veloci cavalli, Ettore dietro al carro legava; e poiché trascinato per tre volte l’avea di Pàtroclo intorno alla tomba, di nuovo alla sua tenda tornava, ed il corpo lasciava steso bocconi dentro la polvere. E Apòlline allora, mosso a pietà dell’eroe, sebbene defunto, il suo corpo d’ogni bruttura tergea, lo cingeva con l’ègida d’oro, mentre ei lo trascinava, perché straziato non fosse. Nella sua furia, cosi, strazio d’Ettore Achille faceva. E n’ebbero pietà, vedendolo, i Numi d’Olimpo, e invito all’Argicida facevan, perché lo involasse. Fu tale avviso a tutti gradito; ma spiacque alla sposa di Giove, e all’occhiazzurra Fanciulla, e al Signore del ponto: serbavano essi l’ira concetta contro Ilio, ed il sire Priamo, e la gente d’Ilio, per colpa di Pàride, quando egli le Dive offese, venute a cercarlo all’ovile, e quella esso prescelse che offerta gli fe’ del piacere. Or, poi che da quel giorno spuntarono dodici aurore, Apollo Febo queste parole rivolse ai Celesti: «Tristi voi siete, o Dei, maligni: non v’arse abbastanza Ettore un giorno cosce di bovi e di capre perfette? Or non vi basta il cuore, neppur dopo morto, a salvarlo, si che la sposa lo veda, lo vedano il figlio e la madre, e Priamo il padre, e tutta la gente di Troia, che il corpo presto arderebbero, e a lui renderebbero pubblici onori. Ma sempre aiuto, o Numi, voi date al crudele Pelide, che pur, viscere umane non ha, non ha cuore nel petto che si commuova: egli ha d’un leone l’istinto selvaggio, che, come lo consiglia l’intrepido cuore e l’immane forza, sovresse le greggi s’avventa, per farne suo pasto: similemente, Achille pietà non ha più, né ritegno che pei mortali è fonte di mali ed è fonte di beni. Altri, sovente, persona più cara perde’ d’un amico, od un fratello nato da un grembo medesimo, o un figlio, eppur, quando esso ha pianto, gemuto, si placa alla fine: ché paziente cuore concesser le Parche ai mortali; Ma questi, sempre al carro legato trascina il divino Ettore, al carro stretto, di Pàtroclo intorno alla tomba; e questo scempio, a lui non giova, né onore gli rende. Badi che l’ira nostra su lui, benché prode, non piombi: ché terra muta è quella ch’ei va furioso oltraggiando». Era crucciata rispose, la Diva dall’omero bianco: «Certo diresti bene, signore dall’arco d’argento, se ad Ettore e al Pelide voi date il medesimo onore; ma Ettore è mortale, succhiò d’una femmina il latte, e Achille è d’una Dea figliuolo, ch’io stesso allevai, io nutricai, la diedi consorte ad un uomo mortale, Pelèo, tanto ai Celesti diletto. E voi tutti alle nozze foste presenti, o Numi. Tu pur banchettavi fra loro, con la tua cetra, o tu amico dei tristi, o tu sempre malfido». E a lei di Crono il figlio, che i nugoli aduna, rispose: «Era, non ti crucciare cosí contro tutti i Celesti. Uguale non sarà d’entrambi l’onore. Ma caro Ettore anch’egli fu su tutti i Troiani ai Celesti, caro a me fu; ché privo non mai mi lasciò dei miei doni: mai vuota l’ara mia non restò della debita parte di libagioni e d’ostie: ché questo è l’onor che ci spetta. Ora io consentirò che d’Ettore ardito la salma venga sottratta ad Achille. Ma far non si può di nascosto, ché presso notte e giorno sua madre a lui resta, e lo assiste. Ma su, qualcun di voi dica a Teti che venga a me presso, perché da me riceva un saggio consiglio: che Achille doni da Priamo accetti, disciolga dal carro il suo figlio». Iride va a chiamare Teti, e Teti corre presso Achille per convincerlo ad accettare i doni che gli porterà Priamo e a cedere il corpo di Ettore. Achille accetta. Cosí diceva. Ed Iri, la diva dal pie’ di procella, corse a recare il messaggio. Tra Samo ed Imbro rocciosa, giù negli abissi balzò del pelago, simile a un piombo che, penduta dal corno d’un bove selvatico, scende giù giù nel mare, ai pesci voraci recando la morte. E Tètide trovò dentro un concavo speco; e d’intorno stavano l’altre Dive del pelago; ed essa, nel mezzo, del puro suo figliuolo piangeva il destino, che morte trovar doveva in Troia ferace lontan dalla patria. Iri dai pie’ veloci vicina le stette, e le disse: «Tètide, sorgi! Giove ti chiama, il supremo dei Numi!». E Tèti a lei rispose, la Dea dall’argenteo piede: «Perché dunque mi chiama, quel Nume possente? Ho ritegno di mescolarmi ai Numi, ch’io soffro dolori infiniti. Ma pure, andrò; né vana sarà la parola ch’ei disse». Detto cosi, la Dea fra le Dive, si cinse d’un velo bruno, che veste alcuna non c’era più bruna di quella, e mosse. Ed Iri innanzi, la Diva dai piedi di vento, erale guida; e d’attorno s’aprivano i flutti del mare. Sopra la spiaggia poi venute, balzarono al cielo. L’onniveggente Cronide trovarono; e tutti d’intorno stavano gli altri Numi raccolti, che vivono eterni. Atena il posto allora cedette; e sede’ presso Giove Tètide; ed Era offerta le fece d’un calice d’oro, cortese le parlò. Bevve Tèti, poi rese la coppa. E allora favellò degli uomini il padre e dei Numi: «Tètide, tu sei giunta, sebbene crucciata, all’Olimpo, inconsolabile doglia chiudendo nel cuor, lo so bene. Ma tuttavia, ti dirò perché qui t’ho fatta chiamare. Da nove giorni è sorto contrasto fra i Numi immortali. D’Ettore n’è cagione la salma, ed Achille Pelide. Alcuni all’Argicida chiedevan che il corpo involasse; ma io ben altro vanto concedere voglio ad Achille, ché l’amicizia sua, l’amor, vo’ che sempre mi resti. Sùbito al campo va’, tal mònito reca a tuo figlio: che sono irati i Celesti, ed io più di tutti i Celèsti sono sdegnato, perché, nella furia che il cuore gl’invade, non scioglie Ettore, e presso le concave navi lo tiene. Vedi s’egli abbia di me reverenza, se Ettore sciolga. Ed Iri manderò, che al magnanimo Priamo imponga recarsi ai curvi legni d’Acaia a disciogliere il figlio, doni ad Achille recando che possano il cuore blandirgli». Disse cosi. Né fu tarda la Dea dall’argenteo piede, ma con un balzo, giù s’avventò dalle cime d’Olimpo, giunse alla tenda del figlio. Gemeva e piangeva il Pelide dirottamente; e a lui d’intorno, i diletti compagni erano tutti in faccende, la cena apprestando: immolata entro la tenda una pecora avevano grande villosa. A lui sede’ vicino vicino la madre divina, gli fece una carezza, lo chiamò per nome, gli disse: «0 figlio mio, sino a quando, gemendo cosi, dolorando, il cuor ti roderai, senza al cibo pensar, né all’amore? Con una donna è pure soave allacciarsi in amore: ché non mi camperai troppo a lungo, figliuolo, ma presto saranno sopra te la Morte ed il Fato possente. Ma presto dammi retta, ché io giungo aralda di Giove. Dice che i Numi sono crucciati e più ancora dei Numi, egli è sdegnato, perché nella furia che il cuore t’invade, non sciogli Ettore, e presso le concave navi lo tieni. Su via, scioglilo, e accetta pel corpo defunto il riscatto». E Achille, eroe dai piedi veloci, cosí le rispose: «E sia cosi. Compensi mi rechi, e il cadavere prenda, se veramente questo desidera e impone il Cronide». Entro il recinto cos! delle navi, la madre e il figliuolo stavano l’un con l’altro scambiando veloci parole. Giove manda Iride da Priamo per dirgli di andare a riscattare il corpo di Ettore. Priamo si consulta con sua moglie Ecuba, che teme per la sua vita. Ma lui vuole partire; prepara i doni per Achille e dice ai figli di metterli sul carro. E Giove Iri riandò, la Dea velocissima, a Troia: «Iri veloce, va’, le vette d’Olimpo abbandona, e, giunta ad Ilio, Priamo cuore magnanimo, esorta che vada ai curvi legni d’Acaia, e riscatti suo figlio, doni ad Achille recando che possano il cuore blandirgli; e solo vada, e niuno con lui dei Troiani si rechi. Solo un araldo vada più vecchio di lui, che i muletti guidi, ed il carro di ruote veloci, e di nuovo alla rocca rechi di Troia il corpo che Achille Pelide trafisse. Né della morte accolga timore, né d’altro malanno: tale un compagno a lui darò: l’Argicida, che guida gli sia, finché non l’abbia condotto vicino ad Achille. E poi ch’entro la tenda condotto l’avrà, né il Pelide il veglio ucciderà, né ch’altri gli rechi alcun danno consentirà: ché sciocco non è, né imprudente, né empio: ogni rispetto avrà dell’uomo che supplice piange». Disse. E al messaggio balzò la Diva dai pie’ di procella e giunse a Priamo. E qui trovò solo pianto e lamento. D’intorno al padre, i figli sedevano dentro la corte, bagnavano di pianto le vesti; e fra loro il vegliardo tutto ravvolto stava, nascosto nel manto; e bruttava molta lordura il collo, la testa del vecchio: egli stesso con le sue mani raccolta l’avea, voltolandosi a terra. E per la casa, le figlie, le suore, levavano pianto, per la memoria dei loro diletti, che molti, che prodi, giacean caduti, spenti per man degli argivi guerrieri. Vicina a Priamo stette di Giove l’aralda, e parole gli volse a bassa voce: d’un trèmito il vecchio fu còlto. «Fa’ cuore, Priamo figlio di Dàrdano. A che ti sgomenti? Non vengo io qui per danno ch’io veda che debba seguirti, ma cerco il bene tuo. Di Giove io ti reco un messaggio, che ha cura e pietà di te, benché tu sei lontano. T’impone ora l’Olimpio che Ettore a scioglier tu vada, doni ad Achille recando che possano il cuore blandirgli, e solo vada, e niuno con te dei Troiani si rechi. Solo un araldo venga più vecchio di te, che i muletti guidi, ed il carro di ruote veloci, e di nuovo alla rocca porti di Troia il corpo che Achille Pelide trafisse. Né te di morte colga timore, né d’altro malanno: tale un compagno a te darà: l’Argicida, che guida ti sia, finché condotto non t’abbia vicino ad Achille. E poi ch’entro la tenda condotto t’avrà, né il Pelide a te morte darà, né ch’altri alcun danno ti rechi consentirà: ché sciocco non è, né imprudente né empio: ogni rispetto avrà d’un uomo che supplice giunge». Detto cosi, parti la Diva dai piedi veloci. Ed esso ai figli impose che un carro da muli veloce mettessero in arnese, ponesser sovra esso una cesta. Ed egli poi discese nel talamo tutto fragrante, alto, di legno di cedro, che molti chiudeva tesori, ed Ecuba chiamò, la diletta sua sposa, e le disse: «0 poverina, da parte di Giove me giunto un messaggio, ch’io degli Achivi ai legni mi rechi e riscatti il figliuolo, doni ad Achille recando che possano il cuore blandirgli. Or questo di’: che cosa ti par che decidere io debba? Per me, troppo la brama, la smania che m’arde, mi spinge ch’io nell’esteso campo d’Acaia alle navi mi rechi». Si disse. E in pianto ruppe la donna, e cosí gli rispose: «Ahimè!, dove il tuo senno svaní, che pur celebre un giorno te fra gli estranii rese, fra quei che ti chiamano sire? Andar come vuoi tu soletto alle navi d’Acaia, andare sotto gli occhi dell’uomo che tanti figliuoli giovani e prodi t’uccise? Davvero, il tuo cuore è di ferro! Ché s’ei ti piglierà, non appena ti avrà sotto gli occhi, crudo ed infido qual’è, di te non avrà compassione, rispetto non avrà. Piangiamolo, via, da lontano, restando entro la casa: ché quando lo diedi alla luce, per lui fiero Destino tal sorte segnò, ch’ei dovesse sfamare i pronti cani, lontano dai suoi genitori, presso ad un uomo feroce. Il fegato a mezzo azzannargli potessi, e divorarlo! Compiuta così la vendetta del figlio mio sarebbe. Ché questi non cadde da vile, ma pei Troiani pugnò, per le femmine belle troiane, senza che a fuga pensasse, pensasse a schivare la morte». E il vecchio Priamo a lei rispose con queste parole: «Non trattenermi quand’io voglio andare, non fare l’uccello del malaugurio in casa, ché già, non puoi farmi convinto. Se consigliato a me l’avesse qualcun dei mortali, quanti indovini, sono, o aruspici, oppur sacerdoti, creder potremmo a un inganno, staccarci dai loro consigli; ma or ch’io stesso ho udita la Dea, con questi occhi l’ho vista, andrò, né invano avrà parlato; e se vuole il destino ch’io muoia presso ai legni d’Acaia, a morire son pronto: subitamente Achille m’uccida, quando io tra le braccia stretto abbia pur mio figlio, sfogata la brama del pianto». Cosí disse; e i coperchi dischiuse dei cofani belli. Di qui dodici pepli, fra tutti i più belli, trascelse, con dodici mantelli d’un doppio, e altrettanti tappeti, dodici manti grandi, con dodici tuniche; ed oro su la bilancia pose, ne prese ben dieci talenti, e due tripodi, tutti fulgenti, con quattro lebèti, e una bellissima tazza che data g’i avevano i Traci, un di che ad essi ei giunse messaggio; e valeva un tesoro; ma neppur questa volle serbare il vegliardo: tal brama avea di riscattare suo figliolo. E scacciò dalla corte tutti i Troiani; e ad essi rivolse parole d’oltraggio; «Andate via di qui, svergognati importuni! Vi manca forse da piangere a casa, che qui mi venite a crucciare? O non vi basta forse che Giove mi die’ questo strazio che il figlio mio perdessi, che era fra tutti il più prode? Ben presto lo dovrete sapere anche voi: ché agli Atridi preda sarete, adesso ch’è spento, più agevole molto. Ma io prima che debba veder con questi occhi distrutta e messa Troia a sacco, vo’ scendere ai regni d’Averno». Dicea cosi, con lo scettro facendosi largo; e la turba usci dinanzi al vecchio che andava di furia. Ed ai figli questi die’ un grido, ad Èleno, a Paride, al divo Agatone, a Pàmmore, ad Antifone, prode guerriero, a Polite, a Deifobo, a Divo mirabil di forme, ad Ippòte. A questi nove il vecchio die’ ordini, alzando la voce: «Tristi figliuoli, infingardi, sbrigatevi, su! Deh, se invece d’Ettore, tutti voi foste morti vicino alle navi! Oh, poveretto me, che diedi alla vita figliuoli nell’ampia Troia insigni, né in vita pur uno è rimasto, Mèstore simile ai Numi, e Tròilo, signor di segugi, ed Ettore, che un Dio parea tra i mortali, che figlio no, non pareva d’un uomo mortale, bensí d’un Celeste. Marte li uccise tutti, sol restano questi codardi. tutti menzogna e balli, ché sono maestri a danzare, maestri a fare preda, fra il popol, d’agnelli e capretti. Non vi volefe dunque sbrigare? Allestitemi il cocchio, e tutta questa roba metteteci: io debbo affrettarmi». Disse cosi. Sbigottiti pei gridi del padre, i figliuoli trassero fuori il carro da muli di ruota veloce, bello, costrutto da poco, sovr’esso legarono il cesto. Via dal puntello poscia sfilarono il giogo da muli, umbilicato, bello, provvisto d’un duplice anello, e insiem trasser la cinghia del giogo, che avea nove braccia. Poscia, sul ben levigato timone posarono il giogo, sopra la punta estrema, il cerchio infilar nel puntale, su l’umbilico tre volte legaron da entrambe le parti la cinghia, in tutto punto, piegarono indietro il fermaglio. Poscia, dal talamo fuori recato il riscatto infinito d’Ettore, sopra il carro lucente lo posero, e al giogo strinsero i muli poi, gagliardi, dall’unghia robusta, che a Priamo un giorno i Misii recarono, doni fulgenti. Quindi i cavalli per Priamo legarono al giogo che il vecchio solea di propria mano nutrir nella fulgida greppia. Nella dimora eccelsa facevano i carri aggiogare cosi Priamo e l’araldo, assorti nei gravi pensieri. Ecuba dice al marito di offrire libagiorni e preghiere a Giove. Giove fa apparire un’aquila come segno di buon auspicio, e Priamo allora parte. Ed ecco, presso a loro si fece, col cuore crucciato, Ècuba; e vin più dolce del miele in un calice d’oro con le sue mani offrì, ché libassero pria di partire. Stette dinanzi ai cavalli, parlò queste alate parole: «Tieni, ed a Giove liba, perché dalle genti nemiche, tornar ti faccia a casa, se pur ti sospinge il tuo cuore che tu vada alle navi d’Acaia, per quanto io non voglia. Su via, la prece volgi a Giove che i nuvoli aduna, ch’abita I’Ida, e Troia col guardo suo domina tutta, e chiedi a lui che, pronto messaggio, egli l’aquila mandi, che prediletta da lui, fra tutti i pennuti il più forte, e che da destra la invii, ché bene tu possa vederla, e, confidando in lui, raggiunga le navi d’Acaia. Ché poi, se non vorrà l’auspicio accordarti il Cronide, davvero io non potrei consigliare che tu t’avviassi verso le navi argive, per brama che tu possa averne». E a lei Priamo cosi, che un Nume sembrava, rispose: «Al tuo consiglio, o donna, restio non voglio essere: a Giove le mani alzare è bene, ch’egli abbia di me compassione». Alla dispensiera, ciò detto, diede ordine il vecchio ch’acqua purissima sopra le mani versasse. Ed apparve presto l’ancella, e in mano reggeva un catino e una brocca. E Priamo si lavò, poi chiese alla sposa la coppa, e, stando in mezzo all’atrio, al cielo volgendo lo sguardo, libò purpureo vino, le labbra alla prece dischiuse: «O Giove re, signore dell’Ida possente ed illustre, fa che ad Achille io giunga diletto, e a pietà lo commuova; e a me l’aquila manda, veloce messaggio, diletto a te su quanti sono pennuti, e fra tutti il più forte, e mandalo da destra, ché bene io lo possa vedere, e, confidando in lui, raggiunga le navi d’Acaia». Cosí dicea pregando. L’udí l’alto senno di Giove, e l’aquila mandò, perfetta fra tutti gli alati, la cacciatrice, bruna di penne, cui chiamano fosca. Quanto è grande la porta di duplice imposta, ben chiusa, del talamo dall’alto soffitto d’un uomo opulento, tanto eran grandi l’ali da un lato e dall’altro. Ed apparve lanciandosi da destra sopra Ilio. Gioirono tutti, come la videro, a tutti s’effuse conforto nel cuore. E il vecchio in tutta fretta salì sopra il lucido cocchio, e spinse il carro fuori dal portico e l’atrio sonoro. Ivano innanzi dunque le mule, e tiravano il carro di quattro ruote: Idèo lo guidava, Io scaltro; e i cavalli ivano dietro, che il vecchio spingea con la sferza a gran possa, traverso la città: seguivano tutti i suoi cari, dirottamente piangendo, cosí come andasse alla morte. Giove manda Hermes a proteggere Priamo durante il viaggio. Ermes si presenta a lui come un mirmidone e si offre di scortarlo. E poi che, dunque, usciti da Troia, pervennero al piano, i generi ed i figli, di nuovo rivolto il cammino, tornarono in città. Ma i due non sfuggirono a Giove, come comparvero al piano. Li vide, e pietà del vegliardo ebbe, e a suo figlio Ermète si volse con queste parole: «Ermète, o tu che godi, fra tutti i Celesti, compagno farti dell’uomo, e ascolti, se alcuno li chiami, e se vuoi, muovi ora, e Priamo adduci vicino alle navi d’Acaia, cosi che niuno possa vederlo né averne sentore degli altri Dànai, prima che giunga vicino al Pelide». Disse; né tardo fu l’Argicida che l’anime guida. Sùbito sotto le piante si strinse i leggiadri calzari d’oro, immortali, che via lo rapivan su l’umido gorgo, via per l’intermine terra, insieme coi soffi del vento: anche la verga prese, onde gli occhi degli uomini sfiora, questi, se vuol sopirli, se dormono questi, a destarli: quella stringendo in pugno, volava il gagliardo Argicida. A Troia, all’Ellesponto cosí rapidissimo giunse; e mosse, e avea l’aspetto di giovane principe, quando gli ombra le gote la prima pelurie, e più fulgono gli anni. Or, come furono d’Ilio passati oltre il tumulo grande, quivi i cavalli ed i midi fermar su le rive del fiume, per beverarli; e già su la terra sceso era il tramonto. E allor, vide l’araldo, s’accorse, scorgendolo presso, d’Ermète; e a Priamo tosto si volse con queste.parole: «Figlio di Dàrdano, attento; ché vigile mente ora occorre: io vedo un uomo; e temo che presto c’infligga la morte. Su via, dunque, fuggiamo coi nostri cavalli, o cadiamo dinanzi ai suoi ginocchi, se avesse di noi compassione». Qui si turbò la mente del vecchio, e lo invase terrore: sopra le curve membra d’orror s’arricciarono i peli, e sbigottito stette. Ma presso gli venne il Benigno, le mani prese al vecchio, gli volse cosí la parola: «0 padre, dove spingi cosí le tue mule e i cavalli per la divina notte? Già dormono tutti i mortali. Timore tu non hai dei feroci guerrieri d’Acaia, che son vicini a te, che t’odiano e son tuoi nemici? Se nella notte negra veloce qualcuno ti vede, portar tanta ricchezza, che cosa tu fare potresti? Giovine tu non sei più, troppo vecchio è costui che ti segue, per tener fronte ad un uomo, se primo venisse a investirvi. Ma io farti non vo’ nessun male; e se altri t’assalta, dare ti vo’ soccorso: ché tu rassomigli a mio padre». E a lui rispose allora con queste parole il vegliardo: «E tutto vero quello che dici, figliuolo diletto; ma sopra noi la mano tien pure qualcun dei Celesti, che in tale viatore mi diede ch’io qui m’imbattessi, quale tu sei, benigno, mirabil di viso e d’aspetto; e saggio sei di mente, figliuolo di genti beate». E l’Argicida a lui rispose che l’anime guida: «Si, le parole che dici son tutte opportune, buon vecchio: ma questo ancora dimmi, rispondimi senza menzogna: tanti tesori si belli, li rechi tu forse lontano, presso straniere genti, ché lì ti rimangan sicuri, oppur la sacna Troia lasciate oramai tutti quanti, per il timore, perché spento è l’uomo più prode di tutti, il figlio tuo? Ché certo non era egli scarso alla guerra». E il vecchio Priamo a lui rispose con queste parole: «O buono, e chi sei tu? Da che genitori sei nato? Con che dolcezza parli del mio sventurato figliuolo!». E l’Argicida a lui rispose, che l’anime guida: «D’Ettore divo tu mi chiedi, buon vecchio, e mi tenti: io molte volte, nella battaglia che prova le genti, l’ho con questi occhi veduto, quando egli, spingendo alle navi gli Achei, li sterminava, struggeva, col lucido bronzo. Ad ammirarlo noi stavamo; ché in collera Achille contro l’Atride, a noi proibiva che andassimo a zuffa: ch’io suo scudiere sono, qui sola una nave ci addusse. Io dei Mirmidoni sono, mio padre è Polittore: è ricco di molti beni, ed ha sei figli, ed il settimo io sono. Tratto fra questi a sorte, venuto qui sono alla guerra. E dalle navi al piano mòvo ora: ché all’alba dimani gli Achivi occhi rotondi daranno l’assalto alla rocca, ché troppo a lungo inerti restare, li tedia; e tenere più non li possono i re degli Achei: tanto braman la pugna». E Priamo, il re che un Nume sembrava, cosí gli rispose: «Se tu sei veramente scudiere d’Achille Pelide, esponi tutto a me, senza nulla nascondermi, il vero: presso le navi ancora si trova mio figlio, od Achille l’ha fatto a brani già con la spada, l’ha dato ai suoi cani?». E l’Argicida che l’anime guida, cosí gli rispose: «No, divorato ancora non l’hanno né cani né uccelli, ma giace ancora, o vecchio, vicino alla nave d’Achille, tuttor presso alla tenda. Già sorte son dodici aurore, e il corpo ancor marcito non è, né lo vorano i vermi che pur rodono i corpi degli uomini spenti in battaglia. Sempre, d’intorno al corpo del suo prediletto compagno, appena è l’alba, senza pietà lo trascina il Pelide; ma pur non lo deturpa: veder lo potrai da te stesso, come rorida ancora la salma, e detersa dal sangue, né punto lorda; e tutte si sono richiuse le piaghe, quante ne aveva; ché molti su lui spinto avevano il ferro. Tanto del figlio tuo si dàn cura i Beati Celesti, sebbene egli sia morto: tanto essi l’amavan d’amore». Cosí diceva; e, lieto, cosí gli rispose il vegliardo: «O figlio, è saggia cosa le debite offerte ai Celesti porgere. Il figlio mio, quando era ancor vivo, oblioso non fu mai, nella reggia, dei Numi signori d’Olimpo, perciò, pure nel fato di morte, han memoria di lui. Orsù, dalle mie mani tu or questa coppa gradisci, e me proteggi, e guida mi sii, con l’aiuto dei Numi, sin ch’io presso la tenda d’Achille Pelide sia giunto». E l’Argicida che l’anime guida, cosí gli rispose: «Me che son giovine, o vecchio, tu tenti; né farmi convinto potrai che accetti, senza che Achille lo sappia, il tuo dono. Possibile non è, tanto io lo rispetto e Io temo, ch’io Io defraudi; e poi, potrebbe colpirmi sciagura. Ma per guidare te, verrei sino ad Argo l’eccelsa, sopra una rapida nave movendo, movendo anche a piedi: niun, s’io ti guido, potrà sprezzarti né offenderti, o vecchio». E, cosí detto, il Nume benigno balzò sopra il carro, rapidamente, in pugno stringendo la sferza e le briglie. ed impeto gagliardo spirò nei cavalli e le mule. Hermes infonde sonno alle guardie, e apre il recinto che conduce alla tenda di Achille; poi svela a Priamo la sua vera identità e si congeda. Priamo entra nella tenda di Achille e lo supplica di ridargli il corpo di Ettore. Achille ne ha pietà, riconoscendo che ha molto sofferto. Acconsente e fa preparare la salma. Quando alle torri e al fosso poi giunsero, presso le navi, dove da poco stavan le guardie, allestendo la cena, sonno su tutti versò l’Argicida che l’anime guida, e d’improvviso schiuse le porte, rimosse le sbarre, e Priamo introdusse, col carro e coi fulgidi doni. Cosí giunsero presso la tenda d’Achille Pelide. Alta era questa. Al signore l’aveano i Mirmidoni estrutta, tronchi tagliando d’abete: di sopra costrussero il tetto, con le villose canne che avevan recise nei prati. E attorno un gran recinto levaron pel loro signore, tutto di fitti pali: chiudeva la porta una sbarra sola d’abete: in tre la solevano spinger gli Achivi; ed erano anche in tre quando aprire volevan la porta, gli altri Mirmidoni: Achille bastava a sospingerla ei solo. E allora Ermète, il Nume benevolo, al vecchio la schiuse, e fece entrare i doni fulgenti pel divo Pelide, e giù dal cocchio a terra balzò, tali detti gli volse: «O vecchio, io sono a te venuto d’Olimpo: immortale io sono, Ermète: a te per guida mandato m’ha Giove. Ma ora io me ne vo di nuovo: al cospetto d’Achille io non verrò: sarebbe davvero odioso, che un Nume cosi palesemente largisse favori a un mortale. Ma entra, e abbraccia tu le ginocchia al Pelide, e pel padre pregalo, e per la madre divina dal fulgido crine, e pel suo figlio, se mai potessi commovergli il cuore». Poi ch’ebbe detto cosi, di nuovo si volse all’eccelsa vetta d’Olimpo, Ermète. E Priamo balzò giù dal carro al suolo, e Idèo lasciò. Rimase egli quivi, a tenere muli e cavalli; e il vecchio andò difilato alla tenda dov’era Achille, stirpe di Superi. E qui lo rinvenne, ed i compagni eran tutti lontani da lui. Due soltanto, Automedonte l’eroe, con Àlcimo prole di Marta, s’affaccendavano. Aveva da poco lasciata la cena, i cibi, le bevande: la mensa era ancora imbandita. Senza esser visto, giunse qui Priamo; e, fattosi presso, strinse, abbracciò le ginocchia d’Achille, le mani omicide, terribili baciò, che trafitti gli avean tanti figli. Come allorché sopra un uomo s’abbatte la grave sciagura, che in patria un uomo uccise, che giunge fra genti straniere, presso un possente signore: lo guardano tutti stupiti: similemente Achille stupí, come Priamo vide. Stupirono anche i due, guardandosi l’uno con l’altro. E Priamo, ad Achille parlando, cosí favellava: «Del padre tuo ricordati, Achille simile ai Numi, annoso al par di me, su la soglia di trista vecchiezza; ed i vicini, forse, che intorno gli stanno, anche lui crucciano, e alcuno non v’è che allontani da lui la sciagura. Ma pure, quegli, udendo parlare di te che sei vivo, certo s’allegra nel cuore, sperando, ogni giorno che spunta di rivedere il figlio diletto che torni da Troia, lo non ho che sventure: ché tanti valenti figliuoli ho generato in Troia, né alcuno più vivo mi resta. Cinquanta, io, si, n’avea, quando giunsero i figli d’Acaia, che dieci e nove a me nati eran dal grembo d’Ecùba, avean gli altri le donne concetti nell’alto palagio. Ai più di loro, Marte feroce fiaccò le ginocchia: quello ch’era da solo presidio alla rocca e a noi tutti, tu l’uccidesti or ora, mentre ei combattea per la patria, Ettore: ed ora io vengo d’Acaia alle navi per lui, per riscattarlo da te, recandoti doni infiniti. Achille, abbi rispetto dei Numi, ricorda tuo padre, abbi di me compassione: di lui molto più n’ho bisogno, ché io patito ho quanto niun altri patì dei mortali, io che alle labbra appressai la mano che il figlio m’uccise». Cosí disse. E una brama gl’infuse di pianger pel padre. La man gli prese, e il vecchio da sé dolcemente respinse. E, nei ricordi immersi, l’uno Ettore prode piangeva dirottamente, steso dinanzi ai piedi d’Achille: ed il Pelide anch’egli piangeva, or pensando a suo padre, ora a Pàtroclo; e tutta suonava di pianto la casa. Ma poscia, quando Achille divino fu sazio di pianto, e via dal seno, via dalle membra ne sparve la brama, presto balzò dal seggio, levò di sua mano il vegliardo, ch’ebbe pietà del capo canuto, del mento canuto, e a lui si volse, queste veloci parole gli disse: «O poveretto, molti dolori ha patito il tuo cuore. Ma come, dunque, solo venire, alle navi d’Acaia osasti ora, al cospetto dell’uomo che tanti tuoi figli trafisse, e tanto prodi? Davvero, il tuo cuore è di ferro! Ma via, su questo trono siedi ora, e, per quanto crucciato, lasciamo che la doglia riposi per ora nel seno, poiché nessun vantaggio deriva dal gelido pianto: ché ai miseri mortali tal sorte largirono i Numi: vivere sempre in pena: solo essi son privi d’affanni. Perché sopra la soglia di Giove son posti due dogli dei loro doni: due di tristi, ed un terzo è di buoni. E quegli per cui Giove, del folgore sire, li mischi, or nella mala sorte s’imbatte, ora poi nella lieta. Ma quello a cui soltanto largisce i funesti, lo aggrava d’ogni onta; e cruda fame lo incalza per tutta la terra, e va randagio, e onore né uomo gli rende, né Nume. Cosí dièro a Pelèo, da quando egli nacque, i Celesti fulgidi doni: il primo fra gli uomini egli era: ricchezza avea, felicità, dei Mirmidoni aveva l’impero, e a, lui ch’era mortale, concessero sposa una Diva. Ma il Nume, ai beni un male gli aggiunse: ché a lui nella casa non nacquero figliuoli che fossero eredi del regno. Un figlio solo, fuori di tempo, gli nacque, né quando vecchio sarà, di lui potrà cura avere: ché lungi a Troia io me ne sto, te vecchio, crucciando, e i tuoi figli. Ed anche te sappiamo che un giorno eri, o vecchio, felice. Fra quante genti nutre la sede di Màcare, Lesbo, e sopra noi la Frigia, col pelago d’Elle infinito, tu, dicono, eri, o vecchio, per figli e ricchezze beato. Ora, poiché gli Uranii t’inflissero questa sciagura, e guerre e stragi hai sempre di genti d’intorno alla rocca, tollera; e il cuore tuo non affligger di pianto perenne. Nulla guadagnerai, piangendo il tuo figlio diletto, non lo resusciterai: chiamerai qualche nuovo malanno». E a lui Priamo, il sire che un Nume pareva, rispose: «No, non volere ch’io segga, progenie di Superi, mentre Ettore giace insepolto vicino alla tenda; ma presto scioglilo, ché questi occhi lo vedano; e i doni tu accetta, ch’io t’ho recati, tanti. Goderli tu possa, e alla patria tua ritornare, poiché compassione di me prima avesti, si ch’io vivessi, e ancora godessi la luce del sole». Ma bieco lo guardò, cosí gli rispose il Pelide: «Vecchio, non fare, adesso, ch’io m’irriti. A scioglier tuo figlio sono disposto: a me venuta è, mandata da Giove, la madre mia diletta, la figlia del vecchio del mare. Ed anche te, so bene, né, Priamo, tu mi deludi, che qualche Nume t’ha guidato alle navi d’Acaia, ché non avrebbe osato venire alcun uomo, per quanto giovane fosse, al campo: sfuggir non poteva alle guardie, né smover facilmente la sbarra potea della porta. Non voler dunque, o vecchio, più oltre eccitare il mio cuore; ché io disobbedire non debba al comando di Giove, e te scacciar, sebbene tu supplice sei, dalla tenda». Cosí diceva Achille. E il vecchio obbedí sbigottito. Ed il Pelide balzò dalla tenda, che parve un leone: solo non già: ché insieme moveano con lui gli scudieri, Automedonte, l’eroe, con Àlcimo, ch’erano entrambi cari su tutti, dopo la morte di Pàtroclo, al sire. Essi di sotto al giogo disciolser le mule e i cavalli, condusser nella tenda l’araldo del vecchio sovrano, lo fecero sedere. Dal carro di solida ruota tolsero poscia il riscatto ricchissimo d’Ettore. Solo lasciaron due mantelli, lasciarono un càmice fino, perché potesse il corpo coprire portandolo a casa. Quindi, chiamate le ancelle, die’ ordine ch’unto e lavato fosse; ma lungi: ché Priamo veder non dovesse suo figlio, ché poi, crucciato in cuore frenar non potesse lo sdegno, vedendo il figlio, e Achille dovesse a sua volta crucciarsi, e morte dare al vecchio, frustrare di Giove i comandi. Or, poi che l’ebber lavato, cosperso con olio le ancelle, gli ebbero cinto alle membra un manto e una tunica bella, allora Achille stesso lo prese e sul letto lo pose, ed i compagni insieme con lui lo portaron sul carro. E pianse Achille allora, chiamando il compagno diletto: «Pàtroclo, non adirarti con me, se tu vieni a sapere anche laggiù nell’Ade, che Ettore simile ai Numi resi a suo padre; ché dato me n’ha non indegno riscatto. Anche di questi doni la parte avrai tu che ti spetta». Achille fa preparare la cena, e poi un letto per Priamo. E gli chiede quanti giorni dureranno i funerali di Ettore; Priamo dice che dureranno 11 giorni, e il 12esimo torneranno alla zuffa. Per tutto quel periodo Achille promette che non attaccherà i Troiani. Così disse. E alla tenda di nuovo tornato, il divino Pelide, sul trono istoriato sede’ donde prima era surto, dal Iato opposto a Priamo, cosí favellando al vegliardo: «Vecchio, tuo figlio è sciolto, cosí come tu pur bramavi, sopra la bara giace. Diman, come sorga l’aurora, quando lo porterai, lo vedrai. Si pensi ora alla mensa. Niobe dal crine bello, anch’essa pensava a cibarsi, a cui pur, nella casa morti eran ben dodici figli, sei giovanette, e sei garzoni negli anni fiorenti. Le uccise i figli Apollo, coi dardi dell’arco d’argento, ch’era adirato con Niobe: Artèmide uccise le figlie perché Niobe osò sé stessa uguagliare a Latona. Disse che questa avea generati due figli, essa molti: e quelli, solo in due, i suoi sterminarono tutti. Giacquero nove giorni cadaveri; e alcuno non c era per seppellir: ché in pietra le genti avea Giove converse: li seppellirono infine nel decimo giorno gli Olimpi. Ma, sazia infin di pianto, del cibo ebbe anch’essa ricordo. Ora, conversa in rupe, fra gioghi deserti di monti, nel Sipilo, ov’è fama che sia delle Ninfe la cuna, che intorno all’Achelòo contesson, divine, le danze, pur nella pietra, soffre la doglia voluta dai Numi. Dunque, a nutrirci anche noi pensiamo, o divino vegliardo. E piangere il tuo figlio diletto potrete più tardi, quando in Troia l’avrai condotto; e sarà lungo pianto». Disse. E sgozzò, balzato sui piedi, una pecora bianca. La scorticarono poi, l’acconciarono bene i compagni, fatta con arte a pezzi, l’infissero poi negli spiedi, la fecero arrostire con cura, allestirono tutto. Automedonte, dentro canestri eleganti, dispose sopra la tavola il pane: divise le carni il Pelide. Su le vivande imbandite gittarono tutti le mani: e poi che fu placata la brama del bere e del cibo, Priamo, di Dàrdano figlio, mirava, stupendone, Achille, quale era, e quanto grande, che un Nume sembrava a vederlo. E Achille anch’ei guardava, stupito, di Dàrdano il figlio, il bello aspetto suo vedendo, ascoltandone i detti. E poi che furon sazi cosí di guardarsi l’un l’altro, Priamo a parlare prese per primo, che un Nume sembrava: «Lascia che a letto io vada, progenie di Numi: ché presto prendiam ristoro entrambi, sopiti nel sonno soave: ché non si chiusero mai sotto í miei sopraccigli questi occhi, da quando è per tua mano caduto il mio figlio diletto; ma sempre gemo, sempre mi cruccio d’innumeri affanni, nel mio cortile sempre mi voltolo fra la lordura. Invece, adesso ho pane mangiato, purpureo vino m’è per la gola sceso: finora non mero pasciuto». Disse. E ai compagni e alle ancelle die’ ordine allora il Pelide che sotto il portico un letto ponessero, e sopra, le coltri belle, di porpora; e sopra stendessero ancora i tappeti ed i villosi mantelli, ché il vecchio potesse coprirsi. Quelle, stringendo in pugno le fiaccole, uscir dalla tenda, e con sollecita cura fùr sùbito pronti due letti. E disse allora Achille, di téma pungendogli il cuore: «Dormi qui fuori, o caro vegliardo, ché alcun degli Achivi giunger non debba qui, di quelli che son consiglieri. che qui vengono a farmi proposte, ché n’hanno diritto. Se nella buia notte qualcuno di lor ti vedesse, lo ridirebbe al pastore di genti Agamènnone; e indugio nascer potrebbe allora che tu riscattassi la salma. Ma questo dimmi adesso, rispondimi senza menzogna, per quanti giorni pensi che debba durare l’esequie d’Ettore; e anch’io frenerò, tratterrò dalla pugna le genti». E Priamo ad esso, il veglio che un Nume sembrava, rispose: «Se d’Ettore divino tu vuoi ch’io provveda al sepolcro, questo dovresti fare, se farmi tu vuoi cosa grata. Tu sai che nella rocca siam chiusi, e lontana è la selva da trasportare legna, ché invade terrore i Troiani. Vorrei che nove dì nella casa durasse il compianto: nel decimo vorrei seppellirlo, e alle genti un banchetto funebre offrire: l’undecimo il tumulo alzar su la salma. il dodicesimo poi, torneremo, se occorre, alla zuffa». E Achille, eroe divino, dai piedi veloci, rispose: «Ed anche questo, sia, vecchio Priamo, come tu brami: sospenderò pel tempo che tu m’hai richiesto, la guerra. E, cosí detto, schiuse la mano, e la destra del vecchio strinse, perché non dovesse nel seno restargli timore. E della casa cosí nel vestibolo presero sonno, l’araldo, e Priamo, entrambi volgendo assennati pensieri. E’ notte e tutti dormono. Ma Hermes sveglia Priamo e lo invita a fuggire via, perché è troppo pericoloso per lui passare la notte tra gli Achei. Lo aiuta ad allontanarsi inosservato. Cassandra è la prima che vede avvicinarsi suo padre Priamo con il corpo di Ettore. Ecuba e Andromaca lo piangono. E nel recesso Achille dormi della solida tenda, e accanto a lui la figlia di Brise dall’omero bianco. E tutti gli altri Dei, tutti gli uomini d’arme coperti, dormian la lunga notte, domati dal dolce sopore. Ma non aveva il Sonno ghermito il benevolo Ermète, che con la mente andava cercando in che modo potesse Priamo lungi dai legni recar, deludendo i custodi. E a lui sul capo stette, cosí la parola gli volse: «0 vecchio, al tuo periglio non pensi, che ancora tu dormi fra genti a-te nemiche? Benigno fu adesso il Pelide: hai riscattato adesso, con molti tuoi doni, tuo figlio; ma per aver te vivo, riscatto tre volte maggiore dare dovrebbero i tuoi figliuoli che vivono ancora, se ti sapessero qui Agamènnone e tutti gli Achivi». Cosí diceva. E il vecchio destò, sbigottito, l’araldo. Al giogo strinse Ermète le mule e i cavalli, e pel campo velocemente egli stesso li spinse; né alcuno li vide. Ma quando al passo poi pervenner del rapido fiume, del vorticoso Xanto, figliuolo di Giove, immortale, Ermète si parti di qui verso i picchi d’Olimpo. Sopra la terra tutta l’Aurora dal peplo di croco già s’effondeva; ed essi spingean nella rocca i cavalli con gemiti, con pianto: la salma portavano i muli. Né alcun altro li vide, né uomo né donna elegante; ma solamente Cassandra, che bella era come Afrodite. Pergamo ascesa, vide da lungi il suo padre diletto venir sul cocchio, e seco l’araldo di voce possente, e vide Ettore sopra la bara, tirato dai muli. E un ululo levò, mandò grido per tutta la rocca: «Venite tutti voi, Troiani e Troiane, e vedete Ettore! Un di’ vi piaceva vederlo tornar dalla pugna, ch’era della città l’amore, e del popolo tutto!». Cosí diceva. E niuno rimase, né uomo, né donna, nella città; ché piombò su tutti dolore infinito; e su la porta incontrarono il re che la salma recava. Prima la sposa sua diletta e la nobile madre, balzate sopra il carro, la salma diletta abbracciando, si Iaceravan la chioma: la turba assisteva piangendo. E qui l’intero giorno, sin quando giungesse il tramonto, Ettore avrebbero pianto, gemendo dinanzi alle porte, se non avesse il vecchio parlato dal carro alle turbe: «Fatemi largo, ch’io passi coi muli: satolli di piànto farvi potrete, quando condotto l’avrò nella reggia». Cosí disse. E la turba s’apri, fece largo al suo carro. Giunti alla reggia eccelsa, deposero quindi la salma su traforato letto, chiamaron qui presso cantori per intonare i lagni. Levaron con flebile voce quelli la funebre nenia, seguiano coi lagni le donne. Lamenti e cerimonia funebre E Andromaca fra loro levò per la prima il lamento, fra le sue mani il capo stringendo del prode suo sposo: «Dai giovani anni, o sposo, tu parti, e me vedova lasci entro la casa: il bimbo tu lasci, che ancóra non parla, che generammo tu ed io, sventurati! Né credo ch’ei giunga a giovinezza: ché prima sarà dalle cime distrutta questa città, ché morto sei tu che a difenderla stavi, la difendevi, guardavi le spose ed i teneri figli. Esse dovranno ben presto partir su le concave navi, ed io fra loro. E tu dovrai pur seguirmi, o mio figlio, dove ti sarà forza piegarti a un indegno lavoro, penare innanzi a un duro padrone; o qualcun degli Achivi ti ghermirà, scaglierà, morte orribile, giù dalle torri, crucciato perché forse tuo padre gli uccise un fratello, oppure il padre, o un figlio: ché molti guerrieri d’Acaia d’Ettore sotto ai colpi caduti, già morsero il suolo, ché nella pugna funesta non era, no, dolce, tuo padre. Perciò nella città lo piangono adesso le turbe. Ettore, ai tuoi genitori tu lasci ineffabile pianto. ma più che a tutti, a me rimangono affanni funesti: ché tu non mi porgesti la man dal tuo letto di morte, non mi dicesti una saggia parola di cui ricordarmi potessi notte e giorno, versando l’amaro mio pianto!». Cosí dicea piangendo, gemevano tutte le donne. Ed Ecuba fra loro levava per prima il lamento: «Ettore, al cuore mio diletto su tutti i miei figli, sinché tu fosti vivo, tu fosti diletto ai Celesti: essi si diedero cura di te, pur nel fato di morte. Gli altri miei figli, Achille dai piedi veloci, vendeva, come li avesse presi, di là dallo sterile mare, condotti a Samo, ad Imbro, ai lidi nebbiosi di Lemno: te, poi che t’ebbe tolta la vita col lucido bronzo, ti trascinò lungamente di Pàtroclo intorno alla tomba, che tu spengesti: e pure cosí non gli ese la vita. Ed ora, tutto fresco mi stai nella casa, ed intatto, simile in tutto ad uomo che Apollo dall’arco d’argento abbia con le sue frecce benigne colpito ed ucciso». Disse piangendo cosi, suscitando lamenti infiniti. Elena terza poi, fra loro levava il lamento: «Ettore, al cuore mio diletto fra tutti i cognati, — ché Paride è mio sposo, che sembra all’aspetto un Celeste, egli m’addusse a Troia: cosí fossi morta quel giorno! — è questo l’anno già ventesimo ch’io sono a Troia, da che di là partii, lasciando la terra materna, né udito ho mai da te parola scortese o d’oltraggio; anzi, se mai qualche altro rampogna mi fe’ nella reggia, fratello tuo, sorella, cognata, o mio suocero stesso, — ché mite ognor con me mio suocero fu come un padre — tu con le tue parole solevi esortarlo e frenarlo, con la mitezza tua, le tue concilianti parole. Perciò col cruccio in cuore te lagrimo adesso, e me stessa. Perché niun altri c’è nell’ampia città dei Troiani mite e benigno con me, ché anzi mi aborrono tutti». Cosí dicea piangendo, gemeva la turba infinita. E il vecchio Priamo, queste parole al suo popolo volse: «Troiani, alla città recate ora legna: ché Achille quando mi congedò, promise che a darci molestia non penserà, se prima non brillino dodici aurore». Disse. Ed ai carri quelli giovenchi aggiogarono e muli, e innanzi alla città s’adunarono sùbito tutti. Per nove dì dalla selva recarono legna infinite; ma quando apparve poi, fulgente, la decima aurora, Ettore prode allora portaron piangendo, la salma a sommo della pira deposero, accesero il fuoco. Quando l’Aurora appari mattiniera, ch’a dita di rose, d’Ettore intorno al rogo si venne accogliendo la gente. E quando intorno poi qui furono tutti, e raccolti, spensero prima tutta la pira col fulgido vino, dovunque spinta s’era la forza del fuoco, poi l’ossa bianche, versando pianto, raccolser fratelli e compagni, e per le loro guance cadevano lagrime fitte. Poi dentro un’urna d’oro racchiusero il cuore, e sovr’essa morbidi, a ricoprirla, disteser purpurei pepli. Dentro una cava fossa di poi la deposero; e sopra immani e fitte pietre vi posero, e il tumulo in fretta poi v’innalzarono. Intanto, vegliavano in giro le scolte, se mai prima del tempo venisser gli Achivi all’assalto. Poi, quando il tumulo fu levato, tornarono indietro, e celebrarono tutti raccolti, un solenne banchetto, di Priamo entro la reggia, del sire nutrito dai Numi. D’Ettore questa fu, domator di corsieri, l’esequie. {Iliade, libro XXIV – traduzione di Ettore Romagnoli}