Una luce nel labirinto

Una luce nel labirinto
Non arrendersi mai.

una luce nel labirinto

una luce nel labirinto
Non sottomettersi mai.

domenica 22 novembre 2020

Leggere è il cibo della mente. La conoscenza è libertà.

DANTE ALIGHIERI CONVIVIO TRATTATO PRIMO CAPITOLO I 1. Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di prima natura impinta, è inclinabile a la sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti. 2. Veramente da questa nobilissima perfezione molti sono privati per diverse cagioni, che dentro a l’uomo e di fuori da esso lui rimovono da l’abito di scienza. Dentro da l’uomo possono essere due difetti e impedi[men]ti: l’uno da la parte del corpo, l’altro da la parte de l’anima. 3. Da la parte del corpo è quando le parti sono indebitamente disposte, sì che nulla ricevere può, sì come sono sordi e muti e loro simili. Da la parte de l’anima è quando la malizia vince in essa, sì che si fa seguitatrice di viziose delettazioni, ne le quali riceve tanto inganno che per quelle ogni cosa tiene a vile. 4. Di fuori da l’uomo possono essere similemente due cagioni intese, l’una de le quali è induttrice di necessitade, l’altra di pigrizia. La prima è la cura familiare e civile, la quale convenevolmente a sé tiene de li uomini lo maggior numero, sì che in ozio di speculazione esser non possono. L’altra è lo difetto del luogo dove la persona è nata e nutrita, che tal ora sarà da ogni studio non solamente privato, ma da gente studiosa lontano. 5. Le due di queste cagioni, cioè la prima da la parte [di dentro e la prima da la parte] di fuori, non sono da vituperare, ma da escusare e di perdono degne; le due altre, avvegna che l’una più, sono degne di biasimo e d’abominazione. 6. Manifestamente adunque può vedere chi bene considera, che pochi rimangono quelli che a l’abito da tutti desiderato possano pervenire, e innumerabili quasi sono li ’mpediti che di questo cibo sempre vivono affamati. 7. Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane de li angeli si manuca! e miseri quelli che con le pecore hanno comune cibo! 8. Ma però che ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico, e ciascuno amico si duole del difetto di colui ch’elli ama, coloro che a così alta mensa sono cibati non sanza misericordia sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e ghiande sen gire mangiando. 9. E acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono de la loro buona ricchezza a li veri poveri, e sono quasi fonte vivo, de la cui acqua si refrigera la naturale sete che di sopra è nominata. 10. E io adunque, che non seggio a la beata mensa, ma, fuggito de la pastura del vulgo, a’ piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m’ho lasciati, per la dolcezza ch’io sento in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolmente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale a li occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi. 11. Per che ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convivio di ciò ch’i’ ho loro mostrato, e di quello pane ch’è mestiere a così fatta vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe esser mangiata. 12. E questo [è quello] convivio, di quello pane degno, con tale vivanda qual io intendo indarno [non] essere ministrata. E però ad esso non s’assetti alcuno male de’ suoi organi disposto, però che né denti né lingua ha né palato; né alcuno assettatore di vizii, perché lo stomaco suo è pieno d’omori venenosi contrarii, sì che mai vivanda non terrebbe. 13. Ma vegna qua qualunque è [per cura] familiare o civile ne la umana fame rimaso, e ad una mensa con li altri simili impediti s’assetti; e a li loro piedi si pongano tutti quelli che per pigrizia si sono stati, che non sono degni di più alto sedere: e quelli e questi prendano la mia vivanda col pane, che la farò loro e gustare e patire. 14. La vivanda di questo convivio sarà di quattordici maniere ordinata, cioè quattordici canzoni sì d’amor come di vertù materiate, le quali sanza lo presente pane aveano d’alcuna oscuritade ombra, sì che a molti loro bellezza più che loro bontade era in grado. 15. Ma questo pane, cioè la presente disposizione, sarà la luce la quale ogni colore di loro sentenza farà parvente. 16. E se ne la presente opera, la quale è Convivio nominata e vo’ che sia, più virilmente si trattasse che ne la Vita Nuova, non intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo sì come ragionevolmente quella fervida e passionata, questa temperata e virile esser conviene. 17. Ché altro si conviene e dire e operare ad una etade che ad altra; perché certi costumi sono idonei e laudabili ad una etade che sono sconci e biasimevoli ad altra, sì come di sotto, nel quarto trattato di questo libro, sarà propria ragione mostrata. E io in quella dinanzi, a l’entrata de la mia gioventute parlai, e in questa dipoi, quella già trapassata. 18. E con ciò sia cosa che la vera intenzione mia fosse altra che quella che di fuori mostrano le canzoni predette, per allegorica esposizione quelle intendo mostrare, appresso la litterale istoria ragionata; sì che l’una ragione e l’altra darà sapore a coloro che a questa cena sono convitati. 19. Li quali priego tutti che se lo convivio non fosse tanto splendido quanto conviene a la sua grida, che non al mio volere ma a la mia facultade imputino ogni difetto; però che la mia voglia di compita e cara liberalitate è qui seguace. CAPITOLO II 1. Nel cominciamento di ciascuno bene ordinato convivio sogliono li sergenti prendere lo pane apposito, e quello purgare da ogni macula. Per che io, che ne la presente scrittura tengo luogo di quelli, da due macule mondare intendo primieramente questa esposizione, che per pane si conta nel mio corredo. 2. L’una è che parlare alcuno di sé medesimo pare non licito; l’altra è che parlare in esponendo troppo a fondo pare non ragionevole: e lo illicito e ’l non ragionevole lo coltello del mio giudicio purga in questa forma. 3. Non si concede per li retorici alcuno di sé medesimo sanza necessaria cagione parlare, e da ciò è l’uomo rimosso, perché parlare d’alcuno non si può, che il parladore non lodi o non biasimi quelli di cui elli parla; le quali due cagioni rusticamente stanno, a far [dire] di sé, ne la bocca di ciascuno. 4. E per levare un dubbio che qui surge, dico che peggio sta biasimare che lodare, avvegna che l’uno e l’altro non sia da fare. La ragione è che qualunque cosa è per sé da biasimare, è più laida che quella che è per accidente. 5. Dispregiar sé medesimo è per sé biasimevole, però che a l’amico dee l’uomo lo suo difetto contare strettamente, e nullo è più amico che l’uomo a sé; onde ne la camera de’ suoi pensieri se medesimo riprender dee e piangere li suoi difetti, e non palese. 6. Ancora: del non potere e del non sapere ben sé menare le più volte non è l’uomo vituperato, ma del non volere è sempre, perché nel volere e nel non volere nostro si giudica la malizia e la bontade; e però chi biasima sé medesimo appruova sé conoscere lo suo difetto, appruova sé non essere buono: per che, per sé, è da lasciare di parlare sé biasimando. 7. Lodare sé è da fuggire sì come male per accidente, in quanto lodare non si può, che quella loda non sia maggiormente vituperio. È loda ne la punta de le parole, è vituperio chi cerca loro nel ventre: ché le parole sono fatte per mostrare quello che non si sa, onde chi loda sé mostra che non creda essere buono tenuto; che non li incontra sanza maliziata conscienza, la quale, sé lodando, discuopre e, discoprendo, si biasima. 8. E ancora la propria loda e lo proprio biasimo è da fuggire per una ragione igualmente, sì come falsa testimonianza fare; però che non è uomo che sia di sé vero e giusto misuratore, tanto la propria caritate ne ’nganna. 9. Onde avviene che ciascuno ha nel suo giudicio le misure del falso mercatante, che vende con l’una e compera con l’altra; e ciascuno con ampia misura cerca lo suo mal fare e con piccola cerca lo bene; sì che ’l numero e la quantità e ’l peso del bene li pare più che se con giusta misura fosse saggiato, e quello del male meno. 10. Per che, parlando di sé con loda o col contrario, o dice falso per rispetto a la cosa di che parla; o dice falso per rispetto a la sua sentenza, c’ha l’una e l’altra falsitate. 11. E però, con ciò sia cosa che lo consentire è uno confessare, villania fa chi loda o chi biasima dinanzi al viso alcuno, perché né consentire né negare puote lo così estimato sanza cadere in colpa di lodarsi o di biasimare: salva qui la via de la debita correzione, che essere non può sanza improperio del fallo che correggere s’intende; e salva la via del debito onorare e magnificare, la quale passar non si può sanza far menzione de l’opere virtuose, o de le dignitadi virtuosamente acquistate. 12. Veramente, al principale intendimento tornando, dico, come è toccato di sopra, per necessarie cagioni lo parlare di sé è conceduto: e in tra l’altre necessarie cagioni due sono più manifeste. 13. L’una è quando sanza ragionare di sé grande infamia o pericolo non si può cessare; e allora si concede, per la ragione che de li due sentieri prendere lo men reo è quasi prendere un buono. E questa necessitate mosse Boezio di sé medesimo a parlare, acciò che sotto pretesto di consolazione escusasse la perpetuale infamia del suo essilio, mostrando quello essere ingiusto, poi che altro escusatore non si levava. 14. L’altra è quando, per ragionare di sé, grandissima utilitade ne segue altrui per via di dottrina; e questa ragione mosse Agustino ne le sue Confessioni a parlare di sé, ché per lo processo de la sua vita, lo quale fu di [non] buono in buono, e di buono in migliore, e di migliore in ottimo, ne diede essemplo e dottrina, la quale per sì vero testimonio ricevere non si potea. 15. Per che se l’una e l’altra di queste ragioni mi scusa, sufficientemente lo pane del mio formento è purgato de la prima sua macula. Movemi timore d’infamia, e movemi disiderio di dottrina dare, la quale altri veramente dare non può. 16. Temo la infamia di tanta passione avere seguita, quanta concepe chi legge le sopra nominate canzoni in me avere segnoreggiata; la quale infamia si cessa, per lo presente di me parlare, interamente, lo quale mostra che non passione ma vertù sia stata la movente cagione. 17. Intendo anche mostrare la vera sentenza di quelle, che per alcuno vedere non si può s’io non la conto, perché è nascosa sotto figura d’allegoria: e questo non solamente darà diletto buono a udire, ma sottile ammaestramento e a così parlare e a così intendere l’altrui scritture. eADV eADV eADV CAPITOLO III 1. Degna di molta riprensione è quella cosa che, ordinata a torre alcuno difetto, per sé medesima quello induce; sì come quelli che fosse mandato a partire una rissa e, prima che partisse quella, ne iniziasse un’altra. 2. E però che lo mio pane è purgato da una parte, convienlomi purgare da l’altra, per fuggire questa riprensione; ché lo mio scritto, che quasi comento dir si può, è ordinato a levar lo difetto de le canzoni sopra dette, ed esso per sé fia forse in parte alcuna un poco duro. La qual durezza, per fuggir maggiore difetto, non per ignoranza, è qui pensata. 3. Ahi, piaciuto fosse al dispensatore de l’universo che la cagione de la mia scusa mai non fosse stata! ché né altri contra me avria fallato, né io sofferto avria pena ingiustamente, pena, dico, d’essilio e di povertate. 4. Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno - nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo de la vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo cuore di riposare l’animo stancato e terminare lo tempo che m’è dato -, per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. 5. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito a li occhi a molti che forseché per alcuna fama in altra forma m’aveano imaginato, nel conspetto de’ quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare. 6. La ragione per che ciò incontra - non pur in me, ma in tutti - brievemente or qui piace toccare: e prima, perché la stima oltre la veritade si sciampia; e poi, perché la presenzia oltre la veritade stringe. 7. La fama buona principalmente è generata da la buona operazione ne la mente de l’amico, e da quella è prima partorita; ché la mente del nemico, avvegna che riceva lo seme, non concepe. 8. Quella mente che prima la partorisce, sì per far più ornato lo suo presente, sì per la caritade de l’amico che lo riceve non si tiene a li termini del vero, ma passa quelli. E quando per ornare ciò che dice li passa, contra conscienza parla; quando inganno di caritade li fa passare, non parla contra essa. 9. La seconda mente che ciò riceve, non solamente a la dilatazione de la prima sta contenta, ma ’l suo riportamento, sì come qu[as]i suo effetto, procura d’adornare; e sì, che per questo fare e per lo ’nganno che riceve de la caritade in lei generata, quella più ampia fa che a lei non viene, e con concordia e con discordia di conscienza come la prima. E questo fa la terza ricevitrice e la quarta, e così in infinito si dilata. 10. E così, volgendo le cagioni sopra dette ne le contrarie, si può vedere la ragione de la infamia, che simigliantemente si fa grande. Per che Virgilio dice nel quarto de lo Eneida che la Fama vive per essere mobile, e acquista grandezza per andare. 11. Apertamente adunque veder può chi vuole che la imagine per sola fama generata sempre è più ampia, quale che essa sia, che non è la cosa imaginata nel vero stato. CAPITOLO IV 1. Mostrata ragione innanzi per che la fama dilata lo bene e lo male oltre la vera quantità, resta in questo capitolo a mostrar quelle ragioni che fanno vedere perché la presenza ristringe per opposito; e mostrate quelle, si verrà lievemente al principale proposito, cioè de la sopra notata scusa. 2. Dico adunque che per tre cagioni la presenza fa la persona di meno valore ch’ella non è: l’una de le quali è puerizia, non dico d’etate ma d’animo; la seconda è invidia, - e queste sono ne lo giudicatore -; la terza è l’umana impuritade, e questa è ne lo giudicato. La prima si può brievemente così ragionare. 3. La maggiore parte de li uomini vivono secondo senso e non secondo ragione, a guisa di pargoli; e questi cotali non conoscono le cose se non semplicemente di fuori, e la loro bontade, la quale a debito fine è ordinata, non veggiono, per ciò che hanno chiusi li occhi de la ragione, li quali passano a veder quello. Onde tosto veggiono tutto ciò che ponno, e giudicano secondo la loro veduta. 4. E però che alcuna oppinione fanno ne l’altrui fama per udita, da la quale ne la presenza si discorda lo imperfetto giudicio che non secondo ragione ma secondo senso giudica solamente, quasi menzogna reputano ciò che prima udito hanno, e dispregiano la persona prima pregiata. 5. Onde appo costoro, che sono, ohmè, quasi tutti, la presenza ristringe l’una e l’altra qualitade. Questi cotali tosto sono vaghi e tosto sono sazii, spesso sono lieti e spesso tristi di brievi dilettazioni e tristizie, tosto amici e tosto nemici; ogni cosa fanno come pargoli, sanza uso di ragione. 6. La seconda si vede per queste ragioni: che paritade ne li viziosi è cagione d’invidia, e invidia è cagione di mal giudicio, però che non lascia la ragione argomentare per la cosa invidiata, e la potenza giudicativa è allora quel giudice che ode pur l’una parte. 7. Onde quando questi cotali veggiono la persona famosa, incontanente sono invidi, però che veggiono a s[é] pari membra e pari potenza, e temono, per la eccellenza di quel cotale, meno esser pregiati. 8. E questi non solamente passionati mal giudicano, ma, diffamando, fanno a li altri mal giudicare; per che appo costoro la presenza ristringe lo bene e lo male in ciascuno appresentato: e dico lo male, perché molti, dilettandosi ne le male operazioni, hanno invidia a’ mali operatori. 9. La terza si è l’umana impuritade, la quale si prende da la parte di colui ch’è giudicato, e non è sanza familiaritade e conversazione alcuna. Ad evidenza di questa, è da sapere che l’uomo è da più parti maculato, e, come dice Agustino, "nullo è sanza macula". 10. Quando è l’uomo maculato d’una passione, a la quale tal volta non può resistere; quando è maculato d’alcuno disconcio membro; e quando è maculato d’alcuno colpo di fortuna; e quando è maculato d’infamia di parenti o d’alcuno suo prossimo: le quali cose la fama non porta seco ma la presenza, e discuoprele per sua conversazione. 11. E queste macule alcuna ombra gittano sopra la chiarezza de la bontade, sì che la fanno parere men chiara e men valente. E questo è quello per che ciascuno profeta è meno onorato ne la sua patria; questo è quello per che l’uomo buono dee la sua presenza dare a pochi e la familiaritade dare a meno, acciò che ’l nome suo sia ricevuto, ma non spregiato. 12. E questa terza cagione può essere così nel male come nel bene, se le cose de la sua ragione si volgano ciascuna in suo contrario. Per che manifestamente si vede che per impuritade, sanza la quale non è alcuno, la presenza ristringe lo bene e lo male in ciascuno più che ’l vero non vuole. 13. Onde con ciò sia cosa che, come detto è di sopra, io mi sia quasi a tutti li Italici appresentato, per che fatto mi sono più vile forse che ’l vero non vuole non solamente a quelli a li quali mia fama era già corsa, ma eziandio a li altri, onde le mie cose sanza dubbio meno sono alleviate; conviemmi che con più alto stilo dea, ne la presente opera, un poco di gravezza, per la quale paia di maggiore autoritade. E questa scusa basti a la fortezza del mio comento. CAPITOLO V 1. Poi che purgato è questo pane da le macule accidentali, rimane ad escusare lui da una sustanziale, cioè da l’essere vulgare e non latino; che per similitudine dire si può di biado e non di frumento. 2. E da ciò brievemente lo scusano tre ragioni, che mossero me ad eleggere innanzi questo che l’altro: l’una si muove da cautela di disconvenevole ordinazione; l’altra da prontezza di liberalitade; la terza da lo naturale amore a propria loquela. 3. E queste cose per sue ragioni, a sodisfacimento di ciò che riprendere si potesse per la notata ragione, intendo per ordine ragionare in questa forma. 4. Quella cosa che più adorna e commenda l’umana operazione, e che più dirittamente a buon fine la mena, sì è l’abito di quelle disposizioni che sono ordinate a lo inteso fine; sì com’è ordinata al fine de la cavalleria franchezza d’animo e fortezza di corpo. 5. E così colui che è ordinato a l’altrui servigio dee avere quelle disposizioni che sono a quello fine ordinate, sì come subiezione, conoscenza, e obedienza, sanza le quali è ciascuno disordinato a ben servire; perché, s’elli non è subietto in ciascuna condizione, sempre con fatica e con gravezza procede nel suo servigio e rade volte quello continua; e se elli non è [conoscente....................................; e se elli non è] obediente, non serve mai se non a suo senno e a suo volere, che è più servigio d’amico che di servo. 6. Dunque, a fuggire questa disordinazione, conviene questo comento, che è fatto invece di servo a le ’nfrascritte canzoni, esser subietto a quelle in ciascuna sua ordinazione, ed essere conoscente del bisogno del suo signore e a lui obediente. 7. Le quali disposizioni tutte li mancavano, se latino e non volgare fosse stato, poi che le canzoni sono volgari. Ché, primamente, non era subietto ma sovrano, e per la [sua] nobilità e per vertù e per bellezza. Per nobilità, perché lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e corruttibile. 8. Onde vedemo ne le scritture antiche de le comedie e tragedie latine, che non si possono transmutare, quello medesimo che oggi avemo; che non avviene del volgare, lo quale a piacimento artificiato si transmuta. 9. Onde vedemo ne le cittadi d’Italia, se bene volemo agguardare, da cinquanta anni in qua molti vocabuli essere spenti e nati e variati; onde se ’l picciol tempo così transmuta, molto più transmuta lo maggiore. Sì ch’io dico, che se coloro che partiron d’esta vita già sono mille anni tornassero a le loro cittadi, crederebbero la loro cittade essere occupata da gente strana, per la lingua da loro discordante. 10. Di questo si parlerà altrove più compiutamente in uno libello ch’io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza. 11. Ancora, non era subietto ma sovrano per vertù. Ciascuna cosa è virtuosa in sua natura che fa quello a che ella è ordinata; e quanto meglio lo fa tanto è più virtuosa. Onde dicemo uomo virtuoso, che vive in vita contemplativa o attiva, a le quali è ordinato naturalmente; dicemo del cavallo virtuoso che corre forte e molto, a la qual cosa è ordinato; dicemo una spada virtuosa che ben taglia le dure cose, a che essa è ordinata. 12. Così lo sermone, lo quale è ordinato a manifestare lo concetto umano, è virtuoso quando quello fa, e più virtuoso quello che più lo fa; onde, con ciò sia cosa che lo latino molte cose manifesta concepute ne la mente che lo volgare far non può, sì come sanno quelli che hanno l’uno e l’altro sermone, più è la vertù sua che quella del volgare. 13. Ancora, non era subietto ma sovrano per bellezza. Quella cosa dice l’uomo essere bella, cui le parti debitamente si rispondono, per che de la loro armonia resulta piacimento. Onde pare l’uomo essere bello, quando le sue membra debitamente si rispondono; e dicemo bello lo canto, quando le voci di quello, secondo debito de l’arte, sono intra sé rispondenti. 14. Dunque quello sermone è più bello, ne lo quale più debitamente si rispondono [le parole; e più debitamente si rispondono] in latino che in volgare, però che lo volgare seguita uso, e lo latino arte: onde concedesi esser più bello, più virtuoso e più nobile. 15. Per che si conchiude lo principale intendimento, cioè che non sarebbe stato subietto a le canzoni, ma sovrano. CAPITOLO VI 1. Mostrato come lo presente comento non sarebbe stato subietto a le canzoni volgari se fosse stato latino, resta a mostrare come non sarebbe stato conoscente, né obediente a quelle; e poi sarà conchiuso come per cessare disconvenevoli disordinazioni fu mestiere volgarmente parlare. 2. Dico che ’l latino non sarebbe stato servo conoscente al signore volgare per cotal ragione. La conoscenza del servo si richiede massimamente a due cose perfettamente conoscere. 3. L’una si è la natura del signore: onde sono signori di sì asinina natura che comandano lo contrario di quello che vogliono, e altri che sanza dire vogliono essere intesi, e altri che non vogliono che ’l servo si muova a fare quello ch’è mestiere se nol comandano. 4. E perché queste variazioni sono ne li uomini non intendo al presente mostrare, che troppo multiplicherebbe la digressione; se non in tanto, che dico in genere che cotali sono quasi bestie, a li quali la ragione fa poco prode. Onde, se ’l servo non conosce la natura del suo signore, manifesto è che perfettamente servire nol può. 5. L’altra cosa è che si conviene conoscere al servo, li amici del suo signore, ché altrimenti non li potrebbe onorare né servire, e così non servirebbe perfettamente lo suo signore; con ciò sia cosa che li amici siano quasi parti d’un tutto, però che ’l tutto loro è uno volere e uno non volere. 6. Né lo comento latino avrebbe avuta la conoscenza di queste cose, che l’ha ’l volgare medesimo. Che lo latino non sia conoscente del volgare e de’ suoi amici, così si pruova. Quelli che conosce alcuna cosa in genere, non conosce quella perfettamente; sì come, se conosce da lungi uno animale, non conosce quello perfettamente, perché non sa se s’è cane o lupo o becco. 7. Lo latino conosce lo volgare in genere, ma non distinto: che se esso lo conoscesse distinto, tutti li volgari conoscerebbe, perché non è ragione che l’uno più che l’altro conoscesse; e così in qualunque uomo fosse tutto l’abito del latino, sarebbe l’abito di conoscenza distinto de lo volgare. 8. Ma questo non è; ché uno abituato di latino non distingue, s’elli è d’Italia, lo volgare [inghilese] da lo tedesco; né, lo tedesco, lo volgare italico dal provenzale. Onde è manifesto che lo latino non è conoscente de lo volgare. 9. Ancora, non è conoscente de’ suoi amici, però ch’è impossibile conoscere li amici, non conoscendo lo principale; onde, se non conosce lo latino lo volgare, come provato è di sopra, impossibile è a lui conoscere li suoi amici. 10. Ancora, sanza conversazione o familiaritade impossibile è a conoscere li uomini: e lo latino non ha conversazione con tanti in alcuna lingua con quanti ha lo volgare di quella, al quale tutti sono amici; e per consequente non può conoscere li amici del volgare. 11. E non è contradizione ciò che dire si potrebbe, che lo latino pur conversa con alquanti amici de lo volgare: ché però non è familiare di tutti, e così non è conoscente de li amici perfettamente; però che si richiede perfetta conoscenza, e non difettiva. eADV eADV CAPITOLO VII 1. Provato che lo comento latino non sarebbe stato servo conoscente, dirò come non sarebbe stato obediente. 2. Obediente è quelli che ha la buona disposizione che si chiama obedienza. La vera obedienza conviene avere tre cose, sanza le quali essere non può: vuole essere dolce e non amara; e comandata interamente, e non spontanea; e con misura, e non dismisurata. 3. Le quali tre cose era impossibile ad avere lo latino comento, e però era impossibile ad essere obediente. Che a lo latino fosse stato impossibile, come detto è, si manifesta per cotale ragione. 4. Ciascuna cosa che da perverso ordine procede è laboriosa, e per consequente è amara e non dolce, sì come dormire lo die e vegghiare la notte, e andare indietro e non innanzi. Comandare lo subietto a lo sovrano procede da ordine perverso - ché ordine diritto è lo sovrano a lo subietto comandare -, e così è amaro, e non dolce. E però che a l’amaro comandamento è impossibile dolcemente obedire, impossibile è, quando lo subietto comanda, la obedienza del sovrano essere dolce. 5. Dunque se lo latino è sovrano del volgare, come di sopra per più ragioni è mostrato, e le canzoni, che sono in persona di comandatore, sono volgari, impossibile è sua ragione esser dolce. 6. Ancora: allora è la obedienza interamente comandata e da nulla parte spontanea, quando quello che fa obediendo non averebbe fatto sanza comandamento, per suo volere, né tutto né in parte. 7. E però se a me fosse comandato di portare due guarnacche in dosso, e sanza comandamento io mi portasse l’una, dico che la mia obedienza non è interamente comandata, ma in parte spontanea. E cotale sarebbe stata quella del comento latino; e per consequente non sarebbe stata obedienza comandata interamente. 8. Che fosse stata cotale, appare per questo: che lo latino sanza lo comandamento di questo signore averebbe esposite molte parti de la sua sentenza - ed espone, chi cerca bene le scritture latinamente scritte - che non lo fa lo volgare in parte alcuna. 9. Ancora: è l’obedienza con misura e non dismisurata, quando al termine del comandamento va, e non più oltre: sì come la natura particulare è obediente a la universale, quando fa trentadue denti a l’uomo, e non più né meno; e quando fa cinque dita ne la mano, e non più né meno; e l’uomo è obediente a la giustizia [quando fa quello, e non più né meno, che la giustizia] comanda, al peccatore. 10. Né questo averebbe fatto lo latino, ma peccato averebbe non pur nel difetto e non pur nel soperchio, ma in ciascuno; e così non sarebbe stata la sua obedienza misurata, ma dismisurata, e per consequente non sarebbe stato obediente. 11. Che non fosse stato lo latino empitore del comandamento del suo signore, e che ne fosse stato soperchiatore, leggiermente si può mostrare. Questo signore, cioè queste canzoni, a le quali questo comento è per servo ordinato, comandano e vogliono essere disposte a tutti coloro a li quali puote venire sì lo loro intelletto, che quando parlano elle siano intese; e nessuno dubita, che s’elle comandassero a voce, che questo non fosse lo loro comandamento. 12. E lo latino non l’averebbe esposte se non a’ litterati, ché li altri non l’averebbero inteso. Onde con ciò sia cosa che molti più siano quelli che desiderano intendere quelle non litterati che litterati, seguitasi che non averebbe pieno lo suo comandamento come ’l volgare, che da li litterati e non litterati è inteso. 13. Anche, lo latino l’averebbe esposte a gente d’altra lingua, sì come a Tedeschi e Inghilesi e altri, e qui averebbe passato lo loro comandamento; ché contra loro volere, largo parlando dico, sarebbe, essere esposta la loro sentenza colà dov’elle non la potessero con la loro bellezza portare. 14. E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra transmutare, sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia. 15. E questa è la cagione per che Omero non si mutò di greco in latino, come l’altre scritture che avemo da loro. E questa è la cagione per che li versi del Salterio sono sanza dolcezza di musica e d’armonia; ché essi furono transmutati d’ebreo in greco e di greco in latino, e ne la prima transmutazione tutta quella dolcezza venne meno. 17. E così è conchiuso ciò che si promise nel principio del capitolo dinanzi a questo immediate. eADV CAPITOLO VIII 1. Quando è mostrato per le sufficienti ragioni come, per cessare disconvenevoli disordinamenti, converrebbe, [a le] nominate canzoni aprire e mostrare, comento volgare e non latino, mostrare intendo come ancora pronta liberalitate mi fece questo eleggere e l’altro lasciare. 2. Puotesi adunque la pronta liberalitate in tre cose notare, le quali seguitano questo volgare, e lo latino non averebbero seguitato. La prima è dare a molti; la seconda è dare utili cose; la terza è, sanza essere domandato lo dono, dare quello. 3. Ché dare a uno e giovare a uno è bene; ma dare a molti e giovare a molti è pronto bene, in quanto prende simiglianza da li benefici di Dio, che è universalissimo benefattore. 4. E ancora, dare a molti è impossibile sanza dare a uno, acciò che uno in molti sia inchiuso; ma dare a uno si può bene, sanza dare a molti. Però chi giova a molti fa l’uno bene e l’altro; chi giova a uno, fa pur un bene: onde vedemo li ponitori de le leggi massimamente pur a li più comuni beni tenere confisi li occhi, quelle componendo. 5. Ancora, dare cose non utili al prenditore pure è bene, in quanto colui che dà mostra almeno sé essere amico; ma non è perfetto bene, e così non è pronto: come quando uno cavaliere donasse ad uno medico uno scudo, e quando uno medico donasse a uno cavaliere inscritti li Aphorismi d’Ipocras ovvero li Tegni di Galieno. Per che li savi dicono che la faccia del dono dee essere simigliante a quella del ricevente, cioè a dire che si convegna con lui, e che sia utile: e in quello è detta pronta liberalitade di colui che così dicerne donando. 6. Ma però che li morali ragionamenti sogliono dare desiderio di vedere l’origine loro, brevemente in questo capitolo intendo mostrare quattro ragioni, per che di necessitade lo dono, acciò che in quello sia pronta liberalitade, conviene essere utile a chi riceve. 7. Primamente, però che la vertù dee essere lieta, e non trista in alcuna sua operazione; onde, se ’l dono non è lieto nel dare e nel ricevere, non è in esso perfetta vertù, non è pronta. Questa letizia non può dare altro che utilitade, che rimane nel datore per lo dare, e che viene nel ricevitore per ricevere. 8. Nel datore adunque dee essere la providenza in far sì che de la sua parte rimagna l’utilitade de l’onestate, ch’è sopra ogni utilitade, e far sì che a lo ricevitore vada l’utilitade de l’uso de la cosa donata; e così sarà l’uno e l’altro lieto, e per consequente sarà più pronta la liberalitade. 9. Secondamente, però che la vertù dee muovere le cose sempre al migliore. Ché così come sarebbe biasimevole operazione fare una zappa d’una bella spada o fare un bel nappo d’una bella chitarra, così è biasimevole muover la cosa d’un luogo dove sia utile e portarla in parte dove sia meno utile. 10. E però che biasimevole è invano adoperare, biasimevole è non solamente a porre la cosa in parte dove sia meno utile, ma eziandio in parte ove sia igualmente utile. 11. Onde, acciò che sia laudabile lo mutare de le cose, conviene sempre essere [al] migliore, per ciò che dee massimamente essere laudabile: e questo non [si] può fare nel dono, se ’l dono per transmutazione non viene più caro; né più caro può venire, se esso non è più utile ad usare al ricevitore che al datore. Per che si conchiude che ’l dono conviene essere utile a chi lo riceve, acciò che sia in esso pronta liberalitade. 12. Terziamente, però che la operazione de la vertù per sé dee essere acquistatrice d’amici; con ciò sia cosa che la nostra vita di quello abbisogni, e lo fine de la vertù sia la nostra vita essere contenta. Onde acciò che ’l dono faccia lo ricevitore amico, conviene a lui essere utile, però che l’utilitade sigilla la memoria de la imagine del dono, l[a] quale è nutrimento de l’amistade; e tanto più forte, quanto essa è migliore. 13. Onde suole dire Martino: "non caderà de la mia mente lo dono che mi fece Giovanni". Per che, acciò che nel dono sia la sua vertù, la quale è liberalitade, e che essa sia pronta, conviene essere utile a chi riceve. 14. Ultimamente, però che la vertù dee avere atto libero e non sforzato. Atto libero è quando una persona va volentieri ad alcuna parte, che si mostra nel tener volto lo viso in quella; atto sforzato è quando contra voglia si va, che si mostra in non guardare ne la parte dove si va. 15. E allora sì guarda lo dono a quella parte, quando si dirizza al bisogno de lo ricevente. E però che dirizzarsi ad esso non si può se non sia utile, conviene, acciò che sia con atto libero la vertù, essere [utile] lo dono a la parte ov’elli vae, ch’è lo ricevitore; e per consequente conviene essere ne lo dono l’utilità de lo ricevitore, acciò che quinci sia pronta liberalitade. 16. La terza cosa, ne la quale si può notare la pronta liberalitade, si è dare non domandato: acciò che ’l domandato è da una parte non vertù ma mercatantia, però che lo ricevitore compera, tutto che ’l datore non venda. Per che dice Seneca che "nulla cosa più cara si compera che quella dove i prieghi si spendono". 17. Onde acciò che nel dono sia pronta liberalitade e che essa si possa in esso notare, a[nc]ora si conviene esser netto d’ogni atto di mercatantia, conviene esser lo dono non domandato. 18. Perché sì caro costa quello che si priega, non intendo qui ragionare, perché sufficientemente si ragionerà ne l’ultimo trattato di questo libro. CAPITOLO IX 1. Da tutte le tre sopra notate condizioni, che convegnono concorrere acciò che sia nel beneficio la pronta liberalitade, era lo comento latino [lontano], e lo volgare è con quelle, sì come si può manifestamente così contare. 2. Non avrebbe lo latino così servito a molti: ché se noi reducemo a memoria quello che di sovra è ragionato, li litterati fuori di lingua italica non averebbono potuto avere questo servigio, e quelli di questa lingua, se noi volemo bene vedere chi sono, troveremo che de’ mille l’uno ragionevolmente non sarebbe stato servito; però che non l’averebbero ricevuto, tanto sono pronti ad avarizia che da ogni nobilitade d’animo li rimuove, la quale massimamente desidera questo cibo. 3. E a vituperio di loro dico che non si deono chiamare litterati, però che non acquistano la lettera per lo suo uso, ma in quanto per quella guadagnano denari o dignitate; sì come non si dee chiamare citarista chi tiene la cetera in casa per prestarla per prezzo, e non per usarla per sonare. 4. Tornando dunque al principale proposito, dico che manifestamente si può vedere come lo latino averebbe a pochi dato lo suo beneficio, ma lo volgare servirà veramente a molti. 5. Ché la bontà de l’animo, la quale questo servigio attende, è in coloro che per malvagia disusanza del mondo hanno lasciata la litteratura a coloro che l’hanno fatta di donna meretrice; e questi nobili sono principi, baroni, cavalieri, e molt’altra nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte in questa lingua, volgari, e non litterati. 6. Ancora, non sarebbe lo latino stato datore d’utile dono, che sarà lo volgare. Però che nulla cosa è utile, se non in quanto è usata, né è la sua bontade in potenza, che non è essere perfettamente; sì come l’oro, le margarite e li altri tesori che sono sotterrati .........; però che quelli che sono a mano de l’avaro sono in più basso loco che non è la terra là dove lo tesoro è nascosto. 7. Lo dono veramente di questo comento è la sentenza de le canzoni a le quali fatto è, la qual massimamente intende inducere li uomini a scienza e a vertù, sì come si vedrà per lo pelago del loro trattato. 8. Questa sentenza non possono non avere in uso quelli ne li quali vera nobilità è seminata per lo modo che si dirà nel quarto trattato; e questi sono quasi tutti volgari, sì come sono quelli nobili che di sopra, in questo capitolo, sono nominati. 9. E non ha contradizione perché alcuno litterato sia di quelli; ché, sì come dice il mio maestro Aristotile nel primo de l’Etica, "una rondine non fa primavera". È adunque manifesto che lo volgare darà cosa utile, e lo latino non l’averebbe data. 10. Ancora, darà lo volgare dono non dimandato, che non l’averebbe dato lo latino: però che darà sé medesimo per comento, che mai non fu domandato da persona; e questo non si può dire de lo latino, che per comento e per chiose a molte scritture è già stato domandato, sì come ne’ loro principii si può vedere apertamente in molte. 11. E così è manifesto che pronta liberalitade mi mosse al volgare anzi che a lo latino. CAPITOLO X 1. Grande vuole essere la scusa, quando a così nobile convivio per le sue vivande, a così onorevole per li suoi convitati, s’appone pane di biado e non di frumento; e vuole essere evidente ragione che partire faccia l’uomo da quello che per li altri è stato servato lungamente, sì come di comentare con latino. 2. E però vuole essere manifesta la ragione, che de le nuove cose lo fine non è certo; acciò che la esperienza non è mai avuta onde le cose usate e servate sono e nel processo e nel fine commisurate. 3. Però si mosse la Ragione a comandare che l’uomo avesse diligente riguardo ad entrare nel nuovo cammino, dicendo che "ne lo statuire le nuove cose evidente ragione dee essere quella che partire ne faccia da quello che lungamente è usato". 4. Non si maravigli dunque alcuno se lunga è la digressione de la mia scusa, ma, sì come necessaria, la sua lunghezza paziente sostenga. 5. La quale proseguendo, dico che - poi ch’è manifesto come per cessare disconvenevole disordinazione e come per prontezza di liberalitade io mi mossi al volgare comento e lasciai lo latino - l’ordine de la intera scusa vuole ch’io mostri come a ciò mi mossi per lo naturale amore de la propria loquela; che è la terza e l’ultima ragione che a ciò mi mosse. 6. Dico che lo naturale amore principalmente muove l’amatore a tre cose: l’una si è a magnificare l’amato; l’altra è ad esser geloso di quello; l’altra è a difendere lui, sì come ciascuno può vedere continuamente avvenire. E queste tre cose mi fecero prendere lui, cioè lo nostro volgare, lo qual naturalmente e accidentalmente amo e ho amato. 7. Mossimi prima per magnificare lui. E che in ciò io lo magnifico, per questa ragione vedere si può: avvegna che per molte condizioni di grandezze le cose si possono magnificare, cioè fare grandi, e nulla fa tanto grande quanto la grandezza de la propia bontade, la quale è madre e conservatrice de l’altre grandezze. 8. Onde nulla grandezza puote avere l’uomo maggiore che quella de la virtuosa operazione, che è sua propia bontade; per la quale le grandezze de le vere dignitadi, de li veri onori, de le vere potenze, de le vere ricchezze, de li veri amici, de la vera e chiara fama, e acquistate e conservate sono. 9. E questa grandezza do io a questo amico, in quanto quello elli di bontade avea in podere e occulto, io lo fo avere in atto e palese ne la sua propria operazione, che è manifestare conceputa sentenza. 10. Mossimi secondamente per gelosia di lui. La gelosia de l’amico fa l’uomo sollicito a lunga provedenza. Onde pensando che lo desiderio d’intendere queste canzoni, a alcuno illitterato avrebbe fatto lo comento latino transmutare in volgare, e temendo che ’l volgare non fosse stato posto per alcuno che l’avesse laido fatto parere, come fece quelli che transmutò lo latino de l’Etica - ciò fu Taddeo ipocratista -, providi a ponere lui, fidandomi di me di più che d’un altro. 11. Mossimi ancora per difendere lui da molti suoi accusatori, li quali dispregiano esso e commendano li altri, massimamente quello di lingua d’oco, dicendo che è più bello e migliore quello che questo; partendose in ciò da la veritade. 12. Ché per questo comento la gran bontade del volgare di sì [si vedrà]; però che si vedrà la sua vertù, sì com’è per esso altissimi e novissimi concetti convenevolmente, sufficientemente e acconciamente, quasi come per esso latino, manifestare; [la quale non si potea bene manifestare] ne le cose rimate, per le accidentali adornezze che quivi sono connesse, cioè la rima e lo ri[ti]mo e lo numero regolato: sì come non si può bene manifestare la bellezza d’una donna, quando li adornamenti de l’azzimare e de le vestimenta la fanno più ammirare che essa medesima. 13. Onde chi vuole ben giudicare d’una donna, guardi quella quando solo sua naturale bellezza si sta con lei, da tutto accidentale adornamento discompagnata: sì come sarà questo comento, nel quale si vedrà l’agevolezza de le sue sillabe, le proprietadi de le sue co[stru]zioni e le soavi orazioni che di lui si fanno; le quali chi bene agguarderà, vedrà essere piene di dolcissima e d’amabilissima bellezza. 14. Ma però che virtuosissimo è, ne la ’ntenzione mostrare lo difetto e la malizia de lo accusatore, dirò, a confusione di coloro che accusano la italica loquela, perché a ciò fare si muovono; e di ciò farò al presente speziale capitolo, perché più notevole sia la loro infamia. CAPITOLO XI 1. A perpetuale infamia e depressione de li malvagi uomini d’Italia, che commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano, dico che la loro mossa viene da cinque abominevoli cagioni. 2. La prima è cechitade di discrezione; la seconda, maliziata escusazione; la terza, cupidità di vanagloria; la quarta, argomento d’invidia; la quinta e ultima, viltà d’animo, cioè pusillanimità. E ciascuna di queste retadi ha sì grande setta che pochi sono quelli che siano da esse liberi. 3. De la prima si può così ragionare. Sì come la parte sensitiva de l’anima ha suoi occhi, con li quali apprende la differenza de le cose in quanto elle sono di fuori colorate, così la parte razionale ha suo occhio, con lo quale apprende la differenza de le cose in quanto sono ad alcuno fine ordinate: e questa è la discrezione. 4. E sì come colui che è cieco de li occhi sensibili va sempre secondo che li altri giudicando lo male e lo bene, così colui che è cieco del lume della discrezione sempre va nel suo giudicio secondo il grido, o diritto o falso; onde qualunque ora lo guidatore è cieco, conviene che esso e quello, anche cieco, ch’a lui s’appoggia, vegnano a mal fine. Però è scritto che "’l cieco al cieco farà guida, e così cadranno ambedue ne la fossa". 5. Questa grida è stata lungamente contro a nostro volgare, per le ragioni che di sotto si ragioneranno, appresso di questa. E li ciechi sopra notati, che sono quasi infiniti, con la mano in su la spalla a questi mentitori, sono caduti ne la fossa de la falsa oppinione, de la quale uscire non sanno. 6. De l’abito di questa luce discretiva massimamente le populari persone sono orbate; però che, occupate dal principio de la loro vita ad alcuno mestiere, dirizzano sì l’animo loro a quello per forza de la necessitate, che ad altro non intendono. 7. E però che l’abito di vertude, sì morale come intellettuale, subitamente avere non si può, ma conviene che per usanza s’acquisti, ed ellino la loro usanza pongono in alcuna arte e a discernere l’altre cose non curano, impossibile è a loro discrezione avere. 8. Per che incontra che molte volte gridano Viva la loro morte, e Muoia la loro vita, pur che alcuno cominci; e quest’è pericolosissimo difetto ne la loro cechitade. Onde Boezio giudica la populare gloria vana, perché la vede sanza discrezione. 9. Questi sono da chiamare pecore, e non uomini; ché se una pecora si gittasse da una ripa di mille passi, tutte l’altre l’andrebbero dietro; e se una pecora per alcuna cagione al passare d’una strada salta, tutte l’altre saltano, eziandio nulla veggendo da saltare. 10. E io ne vidi già molte in uno pozzo saltare per una che dentro vi saltò, forse credendo saltare uno muro, non ostante che ’l pastore, piangendo e gridando, con le braccia e col petto dinanzi a esse si parava. 11. La seconda setta contra nostro volgare si fa per una maliziata scusa. Molti sono che amano più d’essere tenuti maestri che d’essere, e per fuggir lo contrario, cioè di non esser tenuti, sempre danno colpa a la materia de l’arte apparecchiata, o vero a lo strumento; sì come lo mal fabbro biasima lo ferro appresentato a lui, e lo malo citarista biasima la cetera, credendo dare la colpa del mal coltello e del mal sonare al ferro e alla cetera, e levarla a sé. 12. Così sono alquanti, e non pochi, che vogliono che l’uomo li tegna dicitori; e per scusarsi dal non dire o dal dire male accusano e incolpano la materia, cioè lo volgare proprio, e commendano l’altro lo quale non è loro richesto di fabbricare. 13. E chi vuole vedere come questo ferro è da biasimare, guardi che opere ne fanno li buoni artefici, e conoscerà la malizia di costoro che, biasimando lui, si credono scusare. 14. Contra questi cotali grida Tullio nel principio d’un suo libro, che si chiama Libro di Fine de’ Beni, però che al suo tempo biasimavano lo latino romano e commendavano la gramatica greca, per simiglianti cagioni che questi fanno vile lo parlare italico e prezioso quello di Provenza. 15. La terza setta contra nostro volgare si fa per cupiditate di vanagloria. Sono molti che per ritrarre cose poste in altrui lingua e commendare quella, credono più essere ammirati che ritraendo quelle de la sua. E sanza dubbio non è sanza loda d’ingegno apprendere bene la lingua strana; ma biasimevole è commendare quella oltre a la verità, per farsi glorioso di tale acquisto. 16. La quarta si fa da uno argomento d’invidia. Sì come è detto di sopra, la invidia è sempre dove è alcuna paritade. Intra li uomini d’una lingua è la paritade del volgare; e perché l’uno quella non sa usare come l’altro, nasce invidia. 17. Lo invidioso poi argomenta, non biasimando colui che dice di non saper dire, ma biasima quello che è materia de la sua opera, per torre, dispregiando l’opera da quella parte, a lui che dice onore e fama; sì come colui che biasimasse lo ferro d’una spada, non per biasimo dare al ferro, ma a tutta l’opera del maestro. 18. La quinta e ultima setta si muove da viltà d’animo. Sempre lo magnanimo si magnifica in suo cuore, e così lo pusillanimo, per contrario, sempre si tiene meno che non è. 19. E perché magnificare e parvificare sempre hanno rispetto ad alcuna cosa, per comparazione a la quale si fa lo magnanimo grande e lo pusillanimo piccolo, avviene che ’l magnanimo sempre fa minori li altri che non sono, e lo pusillanimo sempre maggiori. 20. E però che con quella misura che l’uomo misura sé medesimo, misura le sue cose, che sono quasi parte di sé medesimo, avviene che al magnanimo le sue cose sempre paiono migliori che non sono, e l’altrui men buone: lo pusillanimo sempre le sue cose crede valere poco, e l’altrui assai. 21. Onde molti per questa viltade dispregiano lo proprio volgare, e l’altrui pregiano: e tutti questi cotali sono li abominevoli cattivi d’Italia che hanno a vile questo prezioso volgare, lo quale, s’è vile in alcuna [cosa], non è se non in quanto elli suona ne la bocca meretrice di questi adulteri; a lo cui condutto vanno li ciechi de li quali ne la prima cagione feci menzione. eADV eADV eADV CAPITOLO XII 1. Se manifestamente per le finestre d’una casa uscisse fiamma di fuoco, e alcuno dimandasse se là dentro fosse il fuoco, e un altro rispondesse a lui di sì, non saprei bene giudicare qual di costoro fosse da schernire di più. E non altrimenti sarebbe fatta la dimanda e la risposta di colui e di me, che mi domandasse se amore a la mia loquela propria è in me e io li rispondesse di sì, appresso le su proposte ragioni. 2. Ma tuttavia, e a mostrare che non solamente amore ma perfettissimo amore di quella è in me, e a biasimare ancora li suoi avversarii ciò mostrando a chi bene intenderà, dirò come a lei fui fatto amico, e poi come l’amistà è confermata. 3. Dico che, sì come vedere si può che s[crive] Tullio in quello De Amicitia, non discordando da la sentenza del Filosofo aperta ne l’ottavo e nel nono de l’Etica, naturalmente la prossimitade e la bontade sono cagioni d’amore generative; lo beneficio, lo studio e la consuetudine sono cagioni d’amore accrescitive. E tutte queste cagioni vi sono state a generare e a confortare l’amore ch’io porto al mio volgare, sì come brievemente io mosterrò. 4. Tanto è la cosa più prossima quanto, di tutte le cose del suo genere, altrui è più unita: onde di tutti li uomini lo figlio è più prossimo al padre; di tutte l’arti la medicina è più prossima al medico, e la musica al musico, però che a loro sono più unite che l’altre; di tutta la terra è più prossima quella dove l’uomo tiene sé medesimo, però che è ad esso più unita. 5. E così lo volgare è più prossimo quanto è più unito, che uno e solo è prima ne la mente che alcuno altro, e che non solamente per sé è unito, ma per accidente, in quanto è congiunto con le più prossime persone, sì come con li parenti e con li propri cittadini e con la propria gente. 6. E questo è lo volgare proprio; lo quale è non prossimo, ma massimamente prossimo a ciascuno. Per che, se la prossimitade è seme d’amistà, come detto è di sopra, manifesto è ch’ella è de le cagioni stata de l’amore ch’io porto a la mia loquela, che è a me prossima più che l’altre. 7. La sopra detta cagione, cioè d’essere più unito quello ch’è solo prima in tutta la mente, mosse la consuetudine de la gente, che fanno li primogeniti succedere solamente, sì come più propinqui, e perché più propinqui più amati. 8. Ancora, la bontade fece me a lei amico. E qui è da sapere che ogni bontade propria in alcuna cosa, è amabile in quella: sì come ne la maschiezza essere ben barbuto, e nella femminezza essere ben pulita di barba in tutta la faccia; sì come nel bracco bene odorare, e sì come nel veltro ben correre. 9. E quanto ella è più propria, tanto ancora è più amabile; onde, avvegna che ciascuna vertù sia amabile ne l’uomo, quella è più amabile in esso che è più umana, e questa è la giustizia, la quale è solamente ne la parte razionale o vero intellettuale, cioè ne la volontade. 10. Questa è tanto amabile, che, sì come dice lo Filosofo nel quinto de l’Etica, li suoi nimici l’amano, sì come sono ladroni e rubatori; e però vedemo che ’l suo contrario, cioè la ingiustizia, massimamente è odiata, sì come è tradimento, ingratitudine, falsitade, furto, rapina, inganno e loro simili. 11. Li quali sono tanto inumani peccati, che ad iscusare sé de l’infamia di quelli, si concede da lunga usanza che uomo parli di sé, sì come detto è di sopra, e possa dire sé essere fedele e leale. 12. Di questa vertù innanzi dicerò più pienamente nel quartodecimo trattato; e qui lasciando, torno al proposito. Provato è adunque la bontà de la cosa più propria [più essere amabile in quella; per che, a mostrare quale in essa è più propria,] è da vedere quella che più in essa è amata e commendata, e quella è essa. 13. E noi vedemo che in ciascuna cosa di sermone lo bene manifestare del concetto sì è più amato e commendato: dunque è questa la prima sua bontade. E con ciò sia cosa che questa sia nel nostro volgare, sì come manifestato è di sopra in altro capitolo, manifesto è ched ella è de le cagioni stata de l’amore ch’io porto ad esso; poi che, sì come detto è, la bontade è cagione d’amore generativa. CAPITOLO XIII 1. Detto come ne la propria loquela sono quelle due cose per le quali io sono fatto a lei amico, cioè prossimitade a me e bontà propria, dirò come per beneficio e concordia di studio e per benivolenza di lunga consuetudine l’amistà è confermata e fatta grande. 2. Dico, prima, ch’io per me ho da lei ricevuto dono di grandissimi benefici. E però è da sapere che intra tutti i benefici è maggiore quello che più è prezioso a chi riceve: e nulla cosa è tanto preziosa, quanto quella per la quale tutte l’altre si vogliono; e tutte l’altre cose si vogliono per la perfezione di colui che vuole. 3. Onde con ciò sia cosa che due perfezioni abbia l’uomo, una prima e una seconda - la prima lo fa essere, la seconda lo fa essere buono -, se la propria loquela m’è stata cagione e de l’una e de l’altra, grandissimo beneficio da lei ho ricevuto. E ch’ella sia stata a me d’essere [cagione, e ancora di buono essere] se per me non stesse, brievemente si può mostrare. 4. Non è [inconveniente] a una cosa esser più cagioni efficienti, avvegna che una sia massima de l’altre; onde lo fuoco e lo martello sono cagioni efficienti de lo coltello, avvegna che massimamente è il fabbro. Questo mio volgare fu congiugnitore de li miei generanti, che con esso parlavano, sì come ’l fuoco è disponitore del ferro al fabbro che fa lo coltello; per che manifesto è lui essere concorso a la mia generazione, e così essere alcuna cagione del mio essere. 5. Ancora, questo mio volgare fu introduttore di me ne la via di scienza, che è ultima perfezione, in quanto con esso io entrai ne lo latino e con esso mi fu mostrato: lo quale latino poi mi fu via a più innanzi andare. E così è palese, e per me conosciuto, esso essere stato a me grandissimo benefattore. 6. Anche, è stato meco d’uno medesimo studio, e ciò posso così mostrare. Ciascuna cosa studia naturalmente a la sua conservazione: onde, se lo volgare per sé studiare potesse, studierebbe a quella; e quella sarebbe, acconciare sé a più stabilitade, e più stabilitade non potrebbe avere che in legar sé con numero e con rime. 7. E questo medesimo studio è stato mio, sì come tanto è palese che non dimanda testimonianza. Per che uno medesimo studio è stato lo suo e ’l mio; per che di questa concordia l’amistà è confermata e accresciuta. 8. Anche c’è stata la benivolenza de la consuetudine, ché dal principio de la mia vita ho avuta con esso benivolenza e conversazione, e usato quello diliberando, interpetrando e questionando. 9. Per che, se l’amistà s’accresce per la consuetudine, sì come sensibilmente appare, manifesto è che essa in me massimamente è cresciuta, che sono con esso volgare tutto mio tempo usato. 10. E così si vede essere a questa amistà concorse tutte le cagioni generative e accrescitive de l’amistade: per che si conchiude che non solamente amore, ma perfettissimo amore sia quello ch’io a lui debbo avere e ho. 11. Così rivolgendo li occhi a dietro, e raccogliendo le ragioni prenotate, puotesi vedere questo pane, col quale si deono mangiare le infrascritte canzoni, essere sufficientemente purgato da le macule, e da l’essere di biado; per che tempo è d’intendere a ministrare le vivande. 12. Questo sarà quello pane orzato del quale si satolleranno migliaia, e a me ne soperchieranno le sporte piene. Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade, per lo usato sole che a loro non luce. DANTE ALIGHIERI CONVIVIO TRATTATO SECONDO eADV eADV CANZONE PRIMA eADV Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete, udite il ragionar ch’è nel mio core, ch’io nol so dire altrui, sì mi par novo. El ciel che segue lo vostro valore, 5 gentili creature che voi sete, mi tragge ne lo stato ov’io mi trovo. Onde ’l parlar de la vita ch’io provo par che si drizzi degnamente a vui: però vi priego che lo mi ’ntendiate. 10 Io vi dirò del cor la novitate come l’anima trista piange in lui, e come un spirto contra lei favella, che vien pe’ raggi de la vostra stella. Suol esser vita de lo cor dolente 15 un soave penser, che se ne gia molte fiate a’ pie’ del nostro Sire, eADV eADV ove una donna gloriar vedia, di cui parlava me sì dolcemente che l’anima dicea: "Io men vo’ gire". 20 Or apparisce chi lo fa fuggire eADV e segnoreggia me di tal virtute, che ’l cor ne trema che di fuori appare. Questi mi face una donna guardare, e dice: "Chi veder vuol la salute, 25 faccia che li occhi d’esta donna miri, sed e’ non teme angoscia di sospiri". Trova contraro tal che lo distrugge l’umil pensero, che parlar mi sole d’un’angela che ’n cielo è coronata. 30 L’anima piange, sì ancor len dole, e dice: "Oh lassa a me, come si fugge questo piatoso che m’ha consolata!" De li occhi miei dice questa affannata: "Qual ora fu che tal donna li vide! 35 e perché non credeano a me di lei? eADV eADV Io dicea:’Ben ne li occhi di costei de’ star colui che le mie pari ancide!’ E non mi valse ch’io ne fossi accorta che non mirasser tal, ch’io ne son morta". 40 "Tu non se’ morta, ma se’ ismarrita, eADV anima nostra, che sì ti lamenti," dice uno spiritel d’amor gentile; "che quella bella donna, che tu senti, ha transmutata in tanto la tua vita, 45 che n’hai paura, sì se’ fatta vile! Mira quant’ ell’è pietosa e umile, saggia e cortese ne la sua grandezza, e pensa di chiamarla donna, omai! Ché se tu non t’inganni, tu vedrai 50 di sì alti miracoli adornezza, che tu dirai: ‘Amor, segnor verace, ecco l’ancella tua; fa che ti piace’". Canzone, io credo che saranno radi color che tua ragione intendan bene, eADV eADV 55 tanto la parli faticosa e forte. Onde, se per ventura elli addivene che tu dinanzi da persone vadi che non ti paian d’essa bene accorte, allor ti priego che ti riconforte, 60 dicendo lor, diletta mia novella: eADV "Ponete mente almen come son bella!" CAPITOLO I 1. Poi che proemialmente ragionando, me ministro, è lo mio pane ne lo precedente trattato con sufficienza preparato, lo tempo chiama e domanda la mia nave uscir di porto; per che, dirizzato l’artimone de la ragione a l’òra del mio desiderio, entro in pelago con isperanza di dolce cammino e di salutevole porto e laudabile ne la fine de la mia cena. Ma però che più profittabile sia questo mio cibo, prima che vegna la prima vivanda voglio mostrare come mangiare si dee. 2. Dico che, sì come nel primo capitolo è narrato, questa sposizione conviene essere litterale e allegorica. E a ciò dare a intendere, si vuol sapere che le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. 3. L’uno si chiama litterale, [e questo è quello che non si stende più oltre che la lettera de le parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti. L’altro si chiama allegorico,] e questo è quello che si nasconde sotto ’l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna: come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere; che vuol dire che lo savio uomo con lo strumento de la sua voce fa[r]ia mansuescere e umiliare li crudeli cuori, e fa[r]ia muovere a la sua volontade coloro che non hanno vita di scienza e d’arte: e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre. 4. E perché questo nascondimento fosse trovato per li savi, nel penultimo trattato si mosterrà. Veramenti li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato. 5. Lo terzo senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro e di loro discenti: sì come appostare si può ne lo Evangelio, quando Cristo salio lo monte per transfigurarsi, che de li dodici Apostoli menò seco li tre; in che moralmente si può intendere che a le secrete cose noi dovemo avere poca compagnia. 6. Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora [sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa de le superne cose de l’etternal gloria: sì come vedere si può in quello canto del Profeta che dice che, ne l’uscita del popolo d’Israel d’Egitto, Giudea è fatta santa e libera. 7. Che avvegna essere vera secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero quello che spiritualmente s’intende, cioè che ne l’uscita de l’anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate. 8. E in dimostrar questo, sempre lo litterale dee andare innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi, sanza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico. 9. È impossibile, però che in ciascuna cosa che ha dentro e di fuori è impossibile venire al dentro, se prima non si viene al di fuori: onde, con ciò sia cosa che ne le scritture [la litterale sentenza] sia sempre lo di fuori, impossibile è venire a l’altre, massimamente a l’allegorica, sanza prima venire a la litterale. 10. Ancora è impossibile però che in ciascuna cosa, naturale ed artificiale, è impossibile procedere a la forma, sanza prima essere disposto lo subietto sopra che la forma dee stare: sì come impossibile la forma de l’oro è venire, se la materia, cioè lo suo subietto, non è digesta e apparecchiata; e la forma de l’arca venire, se la materia, cioè lo legno, non è prima disposta e apparecchiata. 11. Onde con ciò sia cosa che la litterale sentenza sempre sia subietto e materia de l’altre, massimamente de l’allegorica, impossibile è prima venire a la conoscenza de l’altre che a la sua. 12. Ancora è impossibile però che in ciascuna cosa, naturale ed artificiale, procedere, se prima non è fatto lo fondamento, sì come ne la casa e sì come ne lo studiare: onde, con ciò sia cosa che ’l dimostrare sia edificazione di scienza, e la litterale dimostrazione sia fondamento de l’altre, massimamente de l’allegorica, impossibile è a l’altre venire prima che a quella. 13. Ancora, posto che possibile fosse, sarebbe inrazionale, cioè fuori d’ordine, e però con molta fatica e con molto errore si procederebbe. Onde, sì come dice lo Filosofo nel primo de la Fisica, la natura vuole che ordinatamente si proceda ne la nostra conoscenza, cioè procedendo da quello che conoscemo meglio in quello che conoscemo non così bene: dico che la natura vuole, in quanto questa via di conoscere è in noi naturalmente innata. 14. E però se li altri sensi dal litterale sono meno intesi - che sono, sì come manifestamente pare -, inrazionabile sarebbe procedere ad essi dimostrare, se prima lo litterale non fosse dimostrato. 15. Io adunque, per queste ragioni, tuttavia sopra ciascuna canzone ragionerò prima la litterale sentenza, e appresso di quella ragionerò la sua allegoria, cioè la nascosa veritade; e talvolta de li altri sensi toccherò incidentemente, come a luogo e a tempo si converrà. CAPITOLO II 1. Cominciando adunque, dico che la stella di Venere due fiate rivolta era in quello suo cerchio che la fa parere serotina e matutina, secondo diversi tempi, appresso lo trapassamento di quella Beatrice beata che vive in cielo con li angeli e in terra con la mia anima, quando quella gentile donna, cui feci menzione ne la fine de la Vita Nuova, parve primamente, accompagnata d’Amore, a li occhi miei e prese luogo alcuno ne la mia mente. 2. E sì come è ragionato per me ne lo allegato libello, più da sua gentilezza che da mia elezione venne ch’io ad essere suo consentisse; ché passionata di tanta misericordia si dimostrava sopra la mia vedovata vita, che li spiriti de li occhi miei a lei si fero massimamente amici. E così fatti, dentro [me] lei poi fero tale, che lo mio beneplacito fu contento a disposarsi a quella imagine. 3. Ma però che non subitamente nasce amore e fassi grande e viene perfetto, ma vuole tempo alcuno e nutrimento di pensieri, massimamente là dove sono pensieri contrari che lo ’mpediscano, convenne, prima che questo nuovo amore fosse perfetto, molta battaglia intra lo pensiero del suo nutrimento e quello che li era contraro, lo quale per quella gloriosa Beatrice tenea ancora la rocca de la mia mente. 4. Però che l’uno era soccorso de la parte [de la vista] dinanzi continuamente, e l’altro de la parte de la memoria di dietro. E lo soccorso dinanzi ciascuno die crescea, che far non potea l’altro, [te]men[d]o quello, che impediva in alcuno modo, a dare indietro, il volto; per che a me parve sì mirabile, e anche duro a sofferire, che io nol potei sostenere. 5. E quasi esclamando, e per iscusare me de la varietade, ne la quale parea me avere manco di fortezza, dirizzai la voce mia in quella parte onde procedeva la vittoria del nuovo pensiero, ch’era virtuosissimo sì come vertù celestiale; e cominciai a dire: Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete. 6. A lo ’ntendimento de la quale canzone bene imprendere, conviene prima conoscere le sue parti, sì che leggiero sarà poi lo suo intendimento a vedere. Acciò che più non sia mestiere di predicere queste parole per le sposizioni de l’altre, dico che questo ordine, che in questo trattato si prenderà, tenere intendo per tutti li altri. 7. Adunque dico che la canzone proposta è contenuta da tre parti principali. La prima è lo primo verso di quella: ne la quale s’inducono a udire ciò che dire intendo certe Intelligenze, o vero per più usato modo volemo dire Angeli, le quali sono a la revoluzione del cielo di Venere, sì come movitori di quello. 8. La seconda è li tre versi che appresso del primo sono: ne la quale si manifesta quel che dentro spiritualmente si sentiva intra’ diversi pensieri. 9. La terza è lo quinto e l’ultimo verso: ne la quale sì vuole l’uomo parlare a l’opera medesima, quasi a confortare quella. E queste tutte e tre parti, per ordine sono, come è detto di sopra, a dimostrare. CAPITOLO III 1. A più latinamente vedere la sentenza litterale, a la quale ora s’intende, de la prima parte sopra divisa è da sapere chi e quanti sono costoro che son chiamati a l’audienza mia, e quale è questo terzo cielo lo quale dico loro muovere: e prima dirò del cielo, poi dirò di loro a cu’ io parlo. 2. E avvegna che quelle cose, per rispetto de la veritade, assai poco sapere si possano, quel cotanto che l’umana ragione ne vede ha più dilettazione che ’l molto e ’l certo de le cose de le quali si giudica [secondo lo senso], secondo la sentenza del Filosofo in quello de li Animali. 3. Dico adunque, che del numero de li cieli e del sito diversamente è sentito da molti, avvegna che la veritade a l’ultimo sia trovata. Aristotile credette, seguitando solamente l’antica grossezza de li astrologi, che fossero pure otto cieli, de li quali lo estremo, e che contenesse tutto, fosse quello dove le stelle fisse sono, cioè la spera ottava; e che di fuori da esso non fosse altro alcuno. 4. Ancora credette che lo cielo del Sole fosse immediato con quello de la Luna, cioè secondo a noi. E questa sua sentenza così erronea può vedere chi vuole nel secondo De Celo et Mundo, ch’è nel secondo de’ libri naturali. Veramente elli di ciò si scusa nel duodecimo de la Metafisica, dove mostra bene sé avere seguito pur l’altrui sentenza là dove d’astrologia li convenne parlare. 5. Tolomeo poi, accorgendosi che l’ottava spera si movea per più movimenti, veggendo lo cerchio suo partire da lo diritto cerchio, che volge tutto da oriente in occidente, costretto da li principii di filosofia, che di necessitade vuole uno primo mobile semplicissimo, puose un altro cielo essere fuori de lo Stellato, lo quale facesse questa revoluzione da oriente in occidente: la quale dico che si compie quasi in ventiquattro ore, [cioè in ventitré ore] e quattordici parti de le quindici d’un’altra, grossamente assegnando. 6. Sì che secondo lui, secondo quello che si tiene in astrologia ed in filosofia poi che quelli movimenti furon veduti, sono nove cieli mobili; lo sito de li quali è manifesto e diterminato, secondo che per un’arte che si chiama perspettiva, e [per] arismetrica e geometria, sensibilmente e ragionevolmente è veduto, e per altre esperienze sensibili: sì come ne lo eclipsi del sole appare sensibilmente la luna essere sotto lo sole, e sì come per testimonianza d’Aristotile, che vide con li occhi (secondo che dice nel secondo De Celo et Mundo) la luna, essendo nuova, entrare sotto a Marte da la parte non lucente, e Marte stare celato tanto che rapparve da l’altra parte lucente de la luna, ch’era verso occidente. 7. Ed è l’ordine del sito questo, che lo primo che numerano è quello dove è la Luna; lo secondo è quello dov’è Mercurio; lo terzo è quello dov’è Venere; lo quarto è quello dove è lo Sole; lo quinto è quello di Marte; lo sesto è quello di Giove; lo settimo è quello di Saturno; l’ottavo è quello de le Stelle; lo nono è quello che non è sensibile se non per questo movimento che è detto di sopra lo quale chiamano molti Cristallino, cioè diafano, o vero tutto trasparente. 8. Veramente, fuori di tutti questi, li cattolici pongono lo cielo Empireo, che è a dire cielo di fiamma o vero luminoso; e pongono esso essere immobile per avere in sé, secondo ciascuna parte, ciò che la sua materia vuole. 9. E questo è cagione al Primo Mobile per avere velocissimo movimento; ché per lo ferventissimo appetito ch’è in ciascuna parte di quello nono cielo, che è immediato a quello, d’essere congiunta con ciascuna parte di quello divinissimo ciel quieto, in quello si rivolve con tanto desiderio, che la sua velocitade è quasi incomprensibile. 10. E quieto e pacifico è lo luogo di quella somma Deitade che sola [sé] compiutamente vede. Questo loco è di spiriti beati, secondo che la Santa Chiesa vuole, che non può dire menzogna; e Aristotile pare ciò sentire, a chi bene lo ’ntende, nel primo De Celo et Mundo. 11. Questo è lo soprano edificio del mondo, nel quale tutto lo mondo s’inchiude, e di fuori dal quale nulla è; ed esso non è in luogo ma formato fu solo ne la prima Mente, la quale li Greci dicono Protonoè. Questa è quella magnificenza, de la quale parlò il Salmista, quando dice a Dio: "Levata è la magnificenza tua sopra li cieli". 12. E così ricogliendo ciò che ragionato è, pare che diece cieli siano, de li quali quello di Venere sia lo terzo, del quale si fa menzione in quella parte che mostrare intendo. 13. Ed è da sapere che ciascuno cielo di sotto al Cristallino ha due poli fermi, quanto a sé; e lo nono li ha fermi e fissi, e non mutabili secondo alcuno respetto. E ciascuno, sì lo nono come li altri, hanno un cerchio, che si può chiamare equatore del suo cielo proprio; lo quale igualmente in ciascuna parte de la sua revoluzione è rimoto da l’uno polo e da l’altro, come può sensibilmente vedere chi volge un pomo, o altra cosa ritonda. E questo cerchio ha più rattezza nel muovere che alcuna parte del suo cielo, in ciascuno cielo, come può vedere chi bene considera. 14. E ciascuna parte, quant’ella più è presso ad esso, tanto più rattamente si muove; quanto più n’è remota e più presso al polo, più è tarda, però che la sua revoluzione è minore, e conviene essere in uno medesimo tempo, di necessitade, con la maggiore. 15. Dico ancora, che quanto lo cielo più è presso al cerchio equatore tanto è più nobile per comparazione a li suoi poli, però che ha più movimento e più attualitade e più vita e più forma, e più tocca di quello che è sopra sé, e per consequente più è virtuoso. Onde le stelle del Cielo Stellato sono più piene di vertù tra loro quanto più sono presso a questo cerchio. 16. E in sul dosso di questo cerchio, nel cielo di Venere, del quale al presente si tratta, è una speretta che per sé medesima in esso cielo si volge; lo cerchio de la quale li astrologi chiamano epiciclo. E sì come la grande spera due poli volge, così questa picciola, e così ha questa picciola lo cerchio equatore, e così è più nobile quanto è più presso di quello; e in su l’arco, o vero dosso, di questo cerchio è fissa la lucentissima stella di Venere. 17. E avvegna che detto sia essere diece cieli secondo la stretta veritade, questo numero non li comprende tutti; ché questo di cui è fatta menzione, cioè l’epiciclo nel quale è fissa la stella, è uno cielo per sé, o vero spera, e non ha una essenza con quello che ’l porta: avvegna che più sia connaturato ad esso che li altri; e con esso e chiamato uno cielo, e dinominasi l’uno e l’altro da la stella. 18. Come li altri cieli e l’altre stelle siano, non è al presente da trattare: basti ciò che detto è de la veritade del terzo cielo, del quale al presente intendo e del quale compiutamente è mostrato quello che al presente n’è mestiere. eADV eADV CAPITOLO IV 1. Poi ch’è mostrato nel precedente capitolo quale è questo terzo cielo e come in sé medesimo è disposto, resta di mostrare chi sono questi che ’l muovono. 2. È adunque da sapere primamente che li movitori di quelli [cieli] sono sustanze separate da materia, cioè intelligenze, le quali la volgare gente chiamano Angeli. E di queste creature, sì come de li cieli, diversi diversamente hanno sentito, avvegna che la veritade sia trovata. 3. Furono certi filosofi, de’ quali pare essere Aristotile ne la sua Metafisica (avvegna che nel primo di Cielo incidentemente paia sentire altrimenti), che credettero solamente essere tante queste, quante circulazioni fossero ne li cieli, e non più: dicendo che l’altre sarebbero state etternalmente indarno, sanza operazione; ch’era impossibile, con ciò sia cosa che loro essere sia loro operazione. 4. Altri furono, sì come Plato, uomo eccellentissimo, che puosero non solamente tante Intelligenze quanti sono li movimenti del cielo, ma eziandio quante sono le spezie de le cose (cioè le maniere de le cose): sì come è una spezie tutti li uomini, e un’altra tutto l’oro, e un’altra tutte le larghezze, e così di tutte. 5. E volsero che sì come le Intelligenze de li cieli sono generatrici di quelli, ciascuna del suo, così queste fossero generatrici de l’altre cose ed essempli, ciascuna de la sua spezie; e chiamale Plato ’idee’: che tanto è a dire quanto forme e nature universali. 6. Li gentili le chiamano Dei e Dee, avvegna che non così filosoficamente intendessero quelle come Plato, e adoravano le loro imagini, e faceano loro grandissimi templi: sì come a Giuno, la quale dissero dea di potenza; sì come a Pallade o vero Minerva, la quale dissero dea di sapienza; sì come a Vulcano, lo quale dissero dio del fuoco, ed a Cerere, la quale dissero dea de la biada. 7. Le quali cose e oppinioni manifesta la testimonianza de’ poeti, che ritraggono in parte alcuna lo modo de’ gentili e ne li sacrifici e ne la loro fede; e anco si manifesta in molti nomi antichi rimasi o per nomi o per sopranomi a lochi e antichi edifici, come può bene ritrovare chi vuole. 8. E avvegna che per ragione umana queste oppinioni di sopra fossero fornite, e per esperienza non lieve, la veritade ancora per loro veduta non fue, e per difetto di ragione e per difetto d’ammaestramento; ché pur per ragione veder si può in molto maggiore numero esser le creature sopra dette, che non sono li effetti che [per] li uomini si possono intendere. 9. E l’una ragione è questa. Nessuno dubita, né filosofo né gentile né giudeo né cristiano né alcuna setta, ch’elle non siano piene di tutta beatitudine, o tutte o la maggior parte, e che quelle beate non siano in perfettissimo stato. 10. Onde, con ciò sia cosa che quella che è qui l’umana natura non pur una beatitudine abbia, ma due, sì com’è quella de la vita civile, e quella de la contemplativa, inrazionale sarebbe se noi vedemo quelle avere la beatitudine de la vita attiva, cioè civile, nel governare del mondo, e non avessero quella de la contemplativa, la quale è più eccellente e più divina. 11. E con ciò sia cosa che quella che ha la beatitudine del governare non possa l’altra avere, perché lo ’ntelletto loro è uno e perpetuo, conviene essere altre fuori di questo ministerio che solamente vivano speculando. 12. E perché questa vita è più divina, e quanto la cosa è più divina è più di Dio simigliante, manifesto è che questa vita è da Dio più amata: e se ella è più amata, più le è la sua beatanza stata larga: e se più l’è stata larga, più viventi le ha dato che a l’altrui. Per che si conchiude che troppo maggior numero sia quello di quelle creature che li effetti non dimostrano. 13. E non è contra quello che par dire Aristotile nel decimo de l’Etica, che a le sustanze separate convegna pure la speculativa vita. Come pure la speculativa convegna loro, pure a la speculazione di certe segue la circulazione del cielo, che è del mondo governo; lo quale è quasi una ordinata civilitade, intesa ne la speculazione de li motori. 14. L’altra ragione sì è che nullo effetto è maggiore de la cagione, poi che la cagione non può dare quello che non ha; ond’è, con ciò sia cosa che lo divino intelletto sia cagione di tutto, massimamente de lo ’ntelletto umano, che lo umano quello non soperchia, ma da esso è improporzionalmente soperchiato. 15. Dunque se noi, per le ragioni di sopra e per molt’altre, intendiamo Iddio aver potuto fare innumerabili quasi creature spirituali, manifesto è lui questo avere fatto maggiore numero. Altre ragioni si possono vedere assai, ma queste bastino al presente. 16. Né si meravigli alcuno se queste e altre ragioni di ciò avere potemo, non sono del tutto dimostrate; che però medesimamente dovemo ammlrare loro eccellenza - la quale soverchia gli occhi de la mente umana, sì come dice lo Filosofo nel secondo de la Metafisica -, e affermar loro essere. 17. Poi che non avendo di loro alcuno senso (dal quale comincia la nostra conoscenza), pure risplende nel nostro intelletto alcuno lume de la vivacissima loro essenza, in quanto vedemo le sopra dette ragioni, e molt’altre; sì come afferma chi ha li occhi chiusi l’aere essere luminoso, per un poco di splendore, o vero raggio, c[om]e passa per le pupille del vispistrello: ché non altrimenti sono chiusi li nostri occhi intellettuali, mentre che l’anima è legata e incarcerata per li organi del nostro corpo. CAPITOLO V eADV 1. Detto è che, per difetto d’ammaestramento, li antichi la veritade non videro de le creature spirituali, avvegna che quello popolo d’Israel fosse in parte da li suoi profeti ammaestrato, "ne li quali, per molte maniere di parlare e per molti modi, Dio avea loro parlato", sì come l’Apostolo dice. 2. Ma noi semo di ciò ammaestrati da colui che venne da quello, da colui che le fece, da colui che le conserva, cioè da lo Imperadore de l’universo, che è Cristo, figliuolo del sovrano Dio e figliuolo di Maria Vergine, (femmina veramente e figlia di Ioacchino e d’Adam), uomo vero, lo quale fu morto da noi, per che ci reco vita. 3. ’Lo qual fu luce che allumina noi ne le tenebre’, sì come dice Ioanni Evangelista, e disse a noi la veritade di quelle cose che noi sapere sanza lui non potavamo, né veder veramente. 4. La prima cosa e lo primo secreto che ne mostrò, fu una de le creature predette: ciò fu quello suo grande legato che venne a Maria, giovinetta donzella di tredici, da parte del Sanator celestiale. Questo nostro Salvatore con la sua bocca disse che ’l Padre li potea dare molte legioni d’angeli; questi non negò, quando detto li fu che ’l Padre avea comandato a li angeli che li ministrassero e servissero. 5. Per che manifesto è a noi quelle creature [essere] l in lunghissimo numero; per che la sua sposa e secretaria Santa Ecclesia - de la quale dice Salomone: "Chi è questa che ascende del diserto, piena di quelle cose che dilettano, appoggiata sopra l’amico suo?" - dice, crede e predica quelle nobilissime creature quasi innumerabili. E partele per tre gerarchie, che è a dire tre principati santi o vero divini, e ciascuna gerarchia ha tre ordini; sì che nove ordini di creature spirituali la Chiesa tiene e afferma. 6. Lo primo è quello de li Angeli, lo secondo de li Arcangeli, lo terzo de li Troni, e questi tre ordini fanno la prima gerarchia: non prima quanto a nobilitade, non a creazione (ché più sono l’altre nobili e tutte furono insieme create), ma prima quanto al nostro salire a loro altezza. Poi sono le Dominazioni; appresso le Virtuti; poi li Principati: e questi fanno la seconda gerarchia. Sopra questi sono le Potestati e li Cherubini, e sopra tutti sono li Serafini: e questi fanno la terza gerarchia. 7. Ed è potissima ragione de la loro speculazione e lo numero in che sono le gerarchie e quello in che sono li ordini. Ché con ciò sia cosa che la Maestà divina sia in tre persone, che hanno una sustanza, di loro si puote triplicemente contemplare. 8. Ché si può contemplare de la potenza somma del Padre; la quale mira la prima gerarchia, cioè quella che è prima per nobilitade e che ultima noi annoveriamo. E puotesi contemplare la somma sapienza del Figliuolo; e questa mira la seconda gerarchia. E puotesi contemplare la somma e ferventissima caritade de lo Spirito Santo; e questa mira l’ultima gerarchia, la quale, più propinqua, a noi porge de li doni che essa riceve. 9. E con ciò sia cosa che ciascuna persona ne la divina Trinitade triplicemente si possa considerare, sono in ciascuna gerarchia tre ordini che diversamente contemplano. Puotesi considerare lo Padre, non avendo rispetto se non ad esso; e questa contemplazione fanno li Serafini, che veggiono più de la Prima Cagione che nulla angelica natura. 10. Puotesi considerare lo Padre secondo che ha relazione al Figlio, cioè come da lui si parte e come con lui sé unisce; e questo contemplano li Cherubini. Puotesi ancora considerare lo Padre secondo che da lui procede lo Spirito Santo, e come da lui si parte e come con lui sé unisce; e questa contemplazione fanno le Potestadi. 11. E per questo modo si puote speculare del Figlio e de lo Spirito Santo: per che convengono essere nove maniere di spiriti contemplativi, a mirare ne la luce che sola sé medesima vede compiutamente. 12. E non è qui da tacere una parola. Dico che di tutti questi ordini si perderono alquanti tosto che furono creati, forse in numero de la decima parte; a la quale restaurare fu l’umana natura poi creata. Li numeri, li ordini, le gerarchie narrano li cieli mobili, che sono nove, e lo decimo annunzia essa unitade e stabilitade di Dio. E però dice lo Salmista: "Li cieli narrano la gloria di Dio, e l’opere de le sue mani annunzia lo fermamento". 13. Per che ragionevole è credere che li movitori del cielo de la Luna siano de l’ordine de li Angeli, e quelli di Mercurio siano li Arcangeli, e quelli di Venere siano li Troni; li quali, naturati de l’amore del Santo Spirito, fanno la loro operazione, connaturale ad essi, cioè lo movimento di quello cielo, pieno d’amore, dal quale prende la forma del detto cielo uno ardore virtuoso, per lo quale le anime di qua giuso s’accendono ad amore, secondo la loro disposizione. 14. E perché li antichi s’accorsero che quello cielo era qua giù cagione d’amore, dissero Amore essere figlio di Venere, sì come testimonia Vergilio nel primo de lo Eneida, ove dice Venere ad Amore: "Figlio, vertù mia, figlio del sommo padre, che li dardi di Tifeo non curi"; e Ovidio, nel quinto di Metamorphoseos, quando dice che Venere disse ad Amore: "Figlio, armi mie, potenzia mia". 15. E sono questi Troni, che al governo di questo cielo sono dispensati, in numero non grande, de lo quale per li filosofi e per gli astrologi diversamente è sentito, secondo che diversamente sentiro de le sue circulazioni; avvenga che tutti siano accordati in questo, che tanti sono quanti movimenti esso fae. 16. Li quali, secondo che nel libro de l’Aggregazion[i] de le Stelle epilogato si truova da la migliore dimostrazione de li astrologi, sono tre: uno, secondo che la stella si muove verso lo suo epiciclo; l’altro, secondo che lo epiciclo si muove con tutto lo cielo igualmente con quello del Sole; lo terzo, secondo che tutto quello cielo si muove, seguendo lo movimento de la stellata spera, da occidente a oriente, in cento anni uno grado. Sì che a questi tre movimenti sono tre movitori. 17. Ancora si muove tutto questo cielo e rivolgesi con lo epiciclo da oriente in occidente, ogni di naturale una fiata: lo qual movimento, se esso è da intelletto alcuno, o se esso è da la rapina del Primo Mobile, Dio lo sa; che a me pare presuntuoso a giudicare. 18. Questi movitori muovono, solo intendendo, la circulazione in quello subietto propio che ciascuno muove. La forma nobilissima del cielo, che ha in sé principio di questa natura passiva, gira, toccata da vertù motrice che questo intende: e dico toccata non corporalmente, per tatto di vertù la quale si dirizza in quello. E questi movitori sono quelli a li quali s’intende di parlare, ed a cui io fo mia dimanda. CAPITOLO VI 1. Secondo che di sopra, nel terzo capitolo di questo trattato, si disse, ch’a bene intendere la prima parte de la proposta canzone convenia ragionare di quelli cieli e de li loro motori, ne li tre precedenti capitoli è ragionato. Dico adunque a quelli ch’io mostrai sono movitori del cielo di Venere: O voi che ’ntendendo - cioè con lo intelletto solo, come detto è di sopra, - lo terzo cielo movete, Udite il ragionare; e non dico udite perch’elli odano alcuno suono, ch’elli non hanno senso, ma dico udite, cioè con quello udire ch’elli hanno, ch’è intendere per intelletto. 2. Dico: Udite il ragionar lo quale è nel mio core: cioè dentro da me, ché ancora non è di fuori apparito. E da sapere è che in tutta questa canzone, secondo l’uno senso e l’altro lo’‘core’ si prende per lo secreto dentro, e non per altra spezial parte de l’anima e del corpo. 3. Poi li ho chiamati ad udire quello ch’io voglio, assegno due ragioni per che io convenevolemente deggio loro parlare. L’una si è la novitade de la mia condizione, la quale, per non essere da li altri uomini esperta, non sarebbe così da loro intesa come da coloro che ’ntendono li loro effetti ne la loro operazione; e questa ragione tocco quando dico: Ch’io nol so dire dire altrui, sì mi par novo. 4. L’altra ragione è: quand’uomo riceve beneficio, o vero ingiuria, prima de’ quello retraere a chi liele fa, se può, che ad altri; acciò che se ello è beneficio, esso che lo riceve si mostri conoscente inver lo benefattore; e s’ella è ingiuria, induca lo fattore a buona misericordia con le dolci parole. 5. E questa ragione tocco, quando dico: El ciel che segue lo vostro valore, Gentili creature che voi sete, Mi tragge ne lo stato ov’io mi trovo. Ciò è a dire: l’operazione vostra, cioè la vostra circulazione, è quella che m’ha tratto ne la presente condizione. Però conchiudo e dico che ’l mio parlare a loro dee essere, sì come detto è; e questo dico qui: Onde ’l parlar de la vita ch’io provo, Par che si drizzi degnamente a vui. E dopo queste ragioni assegnate, priego loro de lo ’ntendere quando dico: Però vi priego che lo mi ’ntendiate. 6. Ma però che in ciascuna maniera di sermone lo dicitore massimamente dee intendere a la persuasione, cioè a l’abbellire, de l’audienza, sì come a quella ch’è principio di tutte l’altre persuasioni, come li rettorici [s]anno; e potentissima persuasione sia, a rendere l’uditore attento, promettere di dire nuove e grandissime cose; seguito io, a la preghiera fatta de l’audienza, questa persuasione, cioè, dico, abbellimento, annunziando loro la mia intenzione, la quale è di dire nuove cose, cioè la divisione ch’è ne la mia anima, e grandi cose, cioè lo valore de la loro stella. E questo dico in quelle ultime parole di questa prima parte: Io vi dirò del cor la novitate. Come l’anima trista piange in lui, E come un spirto contra lei favella, Che vien pe’ raggi de la vostra stella. 7. E a pieno intendimento di queste parole, dico che questo [spirito] non è altro che uno frequente pensiero a questa nuova donna commendare e abbellire; e questa anima non è altro che un altro pensiero, accompagnato di consentimento, che, repugnando a questo, commenda e abbellisce la memoria di quella gloriosa Beatrice. 8. Ma però che ancora l’ultima sentenza de la mente, cioè lo consentimento, si tenea per questo pensiero che la memoria aiutava, chiamo lui anima e l’altro spirito; sì come chiamare solemo la cittade quelli che la tengono, e non coloro che la combattono, avvegna che l’uno e l’altro sia cittadino. 9. Dico anche che questo spirito viene per li raggi de la stella: per che sapere si vuole che li raggi di ciascuno cielo sono la via per la quale discende la loro vertude in queste cose di qua giù. E però che li raggi non sono altro che uno lume che viene dal principio de la luce per l’aere infino a la cosa illuminata, e luce non sia se non ne la parte de la stella, però che l’altro cielo è diafano, cioè transparente, non dico che vegna questo spirito, cioè questo pensiero, dal loro cielo in tutto, ma da la loro stella. 10. La quale per la nobilità de li suoi movitori è di tanta vertute, che ne le nostre anime e ne le altre nostre cose ha grandissima podestade, non ostante che essa ci sia lontana, qual volta più c’è presso, cento sessanta sette volte tanto quanto è, e più, al mezzo de la terra, che ci ha di spazio tremilia dugento cinquanta miglia. E questa è la litterale esposizione de la prima parte de la canzone. CAPITOLO VII 1. Inteso può essere sofficientemente per le prenarrate parole, de la litterale sentenza de la prima parte; per che a la seconda è da intendere, ne la quale si manifesta quello che dentro io sentia de la battaglia. 2. E questa parte ha due divisioni: che in prima, cioè nel primo verso, narro la qualitade di queste diversitadi secondo la loro radice, ch’erano dentro a me; poi narro quello che dicea l’una e l’altra diversitade, e però, prima, quello che dicea la parte che perdea, cioè nel verso ch’è lo secondo di questa parte e lo terzo de la canzone. 3. Ad evidenza dunque de la sentenza de la prima divisione, è da sapere che le cose deono essere denominate da l’ultima nobilitade de la loro forma; sì come l’uomo da la ragione, e non dal senso né d’altro che sia meno nobile. Onde, quando si dice l’uomo vivere, si dee intendere l’uomo usare la ragione, che è sua speziale vita e atto de la sua più nobile parte. 4. E però chi da la ragione si parte, e usa pur la parte sensitiva, non vive uomo, ma vive bestia; sì come dice quello eccellentissimo Boezio: "Asino vive". Dirittamente dico però che lo pensiero è propio atto de la ragione, perché le bestie non pensano, che non l’hanno; e non dico pur de le minori bestie, ma di quelle che hanno apparenza umana e spirito di pecora, o d’altra bestia abominevole. 5. Dico adunque che vita del mio core, cioè del mio dentro, suole essere un pensiero soave (‘soave’ è tanto quanto ‘suaso’, cioè abbellito, dolce, piacente e dilettoso), questo pensiero, che se ne gia spesse volte a’ piedi del sire di costoro a cu’ io parlo, ch’è Iddio: ciò è a dire, che io pensando contemplava lo regno de beati. 6. E dico la final cagione incontanente per che là su io saliva pensando, quando dico: Ove una donna gloriar vedia; a dare a intendere ch’è perché io era certo, e sono, per sua graziosa revelazione, che ella era in cielo. Onde io pensando spesse volte come possibile m’era, me n’andava quasi rapito. 7. Poi sussequentemente dico l’effetto di questo pensiero, a dare a intendere la sua dolcezza la quale era tanta che mi facea disioso de la morte, per andare là dov’elli gia; e ciò dico quivi: Di cui parlava me sì dolcemente, Che l’anima dicea: Io men vo’ gire. E questa è la radice de l’una de le diversitadi ch’era in me. 8. Ed è da sapere, che qui di dice ‘pensiero’ e non ‘anima’, di quello che salia a vedere quella beata, perché era spezial pensiero a quello atto. L’anima s’intende, come detto è nel precedente capitolo, per lo generale pensiero, col consentimento. 9. Poi quando dico: Or apparisce chi lo fa fuggire, narro la radice de l’altra diversitade, dicendo, sì come questo pensiero di sopra suol esser vita di me, così un altro apparisce che fa quello cessare. E dico ‘fuggire’, per mostrare quello essere contrario, ché naturalmente l’uno contrario fugge l’altro, e quello che fugge mostra per difetto di vertù di fuggire. 10. E dico che questo pensiero, che di nuovo apparisce, è poderoso in prender me e in vincere l’anima tutta, dicendo che esso segnoreggia sì che ’l cuore, cioè lo mio dentro, triema, e lo mio di fuori lo dimostra in alcuna nuova sembianza. 11. Sussequentemente mostro la potenza di questo pensiero nuovo per suo effetto, dicendo che esso mi fa mirare una donna, e dicemi parole di lusinghe, cioè ragiona dinanzi a li occhi del mio intelligibile affetto per meglio inducermi, promettendomi che la vista de li occhi suoi è sua salute. 12. E a meglio fare ciò credere a l’anima esperta, dice che non è da guardare ne li occhi di questa donna per persona che tema angoscia di sospiri. Ed è bel modo rettorico quando di fuori pare la cosa disabbellirsi, e dentro veramente s’abbellisce. Più non potea questo novo pensero d’amore inducere la mia mente a consentire, che nel ragionare de la vertù de li occhi di costei profondamente. CAPITOLO VIII eADV eADV 1. Ora ch’è mostrato come e perché nasce amore, e la diversitade che mi combattea, procedere si conviene ad aprire la sentenza di quella parte ne la quale contendono in me diversi pensamenti. 2. Dico che prima si conviene dire de la parte de l’anima, cioè de l’antico pensiero, e poi de l’altro, per questa ragione, che sempre quello che massimamente dire intende lo dicitore si dee riservare di dietro; però che quello che ultimamente si dice, più rimane ne l’animo de lo uditore. 3. Onde con ciò sia cosa che io intenda più a dire e a ragionare quello che l’opera di costoro a cu’ io parlo fa, che quello che essa disfà, ragionevole fu prima dire e ragionare la condizione de la parte che si corrompea, e poi quella de l’altra che si generava. 4. Veramente qui nasce un dubbio, lo qual non è da trapassare sanza dichiarare. Potrebbe dire alcuno: ‘Con ciò sia cosa che amore sia effetto di queste intelligenze, a cu’ io parlo, e quello di prima fosse amore così come questo di poi, perché la loro vertù corrompe l’uno e l’altro genera? con ciò sia cosa che innanzi dovrebbe quello salvare, per la ragione che ciascuna cagione ama lo suo effetto e, amando quello, salva quell’altro’. 5. A questa questione si può leggiermente rispondere che lo effetto di costoro è amore, com’e detto; e però che salvare nol possono se non in quelli subietti che sono sottoposti a la loro circulazione, esso transmutano di quella parte che è fuori di loro podestade in quella che v’è dentro, cioè de l’anima partita d’esta vita in quella ch’è in essa. 6. Sì come la natura umana transmuta, ne la forma umana, la sua conservazione di padre in figlio, perché non può in esso padre perpetualmente [quel]lo suo effetto conservare. Dico ‘effetto’, in quanto l’anima col corpo, congiunti, sono effetto di quella; ché [l’anima poi che] è partita, perpetualmente dura in natura più che umana. E così è soluta la questione. 7. Ma però che de la immortalità de l’anima è qui toccato, farò una digressione, ragionando di quella; perché, di quella ragionando, sarà bello terminare lo parlare di quella viva Beatrice beata, de la quale più parlare in questo libro non intendo per proponimento. 8. Dico che intra tutte le bestialitadi quella è stoltissima, vilissima e dannosissima, chi crede dopo questa vita non essere altra vita; però che, se noi rivolgiamo tutte le scritture, sì de’ filosofi come de li altri savi scrittori, tutti concordano in questo, che in noi sia parte alcuna perpetuale. 9. E questo massimamente par volere Aristotile in quello de l’Anima; questo par volere massimamente ciascuno Stoico; questo par volere Tullio, spezialmente in quello libello de la Vegliezza; questo par volere ciascuno poeta che secondo la fede de’ Gentili hanno parlato; questo vuole ciascuna legge, Giudei, Saracini, Tartari, e qualunque altri vivono secondo alcuna ragione. 10. Che se tutti fossero ingannati, seguiterebbe una impossibilitade, che pure a ritraere sarebbe orribile. Ciascuno è certo che la natura umana è perfettissima di tutte l’altre nature di qua giù; e questo nullo niega, e Aristotile l’afferma, quando dice nel duodecimo de li Animali, che l’uomo è perfettissimo di tutti li animali. 11. Onde con ciò sia cosa che molti che vivono, interamente siano mortali sì come animali bruti, e siano sanza questa speranza tutti mentre che vivono, cioè d’altra vita; se la nostra speranza fosse vana, maggiore sarebbe lo nostro difetto che di nullo altro animale, con ciò sia cosa che molti già sono stati che hanno data questa vita per quella: e così seguiterebbe che lo perfettissimo animale, cioè l’uomo, fosse imperfettissimo - ch’è impossibile - e che quella parte, cioè la ragione, che è sua perfezione maggiore, fosse a lui cagione di maggiore difetto; che del tutto diverso pare a dire. 12. Ancora seguiterebbe che la natura contra sé medesima questa speranza ne la mente umana posta avesse, poi che detto è che molti a la morte del corpo sono corsi, per vivere ne l’altra vita; e questo è anche impossibile. 13. Ancora, vedemo continua esperienza de la nostra immortalitade ne le divinazioni de’ nostri sogni, le quali essere non potrebbono se in noi alcuna parte immortale non fosse; con ciò sia cosa che immortale convegna essere lo rivelante, [o corporeo] o incorporeo che sia, se bene si pensa sottilmente - e dico corporeo o incorporeo, per le diverse oppinioni ch’io truovo di ciò -, e quello ch’è mosso o vero informato da informatore immediato debba proporzione avere a lo informatore, e da lo mortale a lo immortale nulla sia proporzione. 14. Ancora, n’accerta la dottrina veracissima di Cristo, la quale è via, verità e luce: via, perché per essa sanza impedimento andiamo a la felicitade di quella immortalitade; verità, perché non soffera alcuno errore; luce, perché allumina noi ne la tenebra de la ignoranza mondana. 15. Questa dottrina dico che ne fa certi sopra tutte altre ragioni, però che quello la n’hae data che la nostra immortalitade vede e misura. La quale noi non potemo perfettamente vedere mentre che ’l nostro immortale col mortale è mischiato; ma vedemolo per fede perfettamente, e per ragione lo vedemo con ombra d’oscuritade, la quale incontra per mistura del mortale con l’immortale. 16. E ciò dee essere potentissimo argomento che in noi l’uno e l’altro sia; e io così credo, così affermo e così certo sono ad altra vita migliore dopo questa passare, là dove quella gloriosa donna vive de la quale fu l’anima mia innamorata quando contendea, come nel seguente capitolo si ragionerà. CAPITOLO IX 1. Tornando al proposito, dico che in questo verso che comincia: Trova contraro tal che lo distrugge, intendo manifestare quello che dentro a me l’anima mia ragionava, cioè l’antico pensiero contra lo nuovo. E prima brievemente manifesto la cagione del suo lamentevole parlare, quando dico: Trova contraro tal che lo distrugge L’umil pensero, che parlar mi sole D’un’angela che ’n cielo è coronata. Questo è quello speziale pensiero, del quale detto è di sopra che solea esser vita de lo cor dolente. 2. Poi quando dico: L’anima piange, sì ancor len dole, manifesto l’anima mia essere ancora da la sua parte, e con tristizia parlare; e dico che dice parole lamentandosi, quasi come si maravigliasse de la subita trasmutazione, dicendo: Oh lassa a me, come si fugge Questo piatoso che m’ha consolata! Ben può dire ‘consolata’, ché ne la sua grande perdita questo pensiero, che in cielo salia, le avea data molta consolazione. 3. Poi appresso, ad iscusa di sé dico che si volge tutto lo mio pensiero, cioè l’anima, de la quale dico questa affannata, e parla contra gli occhi; e questo si manifesta quivi: De li occhi miei dice questa affannata. E dico ch’ella dice di loro e contra loro tre cose. 4. La prima è che bestemmia l’ora che questa donna li vide. E qui si vuol sapere che avvegna che più cose ne l’occhio a un’ora possano venire, veramente quella che viene per retta linea ne la punta de la pupilla, quella veramente si vede, e ne la imaginativa si suggella solamente. 5. E questo è però che ’l nervo per lo quale corre lo spirito visivo, è diritto a quella parte, e però veramente l’occhio l’altro occhio non può guardare, sì che esso non sia veduto da lui, ché, sì come quello che mira riceve la forma ne la pupilla per retta linea, così per quella medesima linea la sua forma se ne va in quello ch’ello mira: e molte volte, nel dirizzare di questa linea, discocca l’arco di colui al quale ogni arme è leggiere. Però quando dico che tal donna li vide, è tanto a dire quanto che li occhi suoi e li miei si guardaro. 6. La seconda cosa che dice, sì è che riprende la sua disobedienza, quando dice: E perché non credeano a me di lei? Poi procede a la terza cosa, e dice che non dee sé riprendere di provedimento, ma loro di non ubbidire; però che dice che alcuna volta, di questa donna ragionando, dicesse: Ne li occhi di costei doverebbe esser virtù sopra me, se ella avesse aperta la via di venire; e questo dice quivi: Io dicea: Ben ne li occhi di costei. 7. E ben si dee credere che l’anima mia conoscea la sua disposizione atta a ricevere l’atto di questa donna, e però ne temea; ché l’atto de l’agente si prende nel disposto paziente, sì come dice lo Filosofo nel secondo de l’Anima. E però se la cera avesse spirito da temere, più temerebbe di venire a lo raggio del sole che non farebbe la pietra, però che la sua disposizione riceve quello per più forte operazione. 8. Ultimamente manifesta l’anima nel suo parlare la presunzione loro pericolosa essere stata, quando dice: E non mi valse ch’io ne fossi accorta Che non mirasser tal, ch’io ne son morta. Non là mirasser, dice, colui di cui prima detto avea: Colui che le mie pari ancide. E così termina le sue parole, a le quali risponde lo novo pensiero, sì come nel seguente capitolo si dichiarerà. CAPITOLO X eADV 1. Dimostrata è la sentenza di quella parte ne la qual parla l’anima, cioè l’antico pensiero che si corruppe. Ora seguentemente si dee mostrare la sentenza de la parte ne la qual parla lo pensiero nuovo avverso; e questa parte si contiene tutta nel verso che comincia: Tu non se’ morta. 2. La qual parte, a bene intendere, si vuole in due partire: che ne la prima [lo pensiero avverso riprende l’anima di viltade; e appresso comanda quello che far dee quest’anima ripresa, cioè ne la seconda] parte, che comincia: Mira quant’ell’è pietosa. 3. Dice adunque, continuandosi a l’ultime sue parole: Non è vero che tu sie morta; ma la cagione per che morta ti pare essere, sì è uno smarrimento nel quale se’ caduta vilmente per questa donna che è apparita: - e qui è da notare che, sì come dice Boezio ne la Consolazione, "ogni subito movimento di cose non avviene sanza alcuno discorrimento d’animo" -; e questo vuol dire lo riprendere di questo pensiero. 4. Lo quale si chiama ‘spiritello d’amore’ a dare a intendere che lo consentimento mio piegava inver di lui; e così si può questo intendere maggiormente, e conoscere la sua vittoria, quando dice già ‘anima nostra’, facendosi familiare di quella. 5. Poi, com’è detto, comanda quello che far dee quest’anima ripresa per venir lei a sé, e lei dice: Mira quant’ell’è pietosa e umile; ché sono proprio rimedio a la temenza, de la qual parea l’anima passionata, due cose, e sono queste che, massimamente congiunte, fanno de la persona bene sperare, e massimamente la pietade, la quale fa risplendere ogni altra bontade col lume suo. Per che Virgilio, d’Enea parlando, in sua maggiore loda pietoso lo chiama. 6. E non è pietade quella che crede la volgar gente, cioè dolersi de l’altrui male, anzi è questo uno suo speziale effetto, che si chiama misericordia ed è passione; ma pietade non è passione, anzi è una nobile disposizione d’animo, apparecchiata di ricevere amore, misericordia e altre caritative passioni. 7. Poi dice: Mira anco quanto è saggia e cortese ne la sua grandezza. Or dice tre cose, le quali, secondo quelle che per noi acquistar si possono, massimamente fanno la persona piacente. Dice ‘saggia’: or che è più bello in donna che savere? Dice ‘cortese’: nulla cosa sta più bene in donna che cortesia. E non siano li miseri volgari anche di questo vocabulo ingannati, che credono che cortesia non sia altro che larghezza; e larghezza è una speziale, e non generale, cortesia! 8. Cortesia e onestade è tutt’uno: e però che ne le corti anticamente le vertudi e li belli costumi s’usavano, sì come oggi s’usa lo contrario, si tolse quello vocabulo da le corti, e fu tanto a dire cortesia quanto uso di corte. Lo qual vocabulo se oggi si togliesse da le corti, massimamente d’Italia, non sarebbe altro a dire che turpezza. 9. Dice ne la sua grandezza. La grandezza temporale de la quale qui s’intende, massimamente sta bene accompagnata con le due predette bontadi, però ch’ell’ apre lume che mostra lo bene e l’altro de la persona chiaramente. E quanto savere e quanto abito virtuoso non si pare, per questo lume non avere! e quanta matterìa e quanti vizii si discernono per aver questo lume! 10. Meglio sarebbe a li miseri grandi, matti, stolti e viziosi, essere in basso stato, ché né in mondo né dopo la vita sarebbero tanto infamati. Veramente per costoro dice Salomone ne lo Ecclesiaste: "E un’altra infermitade pessima vidi sotto lo sole, cioè ricchezze conservate in male del loro signore". 11. Poi sussequentemente impone a lei, cioè all’anima mia, che chiami omai costei sua donna, promettendo a lei che di ciò assai si contenterà, quando ella sarà de le sue adornezze accorta; e questo dice quivi: Ché se tu non t’inganni, tu vedrai. Né altro dice infino a la fine di questo verso. E qui termina la sentenza litterale di tutto quello che in questa canzone dico, parlando a quelle intelligenze celestiali. CAPITOLO XI 1. Ultimamente, secondo che di sopra disse la littera di questo commento quando partio le parti principali di questa canzone, io mi rivolgo con la faccia del mio sermone a la canzone medesima, e a quella parlo. 2. E acciò che questa parte più pienamente sia intesa, dico che generalmente si chiama in ciascuna canzone ‘tornata’, però che li dicitori che prima usaro di farla, fenno quella perché, cantata la canzone, con certa parte del canto ad essa si ritornasse. 3. Ma io rade volte a quella intenzione la feci, e, acciò che altri se n’accorgesse, rade volte la puosi con l’ordine de la canzone, quanto è a lo numero che a la nota è necessario; ma fecila quando alcuna cosa in adornamento de la canzone era mestiero a dire, fuori de la sua sentenza, sì come in questa e ne l’altre veder si potrà. 4. E però dico al presente che la bontade e la bellezza di ciascuno sermone sono intra loro partite e diverse; ché la bontade è ne la sentenza, e la bellezza è ne l’ornamento de le parole; e l’una e l’altra è con diletto, avvenga che la bontade sia massimamente dilettosa. 5. Onde con ciò sia cosa che la bontade di questa canzone fosse malagevole a sentire per le diverse persone che in essa s’inducono a parlare, dove si richeggiono molte distinzioni, e la bellezza fosse agevole a vedere, parvemi mestiero a la canzone che per li altri si ponesse più mente a la bellezza che a la bontade. E questo è quello che dico in questa parte. 6. Ma però che molte fiate avviene che l’ammonire pare presuntuoso, per certe condizioni suole lo rettorico indirettamente parlare altrui, dirizzando le sue parole non a quello per cui dice, ma verso un altro. E questo modo si tiene qui veramente; ché a la canzone vanno le parole, e a li uomini la ’ntenzione. 7. Dico adunque: Io credo, canzone, che radi sono, cioè pochi, quelli che intendano te bene. E dico la cagione, la quale è doppia. Prima: però che faticosa parli - ‘faticosa’, dico, per la cagione che detta è -; poi: però che forte parli - ‘forte’, dico, quanto a la novitade de la sentenza -. 8. Ora appresso ammonisco lei e dico: Se per avventura incontra che tu vadi là dove persone siano che dubitare ti paiano ne la tua ragione, non ti smarrire, ma dì loro: Poi che non vedete la mia bontade, ponete mente almeno la mia bellezza. 9. Che non voglio in ciò altro dire, secondo ch’è detto di sopra, se non: O uomini, che vedere non potete la sentenza di questa canzone, non la rifiutate però; ma ponete mente la sua bellezza, ch’è grande sì per construzione, la quale si pertiene a li gramatici, sì per l’ordine del sermone, che si pertiene a li rettorici, sì per lo numero de le sue parti, che si pertiene a li musici. Le quali cose in essa si possono belle vedere, per chi ben guarda. 10. E questa è tutta la litterale sentenza de la prima canzone, che è per prima vivanda intesa innanzi. CAPITOLO XII 1. Poi che la litterale sentenza è sufficientemente dimostrata, è da procedere a la esposizione allegorica e vera. E però principiando ancora da capo, dico che, come per me fu perduto lo primo diletto de la mia anima, de la quale fatta è menzione di sopra, io rimasi di tanta tristizia punto, che conforto non mi valeva alcuno. 2. Tuttavia, dopo alquanto tempo, la mia mente, che si argomentava di sanare, provide, poi che né ’l mio né l’altrui consolare valea, ritornare al modo che alcuno sconsolato avea tenuto a consolarsi; e misimi a leggere quello non conosciuto da molti libro di Boezio, nel quale, cattivo e discacciato, consolato s’avea. 3. E udendo ancora che Tullio scritto avea un altro libro nel quale, trattando de l’Amistade, avea toccate parole de la consolazione di Lelio, uomo eccellentissimo, ne la morte di Scipione amico suo, misimi a leggere quello. 4. E avvegna che duro mi fosse ne la prima entrare ne la loro sentenza, finalmente v’entrai tanto entro, quanto l’arte di gramatica ch’io avea e un poco di mio ingegno potea fare; per lo quale ingegno molte cose, quasi come sognando, già vedea, sì come ne la Vita Nuova si può vedere. 5. E sì come essere suole che l’uomo va cercando argento e fuori de la ’ntenzione truova oro, lo quale occulta cagione presenta, non forse sanza divino imperio; io, che cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie lagrime rimedio, ma vocabuli d’autori e di scienze e di libri: li quali considerando, giudicava bene che la filosofia, che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa. 6. E imaginava lei fatta come una donna gentile, e non la poteva immaginare in atto alcuno, se non misericordioso; per che sì volentieri lo senso di vero la mirava, che appena lo potea volgere da quella. 7. E da questo imaginare cominciai ad andare là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti; sì che in picciol tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire de la sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero. 8. Per che io, sentendomi levare dal pensiero del primo amore a la virtù di questo, quasi maravigliandomi apersi la bocca nel parlare de la proposta canzone, mostrando la mia condizione sotto figura d’altre cose: però che de la donna di cu’ io m’innamorava non era degna rima di volgare alcuna palesemente po[e]tare; né li uditori erano tanto bene disposti, che avessero sì leggiere le [non] fittizie parole apprese; né sarebbe data loro fede a la sentenza vera, come a la fittizia, però che di vero si credea del tutto che disposto fosse a quello amore, che non si credeva di questo. 9. Cominciai dunque a dire: Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete. E perché, sì come detto è, questa donna fu figlia di Dio, regina di tutto, nobilissima e bellissima Filosofia, è da vedere chi furono questi movitori, e questo terzo cielo. E prima del cielo, secondo l’ordine trapassato. 10. E non è qui mestiere di procedere dividendo, e a littera esponendo; ché, volta la parola fittizia di quello ch’ella suona in quello ch’ella ’ntende, per la passata sposizione questa sentenza fia sufficientemente palese. eADV eADV CAPITOLO XIII 1. A vedere quello che per lo terzo cielo s’intende, prima si vuol vedere che per questo solo vocabulo ‘cielo’ io voglio dire; e poi si vedrà come e perché questo terzo cielo ci fu mestiere. 2. Dico che per cielo intendo la scienza e per cieli le scienze, per tre similitudini che li cieli hanno con le scienze massimamente; e per l’ordine e numero in che paiono convenire, sì come trattando quello vocabulo, cioè ‘terzo’, si vedrà. 3. La prima similitudine si è la revoluzione de l’uno e de l’altro intorno a uno suo immobile. Ch&ea eADV eADV eADV eADV eADV eADV eADV

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