Una luce nel labirinto

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Non arrendersi mai.

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Non sottomettersi mai.

martedì 4 aprile 2023

Sentenza Cassazione. Azione partigiani in via Rasella a Roma, legittimo atto di guerra.

Cassazione penale, sez.1 18 marzo 1999( c.c 23febbraio 1999) Pres. Teresi- Rel . MabelliniP.M. (Parz. Conf.)- Bentivegna e altri, ricorrenti. Diritto penale militare VIA RASELLA: LEGITTIMA AZIONE DI GUERRA Cassazione penale, Sez. I, 18 marzo 1999 (c.c. 23 febbraio 1999) - Pres. Teresi - Rel. Mabellini - P.m. (parz. conf.) - Bentivegna e altri, ricorrenti Il fatto commesso da un gruppo di partigiani in via Rasella a Roma il 23 marzo 1944 ai danni del battaglione di polizia tedesca occupante la città, per la qualità di chi lo commise, per l’obiettivo contro cui era diretto, e per la finalità che lo animava rientra, in tutta evidenza, nell’ambito di applicazione del d.lgs. lgt. 12 aprile 1945, n. 149, che considera azione di guerra ogni operazione compiuta dai patrioti per la necessità di lotta contro tedeschi e fascisti nel periodo dell’occupazione nemica. Omissis. - I - Con “ordinanza” 16 aprile 1998 il G.i.p. del Tribunale di Roma disponeva l’archiviazione del procedimento a carico di Bentivegna Rosario, Capponi Carla e Balsamo Pasquale, avente ad oggetto l’ipotesi del reato di strage prevista dall’art. 422 c.p. in relazione all’attentato compiuto in Roma, via Rasella, il 23 marzo 1944. Il procedimento era stato instaurato su denuncia di prossimi congiunti di civili rimasti uccisi nell’attentato (Iacquinti e Zuccheretti), o uccisi dai Tedeschi alle “Fosse Ardeatine” (Gigliozzi), nonché da Forti Giorgio quale “Segretario Generale Nazionale del Comitato di difesa del cittadino”. Chiesta dal P.m. l’archiviazione, per estinzione del reato in virtù dell’amnistia disposta con d.P.R. 5 aprile 1944, n. 96, trattandosi di atti commessi “per motivi di guerra” (nel senso di compiuti al fine di liberare l’Italia dall’occupazione tedesca, ma non qualificabili come “atti di guerra” in senso stretto) ed oppostesi le parti offese, il G.i.p. aveva ordinato ulteriori indagini, escludendo la notorietà dell’episodio, quanto alle concrete modalità con le quali esso si era svolto, e ritenendo necessario accertare se la strage corrispondesse al fine ritenuto dalle ricostruzioni storiche ovvero a meno nobili ragioni relative ai contrasti tra i gruppi politici che componevano il fronte di liberazione nazionale. In esito alle indagini, il G.i.p., con il provvedimento qui impugnato, ricostruiva il fatto, ed escludeva che esso potesse rientrare tra le azioni di guerra non punibili, indicate dal d.lgs. lgt. n. 194 del 1945 come “gli atti di sabotaggio, le requisizioni ed ogni altra operazione compiuta dai patrioti per la necessità di lotta contro i tedeschi ed i fascisti nel periodo dell’occupazione nemica”. Osservava che la qualificazione del fatto come “atto legittimo di guerra” attribuita dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite civili (sentenza n. 3053 del 19 luglio 1957) non aveva valore nel procedimento penale, e che, trattandosi di reato che offende beni personalissimi dell’uomo, non era applicabile la “speciale causa di non punibilità” prevista dal d.lgs. lgt. 12 aprile 1945, n. 194. Ricordava che gli artt. 174 e 175 c.p.m.g. puniscono i metodi ed i mezzi di guerra vietati dalla legge o dalle convenzioni internazionali, sottolineando che, in caso di interpretazione diversa, mancherebbe di significato l’amnistia emanata, relativa a “qualsiasi tipo di reato”. Escludeva pertanto che il fatto potesse qualificarsi “atto legittimo di guerra”, e ravvisava invece tutti gli estremi oggettivi e soggettivi del reato di strage. Riteneva, sulla base degli atti di indagine disposti, che l’attentato, nell’intenzione degli agenti, fosse stato progettato ed attuato sicuramente a fini patriottici indicati dal d.lgs. lgt. n. 96 del 1944, e disponeva di conseguenza l’archiviazione degli atti dichiarando estinto il reato per amnistia, in conformità a quanto richiesto sin dall’inizio dal P.m. Osservava poi che nella fase delle indagini preliminari non è consentita l’applicazione dell’art. 129 comma 2 c.p.p., con esame del merito, riservato al processo in senso proprio, e che quindi il giudice era esonerato “da ogni valutazione circa l’applicabilità o meno alla presente fattispecie delle disposizioni di cui al d.lgs. lgt. 12 aprile 1945, n. 194 sulla non punibilità delle azioni di guerra dei patrioti nell’Italia occupata”; aggiungeva da ultimo: “Dopo tutto quanto sin qui esposto, ci si potrà forse chiedere alla fine se quel che avvenne in via Rasella il 23 marzo 1944 sia stato veramente necessario od anche soltanto opportuno, avuto riguardo alla prevedibilità di una spietata reazione da parte dei tedeschi. Ad avviso del decidente, però, tali questioni, sulle quali si sono insistentemente soffermate le parti offese, se possono trovare legittimo ingresso nell’ambito di un dibattito etico, politico e storico, non possono assumere rilevanza giuridica alcuna ai fini del presente procedimento. Né, d’altro canto, è consentito al giudice esprimere valutazioni che non siano estremamente pertinenti al ‘thema decidendum’ ad esso assegnato”. II - Hanno proposto ricorso in cassazione Balsamo Pasquale, Bentivegna Rosario e Capponi Carla, partecipi all’attentato, deducendo i seguenti motivi, approfonditi dalla memoria difensiva successivamente depositata. 1) Il provvedimento impugnato doveva considerarsi abnorme, poiché il giudice, prima di affermare di non poter scendere nel merito, come consentito nella fase dibattimentale dall’art. 129 comma 2 c.p.p., e di essere esonerato dal valutare l’applicabilità alla specie del d.lgs. lgt. 12 aprile 1995, n. 194 sulla non punibilità delle azioni di guerra dei patrioti nell’Italia occupata, si era profuso sul tema, giungendo alla conclusione che l’attentato di via Rasella G GIURISPRUDENZA Decisioni commentate 737 DIRITTO PENALE E PROCESSO n. 6/1999 non poteva essere qualificato come atto legittimo di guerra, sulla base di una discutibilissima analisi delle disposizioni di diritto internazionale e della normativa post-bellica. La costruzione irrituale, fondata anche su precedenti giurisprudenziali distorti, qualificava l’ordinanza tra i cosiddetti “atti extra-vagantes” ricorribili per cassazione. 2) Le valutazioni espresse dal G.i.p. sulla non configurabilità dell’attentato di via Rasella quale atto di guerra, con riferimento al codice penale militare di guerra, non erano di sua competenza. La legittimità dell’atto era già stata comunque ritenuta in altre sentenze, tra cui quella emessa dalle Sezioni Unite civili della Cassazione, nella quale si era correttamente considerato che l’assoluta discrezionalità dell’attività bellica non consente al giudice alcun controllo diverso da quello relativo alle finalità dell’atto. 3) Il provvedimento di archiviazione non può mai contenere accertamenti pregiudizievoli alla persona sottoposta alle indagini o ai terzi, principio questo conforme all’art. 24 della Costituzione e disatteso nel caso in esame. 4) Dovrebbe altrimenti dichiararsi costituzionalmente illegittimo l’art. 129 comma 2 c.p.p., in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui non ne è consentita l’applicazione al giudice al quale il p.m. abbia richiesto l’archiviazione degli atti. Nella memoria difensiva l’eccezione di incostituzionalità veniva sviluppata in modo diverso, con riferimento all’art. 411 c.p.p., “in relazione agli artt. 3/1° comma, 24/2° comma, 111/2° comma Cost. per la parte in cui applica le disposizioni di cui all’art. 409 1° comma c.p.p., e quindi consente l’archiviazione degli atti anche nel caso in cui l’applicazione dell’amnistia sia subordinata ad un procedimento giurisdizionale di accertamento costitutivo nel quale la valutazione della sussistenza nel fatto di determinate circostanze (nella specie, la particolare finalità patriottica del fatto) e del loro valore rappresenta l’intervento necessario ed inderogabile della scienza e della volontà del giudice che contribuisce a rendere concreta ed effettiva la realtà estintiva astrattamente delineata dal legislatore”. Si rileva la disparità di trattamento tra i cittadini che a norma dell’art. 129 c.p.p. sono ammessi a dimostrare l’esistenza delle condizioni di cui al 2° comma dello stesso articolo, e perciò ad ottenere eventualmente una sentenza di assoluzione o di improcedibilità, e ad impugnare, se del caso, la sentenza stessa, in conformità al diritto inviolabile di difesa ed al principio di ricorribilità delle sentenze, e coloro che restano privati di tutti tali diritti e facoltà in forza di un sommario procedimento di archiviazione, che tuttavia motiva il suo aspetto decisorio con l’apodittica affermazione relativa all’esistenza del reato. L’incostituzionalità dell’art. 411 c.p.p. è eccepita nella memoria, con riferimento all’art. 77 della Costituzione, anche sotto il diverso profilo della violazione dell’art. 2 n. 50 della legge delega n. 81 del 1987, che prevede la possibilità dell’archiviazione solo per manifesta infondatezza della notizia di reato, per essere ignoti gli autori dello stesso o per improcedibilità dell’azione penale, mentre le due fattispecie sono richiamate nella direttiva 52 fra i casi per i quali può essere pronunziata sentenza di non doversi procedere ai sensi dell’art. 425 c.p.p., come modificato dalla l. 8 aprile 1993, n. 105. III - Il Procuratore Generale presso questa Corte nella propria requisitoria scritta disattende la tesi difensiva concernente l’abnormità del procedimento impugnato. Considera che “se non appare contestabile che il G.i.p., pur invocando principio del tutto diverso, si sia di fatto lasciato andare a giudizi di merito, peraltro “moralmente” sfavorevoli agli indagati, questa operazione - sui cui contenuti opinabili dal punto di vista giuridico e storico è opportuno in questa sede non soffermarsi per non introdurre ulteriori motivi fuorvianti - è stata attuata per così dire andando “oltre” quanto fosse per forma e sostanza necessario a dare concrete risposte alla richiesta di archiviazione. Questa sovrabbondanza per la sua “smaccata” ultroneità non è capace di comunicare i suoi “vizi” all’organica - e chiaramente sussistente - compatibilità con le premesse poste dal P.m. ossia al suo contenuto decisorio”. Ritiene manifestamente infondata la eccezione di costituzionalità proposta, considerando che proprio le censure dei ricorrenti sull’uso distorto del principio di cui all’art. 129 comma 2 fatto nell’ordinanza indicano come non sia verificabile in astratto la dedotta disparità di trattamento. Conclude per l’inammissibilità del ricorso proposto. IV - Ciò premesso, la Corte osserva quanto segue. 1) Il decreto di archiviazione disciplinato dagli artt. 408 - 411 c.p.p. è un provvedimento concepito dal legislatore come anteriore all’esercizio dell’azione penale, correlato alla insussistenza degli estremi per esercitarla, che in nessun modo può pregiudicare gli interessi della persona indicata come responsabile nella notizia di reato, o l’interesse della pubblica accusa a riaprire le indagini nel caso previsto dall’art. 414 c.p.p. Per tale sua natura, di provvedimento in qualche modo “neutro”, non ne sono previsti mezzi d’impugnazione. 2) L’unica forma d’impugnazione consentita contro il decreto di archiviazione è connessa alla sua eventuale abnormità, in virtù della giurisprudenza che ammette il ricorso per cassazione, a norma dell’art. 111 della Costituzione, nei confronti del provvedimento caratterizzato da vizi “in procedendo” o “in iudicando” del tutto imprevedibili per il legislatore, il quale proprio per l’estraneità dell’atto al sistema legislativo non ha previsto contro di esso alcun mezzo d’impugnazione (sul punto, tra le altre, Cass., Sez. III, 8 agosto 1996, Cammarata, RV. 206058). Secondo le Sezioni Unite di questa Corte (12 febbraio 1998, n. 17, Di Battista, RV. 209603) “è affetto da abnormità non solo il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risulti avulso dall’intero ordinamento processuale, ma anche quello che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e dalle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite. L’abnormità dell’atto processuale può riguardare tanto il profilo strutturale, allorché l’atto, per la sua singolarità, si ponga al di fuori del sistema organico della legge processuale, quanto il profilo funzionale, quando esso, pur non ▲ estraneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e l’impossibilità di proseguirlo”. 3) I ricorrenti deducono l’abnormità del provvedimento di archiviazione adottato nei loro confronti per essere estinto “il reato contestato” (cfr. pag. 29 del provvedimento impugnato) per amnistia, siccome emesso in esito ad ampia e particolareggiata motivazione con la quale si è accertata la loro colpevolezza per il delitto di strage. La doglianza formulata, considerata in astratto, corrisponde al concetto di abnormità considerato, poiché la natura “neutra” del decreto di archiviazione, emesso in una fase in cui gli elementi relativi alla notizia di reato sono ancora amorfi e fluidi, è radicalmente incompatibile con la dichiarata e motivata attribuzione di un reato ad un determinato soggetto. Un provvedimento che abbia le caratteristiche denunziate nel ricorso si pone pertanto al di fuori del sistema legislativo, che impone l’esercizio in contraddittorio dell’azione penale prima dell’accertamento di un reato a carico di una persona denunciata. L’abnormità lamentata in coerenza alla natura del provvedimento impugnato rende quindi ammissibile l’unico mezzo d’impugnazione consentito nella ipotesi considerata. 4) Il ricorso, oltre che ammissibile, è fondato, poiché l’abnormità denunziata è reale. Il provvedimento di archiviazione impugnato, che l’art. 409 c.p.p. prevede sia emesso nelle forme del “decreto”, è qualificato come “ordinanza”, ed ha peraltro il taglio motivazionale tipico della sentenza, in quanto, dopo aver ricostruito il fatto ed il ruolo in esso svolto dai tre ricorrenti, per ben sei pagine (ff. 24-29) si esprime sulla qualificazione di esso e sulla configurabilità del delitto di strage. Lo schema è quello previsto dall’art. 129 c.p.p., del quale a pag. 35 il G.i.p. riconosce peraltro la inapplicabilità alla fase delle indagini, ammettendo espressamente che le questioni poste dalle parti offese, oggetto della motivazione precedentemente estesa, non potevano “assumere rilevanza alcuna ai fini del presente procedimento”. Osserva al riguardo il Collegio che ai sensi degli artt. 408 e 411 c.p.p. l’archiviazione può essere disposta se la notizia di reato è infondata, ovvero perché manca una condizione di procedibilità, perché il reato è estinto o perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. All’archiviazione non si applica l’art. 129 c.p.p., che al secondo comma dispone la prevalenza delle cause di declaratoria di non punibilità di natura sostanziale rispetto a quelle connesse alla estinzione del reato. La norma è infatti dettata per “ogni stato e grado del processo”, ed è quindi estranea alla fase in questione, anteriore all’esercizio dell’azione penale (in senso conforme, Cass., Sez. VI, 5 marzo 1998, Boccardi, RV. 210826; Sez. V, 18 marzo 1997, Giustini, RV. 207901; Sez. VI, 7 settembre 1994, Rosco, RV. 199084; sulla manifesta infondatezza della questione di costituzionalità proposta sul punto specifico con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., Cass., Sez. VI, 7 luglio 1992, Zanetti ed altri, RV. 191053, che ha escluso la disparità di trattamento denunziata rispetto al rinviato a giudizio nei cui confronti debba essere emessa sentenza di proscioglimento, in considerazione dell’assoluta diversità delle situazioni disciplinate, e dell’assenza, in caso di archiviazione, di diritti o interessi da tutelare in capo al soggetto). La inapplicabilità al decreto di archiviazione dell’art. 129 c.p.p. comporta che il giudice, al quale il provvedimento sia chiesto per motivi attinenti all’estinzione del reato, non debba motivare in ordine alla impossibilità di archiviare per motivi diversi, inerenti alla non configurabilità del reato. Si è ritenuto peraltro, in considerazione del favore che incontra nel nostro ordinamento la scelta della formula liberatoria più ampia, che il G.i.p. al quale sia stata chiesta l’archiviazione per difetto di una condizione di proseguibilità o di procedibilità dell’azione penale o per intervenuta estinzione del reato possa, in alternativa all’adesione alla richiesta del P.m., archiviare la “notitia criminis” per manifesta infondatezza ai sensi dell’art. 408 c.p.p. (in tal senso, Cass., Sez. VI, 19 ottobre-16 novembre 1990, Sica, RV. 185768, edita in Foro it., 1991, II, 516). Non è invece ammissibile che l’analisi e le conclusioni del G.i.p. in tale fase si rivolgano “in malam partem”, facendo precedere alla indicazione del motivo formale per il quale l’archiviazione è disposta una motivazione sostanziale, che concerna la configurabilità del reato e la responsabilità dell’indagato in ordine ad esso (nello stesso senso la sentenza sopra citata, che ha ritenuto l’abnormità del provvedimento con il quale il G.i.p., a fronte della richiesta del p.m. di archiviazione degli atti per estinzione dei reati per amnistia, prima di esprimersi in senso conforme aveva accertato con diffusa motivazione l’esistenza di elementi di responsabilità a carico del denunciato. Conformi Cass. Sez. VI, 7 settembre 1994, Rosco, RV. 199084, che ha ritenuto abnorme il decreto di archiviazione emesso per amnistia, preceduto dal rilievo che non risultava evidente l’insussistenza del fatto, e che la qualificazione giuridica era corretta; Sez. V, 9, 18 marzo 1997, Giustini, RV. 207901, in tema di provvedimento pronunciato prima dell’esercizio dell’azione penale, nel quale il g.i.p. con riferimento all’art. 129 c.p.p. ha usato la formula, anziché di archiviazione, di “non luogo a procedere a carico dell’indagato in conseguenza della morte di questi”, preceduta dalla valutazione sulla mancanza di manifesti elementi in base ai quali prosciogliere nel merito). Poiché nella specie il provvedimento impugnato ha assunto natura diversa da quella meramente dichiarativa e delibativa propria del decreto di archiviazione, e contiene uno specifico accertamento “in malam partem” espresso nei confronti di persone nei cui confronti l’azione penale non era stata esercitata, si ravvisa la sua abnormità in dipendenza dell’accertamento predetto, indipendentemente dalla correttezza o infondatezza delle motivazioni che tale accertamento sorreggono. Dalla ritenuta abnormità segue l’annullamento del provvedimento medesimo. 5) Le considerazioni che precedono evidenziano la irrilevanza, e al tempo stesso la manifesta infondatezza, della eccezione di costituzionalità proposta. Gli artt. 408 - 411 c.p.p. non danno spazio per valutazioni concernenti in positivo la responsabilità dell’indagato per un reato determinato, accompagnate dalla archiviazione della “notitia criminis” re- ▲ G GIURISPRUDENZA Decisioni commentate 738 DIRITTO PENALE E PROCESSO n. 6/1999 G GIURISPRUDENZA Decisioni commentate 739 DIRITTO PENALE E PROCESSO n. 6/1999 lativa, e non può profilarsi, né si profila nel caso di specie, la lesione dei diritti e degli interessi lamentata in conseguenza di un provvedimento che, in quanto abnorme, è ricorribile in sede di legittimità e che deve essere annullato. 6) L’annullamento del provvedimento, qualificato come abnorme, pone al Collegio il problema di ulteriormente provvedere in ordine alla possibilità di dare in questa sede le disposizioni necessarie per rendere la decisione impugnata conforme alla legge, a norma dell’art. 620 lett. l c.p.p. In questa prospettiva compete certamente a questa Corte l’obbligo di considerare se il fatto, quale emerge dalle richieste del P.m. e dalla ricostruzione attuata sulla base delle indagini disposte dal G.i.p., non risulti previsto dalla legge come reato: e ciò in relazione alle specifiche osservazioni formulate con il ricorso. Va osservato al riguardo: a) L’attentato di via Rasella del 23 marzo 1944 ai danni del battaglione di polizia tedesca “Bozen”, nel quale rimasero coinvolti alcuni civili italiani, fu compiuto mentre era in corso l’occupazione di gran parte del territorio nazionale ad opera dei Tedeschi a seguito degli eventi successivi all’armistizio dell’8 settembre 1943. A tale occupazione non si sottraeva Roma, che nonostante la sua qualifica di “città aperta” (attribuita unilateralmente dal Governo Italiano prima dell’armistizio: cfr. Cass., Sez. U. Civ., 19 luglio 1957 n. 3053, in Foro it. 1957, I, 1398), era presidiata da truppe tedesche e sottoposta ad un durissimo controllo di polizia militare e politica. Contro tale occupazione in Roma e in tutta l’Italia centro-settentrionale sin dal 9 settembre 1943 si erano andati spontaneamente organizzando gruppi di resistenza sia politica che militare. L’attentato, accuratamente preparato (cfr. anche pag. 33 provvedimento impugnato), fu deciso ed attuato da appartenenti a formazioni dei G.A.P. (Gruppi Azione Patriottica), dipendenti dal Comando Garibaldi per l’Italia Centrale, e comandati in Roma all’epoca del fatto da Carlo Salinari. Essi erano collegati alla Giunta Militare del C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) attraverso Giorgio Amendola ed altri. I G.A.P. rivendicarono apertamente la paternità dell’azione, diretta a contrastare l’occupazione tedesca ed a restituire le libertà conculcate dal regime fascista. L’azione fu attuata facendo esplodere, mediante detonatore collegato ad una miccia, 18 kg. di tritolo contenuti in un carretto per la spazzatura, in coincidenza del passaggio, usuale e previsto, di una compagnia del battaglione “Bozen”. Secondo la ricostruzione del consulente tecnico della parte offesa Zuccheretti, riportata nel provvedimento impugnato (pag. 14), l’esplosione dell’ordigno ebbe a determinare la morte di 42 soldati tedeschi (dei quali 32 morti quasi immediatamente e gli altri nei giorni seguenti), e di almeno due civili italiani, il minore Pietro Zuccheretti e Antonio Chiaretti. b) Il fatto oggetto della richiesta di archiviazione proposta dal P.m. e del provvedimento impugnato per la qualità di chi lo commise, per l’obbiettivo contro il quale era diretto e per la finalità che lo animava, rientra, in tutta evidenza, nell’ambito di applicazione del d.lgs. lgt. 12 aprile 1945, n. 194, che dispone: “Sono considerate azioni di guerra, e pertanto non punibili a termini delle leggi comuni, gli atti di sabotaggio, le requisizioni e ogni altra operazione compiuta dai patrioti per la necessità di lotta contro i tedeschi e i fascisti nel periodo dell’occupazione nemica. Questa disposizione si applica tanto ai patrioti inquadrati nelle formazioni militari riconosciute dai comitati di liberazione nazionale, quanto agli altri cittadini che li abbiano aiutati o abbiano, per loro ordine, in qualsiasi modo concorso nelle operazioni per assicurarne la riuscita”. Dalle premesse che precedono consegue che devono essere considerati infondati i motivi per i quali il pubblico ministero che ha chiesto l’archiviazione prima, ed il G.i.p. poi, hanno escluso l’applicabilità della norma alla specie, sotto il profilo che le operazioni considerate dell’articolo unico del decreto luogotenenziale citato sarebbero esclusivamente quelle “di contorno”, non coinvolgenti diritti primari della persona umana. Il termine “operazioni”, applicato ad un contesto che storicamente è di lotta armata, comprende qualsiasi atto, anche cruento, volto a combattere il nemico. La “Legge di guerra” approvata con r.d. 8 luglio 1938, n. 1415, All. A, dedica l’intero “Titolo secondo” alle “operazioni belliche”, che comprendono “atti di ostilità” (Capo II, Sez. I) implicanti “l’uso della violenza” (art. 35), e il “bombardamento” (Capo I, Sez. II). L’interpretazione riduttiva del termine appare infatti non corretta dal punto di vista letterale, poiché contrasta con l’espressione “ogni altra” che immediatamente lo precede; collide con la struttura sistematica dell’articolo unico del decreto luogotenenziale, che collocando nell’ambito delle “azioni di guerra” gli atti menzionati non può prescindere da quelle che sono in genere le caratteristiche delle azioni nel cui novero gli atti medesimi sono inseriti; stride con la volontà del legislatore, desunta dalla situazione storica nella quale la norma è stata emanata, indirizzata ad attribuire riconoscimento di liceità ad ogni azione diretta alla liberazione del territorio nazionale ed alla fine del regime fascista, volontà palesemente espressa in una serie di disposizioni di legge dell’epoca e successive, che qui di seguito si richiamano. – Il d.lgs. lgt. 21 agosto 1945, n. 518, ha disciplinato “il riconoscimento delle qualifiche di partigiani e l’esame delle proposte di ricompensa” in dipendenza della lotta armata partigiana. – Il d.lgs. lgt. 5 aprile 1945, n. 158, ha riconosciuto la qualifica di “patriota combattente”, comportante benefici di vario genere, tra gli altri, “agli organizzatori e ai componenti stabili od attivi di bande, le quali abbiano effettivamente partecipato ad azioni di combattimento o di sabotaggio” (art. 9 lett. a-, nel quale l’equiparazione tra combattimento e sabotaggio evidenzia come sia errato, dalla menzione del sabotaggio contenuta nel d.lgs. lgt. n. 194 del 1945 qui in esame, desumere un significato ridotto, concernente azioni di semplice “contorno”, del successivo termine “operazioni”). – Il d.lgs. C.p.S. 6 settembre 1946, n. 266, che ha disciplinato il risarcimento a carico dello Stato dei danni causati dalle “operazioni della guerra” poste in essere dalle forze armate nazionali, alleate o ne- ▲ miche, equipara alle forze armate “le formazioni volontarie partecipanti alle operazioni belliche”. – La l. 21 marzo 1958, n. 285, titolata “Riconoscimento giuridico del corpo Volontari della libertà (C.V.L.)”, ha riconosciuto il corpo stesso “ad ogni effetto, come corpo militare organizzato inquadrato nelle forze armate dello Stato”, con i conseguenti benefici economici e di carriera. Si tratta di provvedimenti normativi connessi alla nostra Storia, alla formazione della Repubblica Italiana ed ai principi sui quali la Costituzione si fonda (si pensi alla XII Disposizione Transitoria alla Costituzione), conformi alla “intenzione del legislatore” pur se considerata oltre al momento in cui è stata espressa ed in senso attuale. Né la circostanza che l’amnistia disposta con d.lgs. lgt. 5 aprile 1944, n. 96, avesse quale oggetto “tutti i reati, quando il fine che li ha determinati sia stato quello di liberare la patria dall’occupazione tedesca, ovvero quello di ridare al popolo italiano le libertà soppresse o conculcate dal regime fascista” (art. 1), è dato idoneo ad escludere che un’azione avente le caratteristiche e gli effetti propri dell’attentato di via Rasella rientri nell’ambito di applicabilità del decreto luogotenenziale n. 194 del 1945. La promulgazione dell’amnistia è precedente, non successiva, al d.lgs. lgt. n. 194 del 1945, che ha tolto in radice la natura di reato, inserendola tra le “azioni di guerra”, ad ogni “operazione compiuta da patrioti per la necessità di lotta contro i tedeschi e i fascisti nel periodo dell’occupazione fascista”. Ed ha una sua innegabile e profonda “ratio” il fatto che, in quel momento storico, all’ampia formula dell’amnistia disposta per un numero grandissimo di reati, individuati soltanto in relazione alla finalità perseguita, si sia poi riconosciuta la totale irrilevanza ai fini penali di alcuni di essi, aventi caratteristiche soggettive, obbiettivi e modalità operative tali da renderli assimilabili ad ogni effetto ad “azioni di guerra”. Quanto alla “necessità di lotta” contro gli obbiettivi indicati, si rileva che la natura dell’attività bellica rende la valutazione sul punto discrezionale, evidentemente non sottoponibile da parte del giudice ordinario ad un controllo che coinvolga “a posteriori” la efficacia dell’operazione prescelta a conseguire gli obbiettivi strategici perseguiti. Nel caso di specie l’attentato, commesso nei confronti di una formazione nemica che occupava il territorio nazionale, volto a contrastrare l’occupazione stessa, appare caratterizzato da quegli inequivoci requisiti strutturali e teleologici che consentano al giudice di qualificare l’azione predetta come “azione di guerra” in base al decreto luogotenenziale citato. c) Si devono pertanto condividere le argomentazioni - richiamate espressamente dal G.i.p., ma dallo stesso disattese (cfr. pagg. 24 e segg. provvedimento) - con le quali le Sezioni Unite civili di questa Corte con la sentenza 19 luglio 1957, n. 3053, sopra citata, pronunciando in tema di risarcimento del danno richiesto dalle vittime civili dell’attentato di via Rasella, ha stabilito che “la lotta partigiana è stata considerata dalla legislazione italiana quale legittima attività di guerra”, con conseguente improponibilità dell’azione risacitoria proposta. La statuizione, è chiaro, non vincola il giudice penale, a norma degli artt. 2 e 3 c.p.p., nel senso che non opera con efficacia di giudicato, ma costituisce indubbiamente un precedente significativo per l’analisi penetrante ed esaustiva sviluppata sullo specifico tema concernente la qualificazione dell’attività svolta dai gruppi partigiani avuto riguardo, in particolare, alla diversa posizione attribuibile agli stessi in relazione, da un lato, agli atti di ostilità compiuti, all’epoca dei fatti in esame, nei confronti degli occupati tedeschi, e, dall’altro, al loro rapporto nell’ambito dell’ordinamento (interno) italiano. Diverse, ma da un attento esame non confliggenti, le situazioni e le conseguenti valutazioni recepite nelle pronunce degli organi della giustizia militare concernenti l’attentato di via Rasella, ed aventi per oggetto la “rappresaglia” attuata il giorno successivo dalle Forze Armate con l’uccisione di 335 cittadini italiani alle Fosse Ardeatine. Con sentenza 20 luglio 1948, n. 631, emessa contro Kappler ed altri (in “Rassegna della Giustizia Militare”, 1996, nn. 3-6, pag. 3), il Tribunale Militare di Roma, che pur ha escluso la legittimità della rappresaglia per violazione del principio della proporzione, ha negato la natura di legittima azione di guerra dell’attentato, in quanto non commesso da “legittimi belligeranti”, in rapporto alla clandestinità dell’organizzazione partigiana, all’epoca priva dei requisiti richiesti dall’art. 1 della Convenzione dell’Aia del 18 agosto 1907. Proposto ricorso da Kappler, il Tribunale Supremo Militare, con sentenza 25 ottobre 1952, n. 1711 (ibidem, pag. 83), ha rovesciato tale impostazione, dichiarando illegittimo l’esercizio della rappresaglia in relazione alla legittimità dell’azione italiana: “Via Rasella, alla luce delle norme del diritto internazionale, si pone in termini di rigorosa linearità: la sua qualificazione non può essere altro che quella di un atto di ostilità a danno delle forze militari occupanti, commesso da persone che hanno la qualità di legittimi belligeranti”. Il tema della liceità dell’attentato, collegato alla illiceità dell’atto ritorsivo attuato con l’eccidio delle Fosse Ardeatine, nelle due sentenze menzionate è stato affrontato in rapporto alla controversa qualità di legittimi belligeranti degli attentatori all’epoca del fatto contestato, e non poteva certamente essere risolto con riferimento al decreto luogotenenziale n. 194 del 1945, emanato successivamente alla “rappresaglia” in questione. Tale soluzione non era consentita né dall’art. 23 c.p.m.g. sulla ultrattività della legge penale militare di guerra, né dagli artt. 25 comma 2 della Costituzione e 2 comma 1 c.p., per i quali il riconoscimento della legittimità dell’azione di via Rasella, in quanto qualificata con effetto retroattivo “azione di guerra”, non poteva valere ai fini della individuazione dell’illecito penale contestato in quel procedimento. Restano quindi estranee al “thema decidendum” attuale le motivazioni, formulate nella prima sentenza citata, inerenti alla illegittimità dell’attentato con riferimento agli artt. 25 e 27 della legge di guerra (all. A al r.d. 8 luglio 1938, n. 1435, articoli di cui peraltro le Sezioni civili di questa Corte, nell’ambito di un “obiter dictum” contenuto nella ▲ G GIURISPRUDENZA Decisioni commentate 740 DIRITTO PENALE E PROCESSO n. 6/1999 G GIURISPRUDENZA Decisioni commentate 741 DIRITTO PENALE E PROCESSO n. 6/1999 sentenza citata, disconoscono l’applicabilità al caso di specie, in quanto tali norme erano dirette solo a limitare i poteri dello Stato italiano nei confronti dei cittadini di altri Stati con i quali sia in guerra), in rapporto alla clandestinità dell’organizzazione partigiana, all’epoca priva dei requisiti richiesti dall’art. 1 della Convenzione dell’Aia del 18 ottobre 1907, per la quale un atto di guerra legittimo può essere compiuto solo dagli eserciti regolari ovvero da corpi volontari che, oltre ad essere comandati da una persona responsabile per i subordinati, abbiano un segno distintivo fisso e riconoscibile a distanza, e portino apertamente le armi. Ma ciò posto in evidenza, non ne deriva affatto la non riconducibilità allo Stato italiano, per quanto si riferisce al coinvolgimento nell’attentato anche di vittime civili, dell’azione dei partigiani. Occorre rammentare infatti che, sin dopo la dichiarazione dello stato di guerra nei confronti della Germania (13 ottobre 1943), il Governo legittimo aveva incitato tutti gli Italiani a ribellarsi ed a contrastare con ogni mezzo l’occupazione tedesca (cfr. Cass., Sez. U. civ., n. 3053 del 1957 citata). Il fatto, innegabile, ma comune a tutti i movimenti di resistenza, del loro carattere clandestino nei momenti iniziali, non è affatto in contrasto, pertanto, con il riconoscimento delle attività in esame quali atti tipici di guerra. E la successiva legislazione si è limitata semplicemente a darne atto. d) La legittimità dell’operazione considerata, unitaria nell’azione e nello scopo perseguito, deve essere pertanto valutata nel suo complesso, senza che sia possibile scinderne le conseguenze a carico dei militari tedeschi che ne costituivano l’obbiettivo da quelle coinvolgenti i civili che ne rimasero vittima, in rapporto alla sua natura di “azione di guerra”. Le azioni predette sono purtroppo per loro natura caratterizzate da effetti consimili, come emerge dal “bombardamento” disciplinato dal Titolo II, Capo II Sez. II della legislazione di guerra di cui al R.D. n. 1415 del 1938, all. A. 7) Esclusa così la configurabilità del reato di strage contestato, il provvedimento d’archiviazione impugnato, abnorme, può essere riportato a legalità sostituendosi, a quella parte nella quale si dichiara la responsabilità dei denunciati per il reato predetto e si motiva l’archiviazione sulla base dell’amnistia disposta con d.lgs. lgt. 5 aprile 1944, n. 96, la motivazione inerente alla non previsione del fatto come reato dalla legge. - Omissis. ▲ IL COMMENTO di Ettore Gallo La questione di legittimità costituzionale Si tratta di una sentenza rigorosa, limpida, serena, estesa senza l’ombra di polemica, né nei confronti delle tesi dei pubblici ministeri, né nei riguardi delle allegazioni delle parti. È un ragionamento strettamente conseguenziale, che sembra guidare quietamente la mente del lettore a quella soluzione di giustizia, che diversa non poteva essere per coloro che hanno scelto, come dovere quotidiano, il difficile compito del giudicare. E, invece, non erano né pochi né semplici i problemi che la Corte doveva risolvere. E innanzitutto quello fondamentale che legittimava il ricorso stesso, la decisione, cioè, sulla dedotta abnormità del provvedimento impugnato, dalla quale soltanto dipendeva la ricorribilità in cassazione. Poche righe estremamente significative portano all’annullamento. Il provvedimento di archiviazione che, per l’art. 409 c.p.p., doveva essere emesso nelle forme del decreto, non solo è qualificato “ordinanza” ma, per di più, “ha il taglio motivazionale tipico della sentenza”. Il giudice degli atti preliminari, infatti, è entrato nel merito - annota la Corte - e ha condotto “uno specifico accertamento in malam partem nei riguardi di persone nei cui confronti l’azione penale non era stata esercitata”. Per ben sei pagine è stato ricostruito il fatto e il ruolo in esso svolto dai tre ricorrenti, qualificando il fatto stesso come delitto di strage. “Lo schema - si osserva - è quello previsto dall’art. 129 c.p.p., del quale il G.i.p. stesso aveva riconosciuto (a p. 35) l’inapplicabilità alla fase delle indagini”. Di conseguenza, aderendo all’insegnamento delle Sezioni Unite (sentenza 12 febbraio 1998, n. 17, Di Battista), la I Sezione penale della Corte di cassazione conviene sulla denunzia di abnormità del provvedimento “perché la natura neutra del decreto di archiviazione, emesso in una fase in cui gli elementi relativi alla notizia di reato sono ancora amorfi e fluidi, è radicalmente incompatibile con la dichiarata e motivata attribuzione di un reato ad un determinato soggetto”. A questo punto, però, la Corte ritiene si debba proporre e risolvere la questione di legittimità costituzionale, sollevata dalla difesa con atto successivo ai motivi di ricorso, e presentata nell’imminenza della decisione in Camera di Consiglio. È il solo punto questo su cui dobbiamo esprimere il nostro sommesso dissenso. Afferma la Corte, infatti, che l’eccezione proposta sarebbe irrilevante, e al tempo stesso manifestamente infondata, perché “gli artt. 408-411 c.p.p. non danno spazio per valutazioni concernenti in positivo la responsabilità dell’indagato per un reato determinato, accompagnate dall’archiviazione della notitia criminis relativa, e non può profilarsi, né si profila nel caso di specie, la lesione dei diritti e degli interessi lamentata in conseguenza di un provvedimento che, in quanto abnorme (corsivo nostro) è ricorribile in sede di legittimità e che deve essere annullato”. Evidentemente c’è stato un grave fraintendimento dell’eccezione sollevata dalla difesa, di cui riportiamo il testo: I. - Voglia la Corte Suprema Ecc.ma sollevare innanzi alla Corte costituzionale l’illegittimità dell’art. 411 c.p.p., in relazione agli artt. 3, 1° comma, 24, 2° comma e 112, 2° comma, Cost. per la parte in cui applica le disposizioni di cui all’art. 409, 1° comma, c.p.p., e quindi consente l’archiviazione degli atti, anche nel caso in cui l’applicazione dell’amnistia sia subordinata ad un procedimento giurisdizionale di accertamento costitutivo nel quale la valutazione della sussistenza in fatto di determinate circostanze (nella specie la particolare finalità patriottica del fatto) e del loro valore rappresenta l’intervento necessario ed inderogabile della scienza e della volontà del giudice che contribuisce a rendere concreta ed effettiva la realtà estintiva astrattamente delineata dal legislatore. Non si tratta, perciò, di un’attività meramente dichiarativa dell’accertamento come nelle ipotesi in cui l’amnistia viene applicata de plano e ipso iure, ma di una complessa operazione che non può non concludersi con la sentenza di cui all’art. 129, 1° comma, c.p.p. Altrimenti si determinerebbe lesione del principio di eguaglianza fra i cittadini che, godendo del procedimento di cui all’art. 129 c.p.p., sono ammessi a dimostrare l’esistenza delle condizioni di cui al 2° comma dello stesso articolo, e perciò ad ottenere eventualmente una sentenza di assoluzione o di improcedibilità, e ad impugnare, se del caso, la sentenza stessa (così garantendo loro l’osservanza del diritto inviolabile di difesa e quello di ricorribilità contro la sentenza), a fronte di coloro che di tutti tali diritti e facoltà resterebbero privati da un sommario procedimento di archiviazione, che però motiva il suo aspetto decisorio proprio con l’apodittica affermazione che il presunto reato (peraltro mai contestato), integrato dal fatto per cui si è largamente indagato, sarebbe estinto dall’amnistia. Un procedimento sommario di archiviazione che al più potrebbe essere consentito nell’ipotesi in cui l’amnistia fosse già stata in precedenza applicata nelle forme di legge, oppure - come si è detto - ove apparisse applicabile de plano ed ipso iure senza alcun intervento di una valutazione di accertamento costitutivo da parte del giudice. Ragion per cui probabilmente il legislatore non ha ritenuto di includere né la fattispecie di amnistia (né quella concernente il fatto non preveduto dalla legge come reato) fra le cause legittimanti l’adozione di un provvedimento di archiviazione. II. - Sicché l’illegittimità costituzionale dell’art. 411 c.p.p. si prospetta altresì sotto il profilo della violazione dell’art. 2 n. 50 della legge delega del 1987, che prevede la possibilità dell’archiviazione unicamente per manifesta infondatezza della notizia di reato, per essere ignoti gli autori dello stesso o per improcedibilità dell’azione penale. La discrasia è tanto più evidente in quanto, invece, le due predette fattispecie sono testualmente richiamate nella direttiva 52 fra i casi per i quali può essere pronunziata sentenza di non doversi procedere, a’ sensi dell’art. 425 c.p.p., così come modificato dalla l. 8 aprile 1993, n. 105. Né può avere pregio il tentativo di parte della dottrina (ma si veda, in contrario, fra gli altri, e proprio con riferimento all’ipotesi dell’estinzione del reato, M. Chiavario, La riforma de processo penale, Torino, 1988, 100) di parlare di comprensibile estensione, da parte dell’art. 411 c.p.p., dei casi previsti dalla legge delega, in quanto resterebbe parimenti ingiustificabile che il p.m., una volta constatata l’esistenza di una causa estintiva, dovesse ugualmente esercitare l’azione penale, formulando l’imputazione e richiedendo il rinvio a giudizio. Questo rilievo, infatti, potrebbe valere esclusivamente per le altre ipotesi che abbiamo accennato, ma non quando l’applicazione dell’amnistia richiede un intervento giurisdizionale di accertamento costitutivo da parte del giudice, cui il p.m. non può sostituire la sua personale opinione, e nemmeno il giudice dell’archiviazione, che non può sostituire i suoi decreti o le sue ordinanze alla sentenza di cui all’art. 129 c.p.p. E ben questo sembra lo spirito che ha ispirato il legislatore ad escludere comunque che si possa procedere ad archiviazione quando ricorrano le due fattispecie che l’art. 2, n. 50, infatti, non richiama. Si benigni la Corte Ecc.ma di ritenere che ambo i profili d’illegittimità costituzionale così prospettati non sono “manifestamente infondati”. Appare prima facie evidente che l’eccezione sollevata ha valore assolutamente subordinato rispetto al motivo principale riguardante l’abnormità del provvedimento del G.i.p. È solare, infatti, che, dichiarata l’abnormità ed annullato il provvedimento, né alla difesa né ad altra parte in causa poteva più interessare il problema sollevato, ai fini della decisione della questione principale: e tanto meno alla Corte una volta che la decideva per altre ragioni e, fra l’altro, proprio nei sensi auspicati dalla difesa. Dice bene la sentenza che la lesione lamentata nell’eccezione di legittimità costituzionale non può profilarsi in conseguenza di un provvedimento abnorme, come tale ricorribile in sede di legittimità, dove dev’essere annullato. Ma i difensori non avevano virtù divinatorie, e perciò non potevano essere certi, nel momento in cui sollevavano l’eccezione, che la Corte avrebbe effettivamente giudicato abnorme il provvedimento del G.i.p. e l’avrebbe annullato. La prima obiezione, pertanto, riguarda la natura del provvedimento che si sarebbe dovuto adottare in vista del carattere assolutamente subordinato dell’eccezione. La Corte si sarebbe dovuta limitare a dare atto che la sollevata questione restava assorbita dall’accoglimento del motivo principale, oppure che il predetto accoglimento determinava il “non luogo a deliberare” sulla subordinata questione di legittimità costituzionale. Per il resto, poi, è evidente che la difesa aveva sostenuto, sollevando l’eccezione, proprio ciò che esattamente la Corte afferma. Sul merito del problema, insomma, c’era un perfetto accordo perché in realtà - se non viene fraintesa - la motivazione della questione lamenta esattamente quanto la Corte rileva. E dobbiamo anzi dire che, da parte nostra, abbiamo insistito nel chiarire l’equivoco che è al fondo di questa vicenda, proprio perché il problema, che è così emerso, è tuttora presente a turbare un punto non trascurabile del diritto processuale penale. Una questione di diritto processuale penale tuttora irrisolta Risulta sia dalla Relazione al Progetto preliminare, sia dai Lavori preparatori che, mediante le disposizioni di cui agli artt. 408-409 e 411 si è inteso ▲ G GIURISPRUDENZA Decisioni commentate 742 DIRITTO PENALE E PROCESSO n. 6/1999 G GIURISPRUDENZA Decisioni commentate 743 DIRITTO PENALE E PROCESSO n. 6/1999 estendere anche all’area degli atti preliminari quella sollecitudine che il legislatore suggerisce al p.m. allorquando viene a trovarsi, in ogni stato e grado del processo, innanzi a situazioni che manifestamente impediscono l’ulteriore corso del procedere: rendendo, perciò, inutile - anche per ragioni di economia processuale - far attendere al cittadino una soluzione di giustizia che, oltre tutto, gli è dovuta. L’esigenza di una espressa estensione derivava poi dal fatto che il nuovo codice distingueva nettamente le due fasi: da una parte, il “procedimento” per gli atti preliminari, e dall’altra il “processo”, per l’ulteriore corso dopo l’avvenuta formulazione dell’imputazione, rendeva difficile ottenere l’estensione mediante operazione di applicazione analogica. E tuttavia qualche differenza è rimasta fra le due serie di provvedimenti dell’una e dell’altra fase. Intanto, il mezzo processuale utilizzabile, in ovvia stretta dipendenza con la natura della diversa fase, giacché per quella degli atti preliminari è sufficiente il decreto motivato (artt. 409 p.p. - 410 comma 2 c.p.p.) mentre, per la fase del processo, il codice esige rigorosamente la sentenza del giudice (art. 129 p.p. c.p.p.). Altre differenze, pure dipendenti dalla diversa natura della fase processuale, riguardano le cause per le quali è possibile disporre l’archiviazione. Infatti, all’interno del vero e proprio processo, dispone l’art. 129 comma 1 c.p.p., che, in ogni stato e grado, il giudice, il quale riconosce che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero che il reato è estinto o che manca una condizione di procedibilità, lo dichiara di ufficio con sentenza. Come è ben noto, poi, nel secondo comma sono disciplinate tutte quelle situazioni di maggior favore per l’imputato, fra quelle sopradescritte, che devono prevalere sulla causa di estinzione del reato qualora risultino già evidenti dagli atti. In tal caso, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta. Dunque, proprio perché qui siamo all’interno di un processo giurisdizionale che si conclude con sentenza, le possibilità di definizione da parte del giudice sono totali, e perciò si estendono anche ad ipotesi che il G.i.p. non potrebbe mai prendere in considerazione. Come accade per il rapporto fra la condotta dell’imputato e il fatto (l’imputato non lo ha commesso) oppure per la non qualificazione del fatto (fatto non costituisce reato) o per l’esistenza stessa del fatto (fatto non sussiste). Nella fase degli atti preliminari, invece, è innanzitutto l’infondatezza della notitia criminis che viene in esame (art. 408 c.p.p.). Ad altre ipotesi poi è l’art. 411 c.p.p. che estende l’archiviazione, non sempre però in ortodossa osservanza della delega. Dice, infatti, questo articolo che le disposizioni degli artt. 408-409 e 410 (decreto motivato od ordinanza di archiviazione) si applicano anche quando risulta che manca una condizione di procedibilità (e cioè: la querela, l’istanza, la richiesta o l’autorizzazione a procedere) o che il reato è estinto o che il fatto non è previsto dalla legge come reato. Ora, sia per dottrina che per giurisprudenza, si è talvolta ritenuto ragionevole il ricorso all’istituto dell’archiviazione anche nelle ipotesi aggiunte dall’art. 411 c.p.p. perché - si è detto - già sotto l’impero del codice abrogato si era instaurata la stessa prassi (1). In realtà, l’art. 378 c.p.p. abrogato era, invece, rigoroso nel prescrivere espressamente in detti casi la sentenza di proscioglimento, e d’altra parte anche la dottrina che indulgeva a quella prassi, lo faceva con molta prudenza e sotto precise condizioni (2). Il vero è che, quando si allude a quella certa prassi in tema di “estinzione del reato”, che è quanto qui interessa, si pensa all’ipotesi di “accertamento mero”, dove il giudice applica “de plano” la causa di estinzione senza che occorrano né particolari indagini di non poco momento, né deduzioni scientifiche che implichino sequenze e correlazioni logiche. Estinguere il reato per la morte del reo, o perché è trascorso tutto il tempo che la legge prevede per la prescrizione, o infine perché si tratta soltanto di verificare che la qualificazione penalistica contemplata dalla legge estintiva sia proprio quella che riguarda il fatto storico da esaminare, non richiede alcuna lunga né particolare indagine né specifica deduzione logico-scientifica da parte del giudice. Ma se la legge che estingue il reato ha inserito particolari condizioni di applicazione, che costringono il giudice (o il p.m.) ad esaminare testimoni, ad accedere sui luoghi etc., ed alla fine a confrontare risultanze, favorevoli o contrarie, alle condizioni di applicazione poste dalla legge, non soltanto s’allungano i tempi che contrastano con la speditezza del processo, ma la stessa scienza del giudice entra nel giudizio, trasformando l’accertamento mero in accertamento costitutivo. In tal caso è proprio la ratio della diversa situazione che giustifica il venir meno di ogni possibile affidamento dell’operazione agli atti preliminari, mentre si rende indispensabile che il tutto sia presidiato dal contraddittorio delle parti, e che l’intervento conclusivo del giudice avvenga per sentenza impugnabile. Ebbene, non può essere senza ragione che già la legge delega del 1974, nell’art. 2 n. 41, avesse previsto l’archiviazione del procedimento soltanto per manifesta infondatezza della denuncia, della querela o dell’istanza: e che poi l’art. 2 n. 50 della legge delega del 1987 l’avesse estesa soltanto al caso degli autori ignoti e a quelli di improcedibilità dell’azione. Ma c’è di più. Infatti, per converso, la direttiva 52 menziona testualmente le due fattispecie di archiviazione per estinzione del reato, e perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, fra le ipotesi che vanno affidate a sentenza di non doversi procedere ai sensi dell’art. 425 c.p.p. ▲ Note: (1) Cfr. Cass. 13 maggio 1985, Gnucci, in Giust. pen., 1986, II; 37; Cass. 13 ottobre 1982, Spinelli, in Riv. pen., 1983, 707; in dottrina v. A. Bernardi, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, (Speciali di Leg. pen.) IV, Torino, 1990, 543 e s. (2) La citazione che si fa di F. Cordero, voce Archiviazione, in Enc. dir., II, 1958, 1032, va, infatti, precisata rilevando che il consenso a far luogo all’archiviazione era dato subordinatamente al fatto che la superfluità del processo potesse essere accertata mediante un’indagine non incompatibile con l’esigenza di speditezza. Da tutto quanto fin qui detto emerge chiaramente che - come già rilevato - la difesa aveva sollevato l’eccezione di legittimità (per il caso in cui non fosse stato accolto il motivo principale di impugnazione) proprio perché lamentava quanto affermato dalla Corte di cassazione. E cioè, che la situazione di cui agli artt. 408-411, non dando alcuno “spazio per valutazioni concernenti in positivo la responsabilità dell’indagato per un reato determinato, accompagnato dalla archiviazione della notitia criminis relativa”, pregiudica gravemente i diritti fondamentali degli indagati. I quali, trattandosi di applicazione di amnistia a seguito di giudizio di accertamento costitutivo (in fatto, il p.m. - su richiesta del G.i.p. - aveva impiegato mesi per vincere, attraverso le indagini e gli esami testimoniali, l’accusa delle parti civili, secondo cui l’episodio non era sostenuto dai motivi patriottici contemplati dall’amnistia, ché, anzi, sarebbe stato determinato da sentimento di odio nei confronti dei patrioti appartenenti al movimento “bandiera rossa”) avrebbero dovuto perciò fruire dell’area del processo ed essere giudicati con sentenza. In tal caso, avrebbero potuto invocare il secondo comma dell’art. 129 c.p.p., sostenendo che il fatto non è previsto dalla legge come reato, e se il giudice avesse disatteso la tesi, avrebbero avuto a disposizione un’ordinaria impugnazione in sede di legittimità, anziché quella eccezionale, subordinata al riconoscimento dell’abnormità del provvedimento. Accanto a questo motivo, prevalentemente ispirato al 2° comma dell’art. 24 Cost., la difesa aveva coerentemente eccepito anche la violazione della legge delega (artt. 76 e 77 Cost.). Contro tale eccezione non poteva essere opposta la debole tesi secondo cui, però, sarebbe comunque giustificabile che il p.m. non avesse ad esercitare l’azione penale una volta riconosciuta l’esistenza di una causa estintiva. Al più il rilievo potrebbe valere per una causa estintiva applicabile de plano con decreto motivato, ma non certo a fronte dell’esigenza di un intervento giurisdizionale di accertamento costitutivo da parte del giudice, che necessariamente postula la formulazione dell’imputazione e la definizione del giudizio mediante sentenza (3). Si è trattato, dunque, di un travisamento interpretativo da parte della Corte, che dimostra, anzi, la permanenza del problema processuale che la difesa aveva in subordine prospettato con l’eccezione di legittimità costituzionale. Perché il fatto non era previsto dalla legge come reato Di grande interesse, invece, e assolutamente definitiva, tutta la parte che induce la Corte, riconosciuta l’abnormità del provvedimento di archiviazione del G.i.p., a sostituire in esso una causa diversa che ne ripristini la legalità. La motivazione ampia e rigorosa ha il merito di prendere posizione nei confronti della sentenza 20 luglio 1948, n. 631, del Tribunale militare di Roma (4), che, pur affermando la illegittimità della rappresaglia delle Fosse ardeatine per violazione del principio di proporzione, aveva tuttavia negato anche quella di “Via Rasella”, perché la natura clandestina del movimento partigiano non consentiva quei segni distintivi, visibili da lontano, che richiedeva l’art. 1 della Convenzione dell’Aja 18 ottobre 1907 (5). Per verità, quella sentenza era stata poi completamente ribaltata dalla successiva del Tribunale Supremo Militare 25 ottobre 1952, n. 1711 (6). In sostanza, la Corte di cassazione, da una parte - richiamando la già citata sentenza delle Sezioni Unite civili - nega conferenza, in relazione al fatto di Via Rasella, agli artt. 25 e 27 della legge italiana di guerra, “in quanto tali norme erano dirette solo a limitare i poteri dello Stato italiano nei confronti dei cittadini di altri Stati”, ovviamente in caso di occupazione italiana di territorio straniero. Dall’altra, pur riconoscendo che la questione non poteva essere risolta con riferimento al d.lgt. n. 194 del 1945 (in quanto si sarebbe dato effetto retroattivo al riconoscimento di “azione di guerra” che il detto decreto luogotenenziale comportava), rammentava che, dopo la dichiarazione di guerra alla Germania...

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