Una luce nel labirinto

Una luce nel labirinto
Non arrendersi mai.

una luce nel labirinto

una luce nel labirinto
Non sottomettersi mai.

domenica 18 ottobre 2020

E.Fromm, L 'alienazione in Marx e Freud.

E. Fromm Marx e Freud il Saggiatore, Milano 1997 L'alienazione in Marx e in Freud Qual è il concetto di patologia psichica in Freud e in Marx? Il concetto di Freud è risaputo: egli sostiene che se l'uomo non riesce a risolvere il suo complesso di Edipo o, in altre parole, se l'uomo non supera i conflitti infantili e non sviluppa un orientamento genitale maturo, egli si dibatterà tra i desideri del bambino che è in lui e le sue esigenze di persona adulta. Il sintomo nevrotico rappresenta un compromesso tra i bisogni infantili e quelli dell'adulto, mentre la psicosi è quel tipo di patologia in cui i desideri e le fantasie infantili hanno soffocato l'Io adulto al punto che non esiste più alcun compromesso tra i due mondi. Marx, naturalmente, non ha mai sviluppato una psicopatologia sistematica, tuttavia parla di una forma di distorsione psichica che, a suo avviso, è la più importante espressione di psicopatologia e che il socialismo si propone di superare: l'alienazione. Che cosa intende Marx per alienazione o «estraniazione»? L'essenza di questo concetto, già sviluppato da Hegel, è che il mondo, cioè la natura, le cose, gli altri, sono diventati estranei all'uomo come egli lo è diventato a se stesso. L'uomo non sperimenta se stesso come soggetto delle proprie azioni, cioè come una persona che ama, sente e pensa, ma sperimenta se stesso solo nelle cose che ha creato, divenendo oggetto delle manifestazioni esteriorizzate delle sue forze. E’ in contatto con se stesso solo abbandonandosi ai prodotti della sua creazione. Hegel, assumendo Dio come soggetto della storia, aveva visto Dio nell'uomo, in uno stato di autoalienazione, e nel processo della storia il ritorno di Dio a se stesso. Feuerbach capovolse la posizione hegeliana; secondo lui, Dio rappresenta le forze stesse dell'uomo trasferite dall'uomo che ne è possessore a un essere al di fuori di lui, di modo che l'uomo entra in intimo contatto con le proprie forze solo attraverso l'adorazione di Dio: tanto più forte e ricco è Dio tanto più povero e debole diviene l'uomo. Marx fu profondamente colpito e influenzato dal pensiero di Feuerbach. Nella sua introduzione alla Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (scritta verso la fine del 1843) egli seguì Feuerbach nella sua analisi dell'alienazione. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 Marx procedette dal fenomeno dell'alienazione religiosa a quello dell'alienazione del lavoro. Parallelamente all'analisi dell'alienazione religiosa di Feuerbach, Marx scrisse: «L'operaio diventa una merce tanto più vile quanto più grande è la quantità di merce che produce». E pochi paragrafi dopo scrisse: Tutte queste conseguenze sono implicite nella determinazione che l'operaio si viene a trovare rispetto al prodotto del suo lavoro come rispetto ad un oggetto estraneo. Infatti, partendo da questo presupposto è chiaro che: quanto più l'operaio si consuma nel lavoro, tanto più potente diventa il mondo estraneo, oggettivo, che egli si crea dinnanzi, tanto più povero diventa egli stesso, e tanto meno il suo mondo interno gli appartiene. Lo stesso accade nella religione. Quante più cose l'uomo trasferisce in Dio, tanto meno egli ne ritiene in se stesso. L'operaio ripone la sua vita nell'oggetto; ma d'ora in poi la sua vita non appartiene più a lui, ma all'oggetto. Quanto più grande è dunque questa attività, tanto più l'operaio è privo di oggetto... L'alienazione dell'operaio nel suo prodotto significa non solo che il suo lavoro diventa un oggetto, qualcosa che esiste all'esterno, ma che esso esiste fuori di lui, indipendente da lui, a lui estraneo, e diventa di fronte a lui una potenza per sé stante; significa che la vita che egli ha dato all'oggetto, gli si contrappone ostile ed estranea. L'operaio, continua Marx, non è solo alienato dai prodotti che crea: «Ma l'estraniazione si mostra non soltanto nel risultato, ma anche nel processo della produzione, entro la stessa attività produttiva». Poi ritorna ancora all'analogia tra l'alienazione del lavoro e l'alienazione religiosa: Come nella religione, l'attività propria della fantasia umana, del cervello umano e del cuore umano influisce sull'individuo indipendentemente dall'individuo, come un'attività estranea, divina o diabolica, così l'attività dell'operaio non è la sua propria attività. Dal concetto di lavoro alienato, Marx passa al concetto dell'estraniazione dell'uomo da se stesso, dai propri simili e dalla natura. Egli definisce il lavoro nella sua forma originale e non alienata «un'attività della vita, la vita produttiva» (Lebenstaetzgkeit, das produktive Leben), e poi definisce il carattere dell'uomo in quanto essere appartenente a una specie come «un'attività libera e consapevole» (freie bewusste Taetigkeit). Nel lavoro alienato, l'attività libera e consapevole dell'uomo si degrada nell'attività alienata e «... la sua vita di essere che appartiene ad una specie diventa per lui un mezzo». Come risulta da quanto ha sopra affermato, Marx non solo si interessa dell'estraniazione dell'uomo dal suo prodotto o dell'alienazione prodotta dal lavoro, ma si interessa anche dell'estraniazione dell'uomo dalla vita, da se stesso e dal suo simile. Così egli esprime questa idea: il lavoro alienato fa dunque dell'essere dell'uomo, come essere appartenente ad una specie, tanto della natura quanto della sua specifica capacità spirituale, un essere a lui estraneo, un mezzo della sua esistenza individuale. Esso rende all'uomo estraneo il suo proprio corpo, tanto la natura esterna, quanto il suo essere spirituale, il suo essere umano. Una conseguenza immediata del fatto che l'uomo è reso estraneo al prodotto del suo lavoro, della sua attività vitale, al suo essere generico, è l'estraniazione dell'uomo dall'uomo. Se l'uomo si contrappone a se stesso, l'altro uomo si contrappone a lui. Quello che vale del rapporto dell'uomo col suo lavoro, col prodotto del suo lavoro e con se stesso, vale del rapporto dell'uomo con l'altro uomo, ed altre sì col lavoro e con l'oggetto del lavoro dell'altro uomo. In generale, la proposizione che all'uomo è reso estraneo il suo essere in quanto appartiene a una specie, significa che un uomo è reso estraneo all'altro uomo, e altre sì che ciascuno di essi è reso estraneo all'essere dell'uomo. A questa esposizione del concetto di alienazione in Marx, come egli lo espresse nei Manoscritti economico-filosofici, devo aggiungere che tale concetto, se non la parola, mantiene un'importanza fondamentale in tutte le sue principali opere successive, compreso Il Capitale. Nell'ideologia tedesca Marx scrisse: fin tanto che esiste, quindi, la scissione fra interesse particolare e interesse comune... l'azione propria dell'uomo diventa una potenza a lui estranea, che lo sovrasta, che lo soggioga, invece di essere da lui dominata. E più avanti: Questo fissarsi dell'attività sociale, questo consolidarsi del nostro proprio prodotto in un potere obiettivo che ci sovrasta, che cresce fino a sfuggire al nostro controllo, che contraddice le nostre aspettative, che annienta i nostri calcoli, è stato fino a oggi uno dei momenti principali dello sviluppo storico. Faccio ora seguire alcune delle numerose considerazioni sull'alienazione contenute nel Capitale: Nella manifattura e nell'artigianato l'operaio si serve dello strumento, nella fabbrica è l'operaio che serve la macchina. Là, dall'operaio parte il movimento del mezzo di lavoro, il cui movimento qui egli deve seguire. Nella manifattura gli operai costituiscono le articolazioni di un meccanismo vivente. Nella fabbrica esiste un meccanismo morto indipendente da essi, egli operai gli sono incorporati come appendici umane. Oppure l'educazione dell'avvenire collegherà... il lavoro produttivo con l'istruzione e la ginnastica, non solo come metodo per aumentare la produzione sociale, ma anche come unico metodo per produrre uomini di pieno e armonico sviluppo. Oppure, per l'industria moderna diventa questione di vita o di morte... sostituire all'individuo parziale, mero veicolo di una funzione sociale di dettaglio, l'individuo totalmente sviluppato per il quale le differenti funzioni sociali sono modi di attività che si danno il cambio l'uno con l'altro. Quindi l'alienazione per Marx è la malattia dell'uomo; non è una malattia nuova poiché ha necessariamente origine con l'inizio della divisione del lavoro cioè della civiltà che trascende la società primitiva; essa è più fortemente sviluppata nella classe operaia, tuttavia è una malattia della quale tutti soffrono. La malattia si può curare solo quando abbia raggiunto lo stadio più avanzato; solo l'uomo totalmente alienato può vincere l'alienazione: egli è costretto a vincerla in quanto non può vivere come uomo totalmente alienato e, al tempo stesso, restare sano. La risposta è nel socialismo; nella società socialista l'uomo diventa il soggetto consapevole della storia, diventando soggetto delle proprie forze sperimenta se stesso e si emancipa in tale modo dall'asservimento alle cose e alle circostanze. Marx espresse questa idea del socialismo e l'attuazione della libertà alla fine del terzo volume del Capitale nel passo seguente: Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare anche l'uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mano che egli si sviluppa, il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni. La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l'uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessita. Ci avviciniamo maggiormente al problema dell'alienazione come problema psicologico e morale se consideriamo, sotto questo profilo, le affermazioni di Marx. Secondo lui, l'alienazione corrompe e perverte tutti i valori umani. Facendo dell'attività economica e dei valori a essa connessi, ad esempio «il guadagno, il lavoro, la parsimonia e la sobrietà», come egli scrive nel terzo volume del Capitale, il valore supremo della vita, l'uomo non riesce a sviluppare i veri valori morali dell'umanità, «... la ricchezza in fatto di buona coscienza, di virtù, ecc.; ma come posso essere virtuoso se non sono, e come posso avere una buona coscienza, se non so nulla ?» In uno stato di alienazione, ogni sfera della vita, la sfera economica e quella morale, è indipendente dall'altra, «... e infatti ognuna di queste due sfere rappresenta un modo determinato di estraniazione umana e fissa un ambito particolare di attività essenziale estraniata; ognuna si riferisce in forma estraniata all'estraniazione dell'altra». Marx previde con chiarezza sorprendente il fatto che le necessità dell'uomo in una società alienata sarebbero degenerate in vere e proprie debolezze. Nel capitalismo, come lo vede Marx, ogni uomo s'ingegna di procurare all'altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo a un nuovo sacrificio, per ridurlo a una nuova dipendenza e spingerlo a un nuovo modo di godimento e quindi di rovina economica. Ognuno cerca di creare al di sopra dell'altro una forza essenziale estranea per trovarvi la soddisfazione del proprio bisogno egoistico. Con la massa degli oggetti cresce quindi la sfera degli esseri estranei, ai quali l'uomo è soggiogato, e ogni nuovo prodotto è un nuovo potenziamento del reciproco inganno e delle reciproche spogliazioni. L'uomo diventa tanto più povero come uomo, ha tanto più bisogno del denaro, per impadronirsi dell'essere ostile, e la potenza del suo denaro sta giusto in proporzione inversa alla massa della produzione; in altre parole, la sua miseria cresce nella misura in cui aumenta la potenza del denaro. Perciò il bisogno del denaro è il vero bisogno prodotto dall'economia politica, il solo bisogno che essa produce. La quantità del denaro diventa sempre più il suo unico attributo di potenza: come il denaro ha ridotto ogni essere alla propria astrazione, così esso si riduce nel suo proprio movimento a mera quantità. La sua vera misura è di essere smisurato e smoderato. Così si presenta la cosa anche dal punto di vista soggettivo: in parte l'estensione dei prodotti e dei bisogni si fa schiava schiava ingegnosa e sempre calcolatrice - di appetiti disumani, raffinati, innaturali, e immaginari; la proprietà privata non sa fare del bisogno grossolano un bisogno umano; il suo idealismo è l'immaginazione, l'arbitrio, il capriccio. L'eunuco non adula il suo despota più bassamente e non cerca con mezzi più infami di eccitare la di lui ottusa capacità di godere per carpirgli qualche favore, di quanto l'eunuco dell'industria, il produttore, al fine di carpire qualche po' di denaro e di cavare gli zecchini dalle tasche del prossimo cristianamente amato, non si adatti ai più abietti capricci dei propri simili, non faccia la parte di mezzano tra i propri simili e i loro bisogni, non ecciti i loro appetiti morbosi, non spii ogni loro debolezza per esigere poi il prezzo dei suoi buoni uffici. Ogni prodotto è un'esca con cui si vuoi attrarre a sé ciò che costituisce l'essenza dell'altro, il suo denaro; ogni bisogno reale o soltanto possibile è una debolezza che farà cascare la mosca nella pania - sfruttamento universale dell'essere sociale dell'uomo; allo stesso modo che ogni imperfezione dell'uomo è un vincolo che lo unisce col cielo, è il lato in cui il suo cuore è accessibile ai preti. Ogni necessità è un'occasione per presentarsi al proprio prossimo sotto le più allettanti spoglie e dirgli: caro amico, io ti do quel che ti è necessario, ma tu conosci la conditio sine qua non, tu sai con quale inchiostro devi scrivere l'impegno che assumi con me; nel momento stesso in cui ti procuro un godimento, ti scortico. L'uomo così assoggettato ai bisogni derivanti dall'alienazione è «... un essere tanto spiritualmente che fisicamente disumanizzato... la merce cosciente di sé e per sé attiva...». Questa merce umana conosce un solo modo di avere rapporto col mondo esterno, quello di possederlo e consumarlo (usarlo). Quanto più l'uomo è alienato tanto più il senso del possesso e dell'uso costituisce la sua relazione col mondo. Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita, tanto più hai, tanto più grande è la tua vita alienata, tanto più accumuli dei tuo essere estraniato. Trattando il concetto di alienazione in Marx, potrebbe essere interessante indicare la stretta connessione esistente tra il fenomeno dell'alienazione e quello del transfert che costituisce uno dei concetti fondamentali nel sistema di Freud. Egli aveva osservato che il paziente tendeva a innamorarsi dell'analista, ad averne paura o a odiarlo e ciò senza che vi fosse una correlazione con l'effettiva personalità di quest'ultimo. Freud credeva di avere trovato la spiegazione teorica di tale fenomeno supponendo che il paziente trasferisse nella persona dell'analista i sentimenti di amore, di paura e di odio provati da bambino verso i genitori. Nel «transfert», Freud pensava, il bambino che continua a esistere nel paziente adulto stabilisce un rapporto con l'analista come se questi fosse suo padre o sua madre. Indubbiamente l'interpretazione data da Freud al fenomeno del transfert è convalidata da molte prove e contiene una buona dose di verità, tuttavia non è un'interpretazione esauriente. Il paziente adulto non è un bambino, e parlare del bambino che è in lui, o del "suo" inconscio, significa usare un linguaggio topologico che non rende giustizia alla complessità dei fatti. Il nevrotico adulto è un essere alienato: non si sente forte, è spaventato e inibito perché non sperimenta se stesso come il soggetto e l'autore dei propri atti e delle proprie esperienze. E nevrotico perché è alienato. Per vincere la sensazione di vuoto interiore e di impotenza, sceglie un oggetto sul quale proietta tutte le proprie qualità umane: il suo amore, la sua intelligenza, il suo coraggio, ecc. Sottomettendosi a tale oggetto, egli si sente in contatto con le sue stesse qualità e, di conseguenza, si sente forte, saggio, coraggioso e sicuro. La perdita dell'oggetto comporta il pericolo di perdere se stesso. Questo meccanismo, cioè l'idolatria per un oggetto, fondato sull'alienazione dell'individuo, è il fulcro della dinamica del transfert, capace di dare al fenomeno la sua carica e intensità. Si può verificare che un individuo con un minor grado di alienazione trasferisca parte della sua esperienza infantile sull'analista, ma l'intensità del processo sarebbe scarsa. Il paziente alienato, che ricerca e ha bisogno di un idolo, trova l'analista e solitamente gli attribuisce le qualità del padre e della madre in quanto sono state le due persone maggiormente investite di autorità da lui conosciute da bambino. Così il contenuto del transfert è solitamente collegato a modelli di comportamento infantili mentre la sua intensità è il risultato dell'alienazione del paziente. E superfluo aggiungere che il fenomeno del transfert non è limitato alla situazione che si crea nella seduta psicoanalitica: si ritrova in tutte le forme di idolatria per personaggi autorevoli della vita politica, religiosa e sociale. Il transfert non è il solo fenomeno di psicopatologia che possa essere inteso come espressione di alienazione. In realtà aliéné in francese e alienado in spagnolo non a caso sono parole più antiche per designare lo psicotico, e l'inglese alienist si riferisce al medico che cura il pazzo cioè la persona completamente alienata. L'alienazione come malattia dell'Io può essere considerata il nucleo della psicopatologia dell'uomo moderno anche in quelle forme che non sono così gravi come la psicosi. Alcuni casi clinici possono servire a illustrare il processo. Il caso più evidente e frequente di alienazione è forse quello del falso «grande amore». Un uomo si è follemente innamorato; la donna, dopo avere corrisposto all'inizio, è assalita da dubbi crescenti e interrompe la relazione. Egli è sopraffatto da una prostrazione che lo porta vicino al suicidio: sente che la vita non ha più significato per lui. A livello conscio, egli giustifica la propria situazione come risultato logico di quanto è accaduto. Crede di avere vissuto per la prima volta il vero amore e pensa che avrebbe potuto provare amore e felicità con questa donna e solo con lei: se lo lascia, nessun'altra riuscirà a provocare in lui lo stesso sentimento. Perdendola, ha perso la sua sola possibilità di amare, quindi è preferibile morire. Mentre tutto questo a lui può sembrare naturale, i suoi amici si chiederanno: perché un uomo che sinora sembrava meno capace di amare rispetto alla media, adesso è così innamorato da preferire la morte a una vita senza la donna amata? Perché, pur essendo così innamorato, sembra restio a fare concessioni e a rinunciare a certe esigenze che contrastano con quelle della donna che ama? Perché, mentre parla della sua sfortuna, parla soprattutto di sé e di quanto gli è accaduto mostrando un interesse relativamente scarso per i sentimenti della donna che ama tanto? Parlando più da vicino con un uomo così infelice, non bisogna sorprendersi se a un certo punto egli afferma di sentirsi completamente vuoto, così vuoto, effettivamente, come se avesse riposto ogni sua speranza nella ragazza. Se riuscirà a rendersi conto del significato della sua affermazione, comprenderà che la sua è la condizione dell'alienato. Egli non è mai stato capace di amare in modo attivo, di uscire dal cerchio magico del proprio lo per identificarsi in modo completo con un altro essere umano: non ha fatto altro che trasferire il suo desiderio ardente di amore nella ragazza e sentire dì vivere il suo «amore» con lei mentre, in realtà, ha vissuto solo l'illusione di amare. Quanto più ripone in lei non solo il suo desiderio di amore ma anche di vitalità, di felicità e così via, tanto più diventa povero e tanto più si sente vuoto se è separato da lei. Aveva l'illusione di amare e in realtà aveva fatto della donna un idolo, la dea dell'amore, con la convinzione di sperimentare l'amore nell'unione con lei. Inizialmente era riuscito a farsi corrispondere ma non a vincere il proprio mutismo interiore. Perderla non comporta, come egli crede, la perdita della persona amata ma la perdita di se stesso come individuo dotato di una carica di amore. L'alienazione del pensiero non è diversa dall'alienazione sentimentale. Spesso crediamo di avere vagliato un pensiero e pensiamo che l'idea sia il risultato del nostro raziocinio mentre in effetti abbiamo trasferito la nostra capacità intellettuale negli idoli dell'opinione pubblica, della stampa, del governo o in un campo politico. Crediamo di esprimere i nostri pensieri mentre in realtà accettiamo i loro pensieri come se fossero i nostri perché li abbiamo scelti come nostri idoli, come divinità piene di saggezza e di conoscenza: proprio per tale ragione siamo incapaci di rinunciare a venerarli e siamo loro schiavi perché ragioniamo con la loro testa. Un altro esempio di alienazione, in cui il futuro si trasforma in un idolo, è l'alienazione della speranza. Si può osservare con chiarezza questa idolatria della storia nel pensiero di Robespierre: O posterità, dolce e tenera speranza del genere umano, tu non sei per noi una straniera; per te noi sfidiamo tutti i colpi della tirannide; la tua felicità è il premio delle nostre più dolorose lotte. Spesso scoraggiati dagli ostacoli che ci circondano, sentiamo il bisogno delle tue consolazioni; a te affidiamo il compito di completare il nostro travaglio, e il destino di tutte le generazioni non nate!... Affrettati, o posterità, per l'avvento dell'ora dell'uguaglianza, della giustizia e della felicita! In modo analogo i comunisti hanno spesso adoperato una versione distorta della filosofia della storia di Marx. La logica dell'argomentazione è la seguente: tutto ciò che è in armonia con l'orientamento della storia è necessario e quindi valido, e viceversa Secondo tale modo di vedere, presente nella versione di Robespierre come nell'interpretazione dei comunisti, non è l'uomo che fa la storia ma è la storia che fa l'uomo. Non è l'uomo a sperare e ad avere fede nel futuro, ma è il futuro a giudicarlo e a decidere se la sua fede era ben fondata. Con estrema concisione Marx ha offerto una visione della storia opposta alla forma di alienazione cui ho ora accennato. La storia [scrive nella Sacra Famiglia] non fa nulla, non possiede colossali ricchezze, non combatte nessuna battaglia! E piuttosto l'uomo, l'uomo reale e vivente, che fa tutto questo; la «storia» non adopera l'uomo come mezzo per i suoi fini quasi egli fosse una persona estranea; essa non è altro che l'attività dell'uomo che persegue i suoi scopi!' Il fenomeno dell'alienazione ha altri aspetti clinici che tratterà brevemente. Non solo tutte le forme di depressione, dipendenza e idoleggiamento (incluso il caso di «fanatismo») sono espressioni dirette di alienazione o forme di compensazione della stessa; ma il fallimento derivante dalla mancata sperimentazione della propria identità, che è un fenomeno centrale alla radice dei fenomeni psicopatologici, è anch'esso un risultato dell'alienazione. Proprio perché l'individuo alienato ha trasferito le sue finzioni emotive e intellettive su un oggetto esterno, egli non è se stesso, non possiede alcuna coscienza «dell'Io», della propria identità. La mancanza di questa coscienza d'identità comporta numerose conseguenze, tra le quali la principale e più diffusa è quella di impedire l'integrazione della personalità totale. L'individuo rimane perciò disunito dentro di sé: egli o è privo della capacità di «volere una sola cosa», per usare le parole di Kierkegaard o, se gli sembra di volere una cosa, la sua volontà manca di autenticità. Nel senso più ampio, ogni nevrosi può essere considerata una conseguenza dell'alienazione; ciò si verifica in quanto è fatto caratteristico della nevrosi che una passione (per esempio per il denaro, il potere, le donne ecc.) divenga dominante e separata dalla personalità totale giungendo così a condizionare l'individuo. La passione è il suo idolo, e a essa si sottomette anche se gli accade di razionalizzare la natura del suo idolo dandogli nomi diversi e spesso allettanti. Egli è dominato da un desiderio parziale e vi trasferisce tutto quello che gli rimane divenendo tanto più debole nella misura in cui «tale desiderio» si rafforza. Si è estraniato da se stesso proprio perché «egli» è divenuto schiavo di una parte di sé. Nel considerare l'alienazione un fenomeno patologico non dobbiamo tuttavia trascurare il fatto che Hegel e Marx lo giudicarono un fenomeno necessario inerente al processo dell'evoluzione umana. Ciò vale sia per l'alienazione della ragione sia per quella dell'amore. Solo nella misura in cui sono in grado di distinguere tra il mondo esterno e me stesso, vale a dire, solamente se il mondo esterno diviene un oggetto, riesco a capirlo e a farne il mio mondo ridiventando tutt'uno con esso. Anche il bimbo di pochi anni, che non concepisce ancora il mondo come «oggetto», può non riuscire a capirlo con la ragione e a congiungersi a esso. E necessario che l'uomo sperimenti l'alienazione per riuscire a superare questa scissione sul piano razionale. La stessa cosa vale per l'amore. Finché il bambino non si sia distaccato dal mondo esterno resterà parte di esso e di conseguenza non sarà capace di amare. Per potere amare, «l'altro» deve divenire un estraneo, per poi cessare di essere tale nell'atto di amore entrando a far parte di me stesso. L'amore presuppone l'alienazione e al tempo stesso la supera. Si può trovare la stessa idea nel concetto profetico dell'epoca messianica e in quello marxista del socialismo. Nel paradiso, l'uomo si identificava ancora con la natura e non era cosciente di sé quale essere distinto da essa e dai suoi simili. Con il suo atto di disubbidienza l'uomo acquista autocoscienza e il mondo gli diviene estraneo. Nel processo storico, secondo il concetto profetico, l'uomo sviluppa le proprie capacità umane con tale pienezza da acquistare alla fine una nuova armonia con gli uomini e con la natura. Il socialismo come lo intende Marx potrà attuarsi soltanto quando l'uomo avrà spezzato tutti gli antichi legami e, divenuto completamente alienato, sarà così capace di ricongiungersi agli altri uomini e alla natura senza sacrificare la propria integrità e individualità. Il concetto di alienazione ha le sue radici in una fase precedente a quella della tradizione occidentale, nel pensiero dei profeti del Vecchio Testamento e più precisamente nel loro concetto di idolatria. I profeti del monoteismo non denunciarono l'idolatria delle religioni pagane soprattutto perché esse veneravano numerosi dèi invece di uno solo: la differenza essenziale tra monoteismo e politeismo non risiede nel numero degli dèi bensì nel fenomeno dell'alienazione. L'uomo spende le proprie energie e le sue capacità artistiche per costruire un idolo che egli venera e quest'idolo non è altro che il risultato del suo stesso sforzo umano. Le sue forze vitali sono confluite in una «cosa» e questa, una volta trasformata in idolo, non è più sentita quale risultato del suo sforzo produttivo ma come qualcosa al di fuori di lui, qualcosa che si pone al di sopra e contro di lui, qualcosa che egli venera e a cui si sottomette. Come dice il profeta Osea (XIV, 4): Assur non potrà salvarci: non confideremo più nei nostri eserciti, e non diremo più «nostro Dio» a un idolo fatto con le nostre mani. Sì, l'orfano solo in te trova misericordia. L'idolatra si inginocchia davanti al prodotto delle proprie mani. L'idolo rappresenta le sue stesse forze vitali sotto forma alienata. Invece secondo il principio del monoteismo l'uomo è infinito e non esiste in lui una qualità parziale che abbia carattere ipostatico e che lo rappresenti totalmente. Nella concezione monoteistica la natura di Dio non può essere scoperta né definita perché Dio non è una «cosa». L'uomo, in quanto creato a immagine di Dio, è dotato di infinite qualità. Nell'idolatria egli si inginocchia e si sottomette alla proiezione di una sua particolare qualità, non sperimenta se stesso come il centro dal quale si irradiano atti promossi dalla ragione e dal cuore. Egli si riduce a una cosa, il suo prossimo si riduce a una cosa, proprio come i suoi dèi sono cose. Oro e argento son gl'idoli delle genti, fattura delle mani dell'uomo. Hanno la bocca e non parlano, hanno gli occhi ma non vedono, hanno gli orecchi e non sentono, non c'è fiatonella bocca loro. Sian com'essi quei che li fanno, e chiunque in essi confida. [Salmo 135] L'uomo moderno della società industriale ha cambiato la forma e l'intensità dell'idolatria. E divenuto un oggetto in balia di cieche forze economiche che dominano la sua vita: venera l'opera delle sue mani trasformando se stesso in cosa. L'alienazione non è propria soltanto della classe operaia (in realtà un operaio specializzato non è tanto alienato quanto coloro che manipolano uomini e simboli) ma coinvolge ognuno di noi. Tale processo di alienazione in atto nei paesi industrializzati europei e americani, indipendentemente dalla loro struttura politica, ha dato origine a nuovi movimenti di protesta. La rinascita dell'umanesimo socialista è un sintomo di tale protesta. Proprio perché l'alienazione ha raggiunto un punto tale da rasentare la pazzia nell'intero mondo industrializzato, minando e distruggendo le sue tradizioni religiose, spirituali e politiche, e minacciando il suo annientamento con la guerra nucleare, a molti risulta ora più chiaro che Marx aveva individuato il motivo fondamentale della malattia dell'uomo moderno. Non solo egli aveva individuato tale «malattia», come Feuerbach e Kierkegaard, ma aveva dimostrato che l'idolatria contemporanea è connessa ai modi di produzione attuali e che la si può cambiare solo trasformando completamente l'assetto economico-sociale dando al tempo stesso avvio a una liberazione spirituale dell'uomo. Dall'analisi del pensiero di Marx e di quello di Freud sulle malattie mentali, risulta evidente che Freud si occupa soprattutto della patologia individuale mentre Marx si occupa della patologia propria di una società e che è provocata dal particolare sistema di quella società. Inoltre è chiaro che il contenuto della psicopatologia è del tutto diverso in Marx e in Freud. Freud individua l'aspetto patologico soprattutto nell'incapacità di trovare un equilibrio soddisfacente tra Es e lo, tra le esigenze istintuali e quelle della realtà; per Marx la malattia principale è quella che il XIX secolo chiamò la maladie du siècle: l'estraniazione dell'uomo dalla sua stessa umanità e quindi dal suo simile. Tuttavia, spesso sfugge il fatto che Freud non pensò esclusivamente in termini di patologia individuale. Egli parla anche di una «nevrosi sociale»: Se l'evoluzione della civiltà è tanto simile a quella dell'individuo e se usa i suoi stessi mezzi, non è forse lecita la diagnosi che alcune civiltà, o epoche civili, - e magari l'intero genere umano - sono divenuti «nevrotici» per effetto del loro stesso sforzo di civiltà? Alla dissezione analitica di queste nevrosi potrebbero far seguito suggerimenti terapeutici in grado di rivendicare un grande interesse pratico. Non voglio dire che un simile tentativo di applicare la psicoanalisi alla comunità civile non avrebbe senso o sarebbe condannato alla sterilità. Ma bisognerebbe andar molto cauti, non dimenticare mai che in fin dei conti si tratta solo di analogie, e che è pericoloso, non solo con gli uomini ma anche coi concetti, strapparli dalla sfera in cui sono sorti e si sono evoluti. La diagnosi di nevrosi collettive s'imbatte poi in una difficoltà particolare. Nella nevrosi individuale l'impressione di contrasto suscitata dal malato sullo sfondo del suo ambiente considerato «normale» ci offre un immediato punto di riferimento. Un simile sfondo verrebbe a mancare in una massa tutta ugualmente ammalata e dovrebbe essere cercato altrove. Quanto poi all'applicazione terapeutica della comprensione raggiunta, a che cosa gioverebbe un'analisi, sia pure acutissima, delle nevrosi sociali, visto che nessuno possiede l'autorità di imporre alla massa una cura siffatta? Nonostante tutte queste difficoltà, aspettiamoci pure che un giorno qualcuno si arrischi a lavorare su questa patologia delle comunità civili. Nonostante l'interesse di Freud per le «nevrosi sociali», tra il pensiero di Marx e quello di Freud permane una differenza fondamentale. Marx considera l'uomo formato dalla sua società, e scorge quindi le radici della patologia nelle caratteristiche specifiche dell'organizzazione sociale. Freud crede invece che la formazione dell'uomo dipenda essenzialmente dalla sua esperienza nel gruppo familiare ma trascura il fatto che la famiglia rappresenta la società e ne è lo strumento; egli giudica le varie società in base alla quantità di rimozione da loro imposta anziché in base alla qualità della loro organizzazione e all'impatto esercitato da tale qualità sociale sulla qualità del modo di pensare e di sentire di una data società. Nell'esporre la differenza di opinioni fra Marx e Freud sulla psicopatologia si deve accennare, sia pure brevemente, a un altro aspetto che i due pensatori trattano seguendo lo stesso metodo. Secondo Freud, la fase di narcisismo primario del neonato e le fasi successive orale e anale dello sviluppo della libido, sono «normali» in quanto sono tappe necessarie nel processo di evoluzione. Il fanciullo dipendente e avido non è malato. E invece malato l'adulto dipendente e avido che ha subito un processo di «fissazione» o di «regressione» allo stadio orale del bambino. I principali bisogni e gli sforzi per soddisfarli sono gli stessi nel neonato e nell'adulto; perché allora uno è sano e l'altro è malato? La soluzione ci viene ovviamente dal concetto di evoluzione. Ciò che è normale in una certa fase è patologico in un'altra; in altri termini, ciò che è necessario in una certa fase è anche normale e razionale, ciò che non è necessario dal punto di vista dell'evoluzione è irrazionale e patologico. L'adulto che «ripete» una fase infantile, di fatto non la ripete, e non può ripeterla, proprio perché non è più un bambino. Seguendo Hegel, Marx usa un metodo analogo per studiare l'evoluzione dell'uomo nella società. L'uomo primitivo, l'uomo medioevale e l'uomo alienato della società industriale sono al tempo stesso malati e sani perché la loro fase di sviluppo è una fase necessaria. Proprio come il neonato deve maturare sotto il profilo fisiologico per diventare adulto, così la razza umana deve maturare da un punto di vista sociale nel progressivo controllo della natura e della società per realizzare pienamente la propria umanità. Ogni irrazionalità del passato, anche se deplorabile, è razionale in quanto si è resa necessaria. Ma quando la razza umana si arresta a uno stadio di sviluppo che avrebbe già dovuto superare, quando si trova in contraddizione con le possibilità offerte dalla situazione storica, la sua esistenza è allora irrazionale, o, se Marx avesse usato questo termine, patologica. Ti concetto di patologia, in Marx come in Freud, può essere compreso pienamente solo alla luce della loro concezione evoluzionista della storia dell'individuo e della storia dell'umanità.

Nessun commento: