lunedì 22 settembre 2025
Discorso di Keines.
John Maynard Keynes
Economic Possibilities for our
Grandchildren.
Prospettive economiche per i nostri nipoti
Conferenza tenuta da Keynes a Madrid nel giugno del 1930. Ora nel nono volume dei suoi
Collected Writings intitolato Essays in Persuasion, tradotta in Italia da Bollati Boringhieri
(La fine del laissez faire ed altri scritti, Torino 1991).
I
In questo momento siamo affetti da un grave attacco di pessimismo economico. È cosa
comune sentir dire dalla gente che è ormai conclusa l’epoca dell’enorme progresso
economico che ha caratterizzato il secolo XIX; che adesso il rapido miglioramento del
tenore di vita dovrà rallentare, per lo meno in Gran Bretagna; che nel prossimo decennio è
più probabile un declino anziché un fiorire della prosperità.
Ritengo che questa sia un’interpretazione estremamente errata di quanto sta accadendo.
Quello di cui soffriamo non sono acciacchi della vecchiaia, ma disturbi di una crescita fatta
di mutamenti troppo rapidi, e dolori di riassestamento da un periodo economico a un
altro. L’efficienza tecnica è andata intensificandosi con ritmo più rapido di quello con cui
riusciamo a risolvere il problema dell’assorbimento della manodopera; il miglioramento
del livello di vita è stato un po’ troppo rapido; il sistema bancario e monetario del mondo
ha impedito che il tasso d’interesse cadesse con la velocità necessaria al riequilibrio.
Ciò nonostante lo spreco e la confusione che ne conseguono investono non più del 7,5 per
cento del reddito nazionale; buttiamo via uno scellino e 6 pence per ogni sterlina, e
rimaniamo con 18 scellini e 6 pence dove, se fossimo più intelligenti, potremmo avere una
sterlina intera; con tutto ciò i 18 scellini e 6 pence valgono quanto valeva una sterlina
cinque o sei anni fa. Noi dimentichiamo che nel 1929 il volume della produzione
dell’industria britannica era superiore a quello di qualsiasi momento precedente e che lo
scorso anno l’attivo netto della bilancia dei pagamenti, disponibile per nuovi investimenti
all’estero, dopo aver pagato tutte le importazioni, era superiore a quello di tutti gli altri
paesi, superando perfino del 50 per cento l’attivo corrispettivo degli Stati Uniti.
Ovvero, se si vuole farne una questione di raffronti, supponiamo di dover ridurre a metà i
nostri salari, denunciare quattro quinti del debito nazionale, e accumulare l’eccedenza in
oro puro anziché darla a prestito al 6 o più per cento: ci troveremmo in posizione simile
alla tanto invidiata Francia. Ma migliorerebbe qualche cosa?
La depressione che domina nel mondo, l’atroce anomalia della disoccupazione in un
mondo pieno di bisogni, i disastrosi errori che abbiamo commesso ci rendono ciechi di
fronte a quanto sta accadendo sotto il pelo dell’acqua, cioè di fronte al significato delle
tendenze autentiche del processo. Voglio affermare, infatti, che entrambi i contrapposti
errori di pessimismo, che sollevano oggi tanto rumore nel mondo, si dimostreranno errati
nel corso della nostra stessa generazione: il pessimismo dei rivoluzionari, i quali pensano
che le cose vadano tanto male che nulla possa salvarci se non il rovesciamento violento; e
il pessimismo dei reazionari i quali ritengono che l’equilibrio della nostra vita economica e
sociale sia troppo precario per permetterci di rischiare nuovi esperimenti.
In questo saggio, tuttavia, mio scopo non è di esaminare il presente o il futuro immediato,
ma di sbarazzarmi delle prospettive a breve termine e di librarmi nel futuro.
Quale livello di vita economica possiamo ragionevolmente attenderci fra un centinaio
d’anni?
Quali sono le prospettive economiche per i nostri nipoti?
Dai tempi più remoti di cui abbiamo conoscenza (diciamo duemila anni prima di Cristo)
fino all’inizio del secolo XVIII, il livello di vita dell’uomo medio, che vivesse nei centri
civili del mondo, non ha subito grandi mutamenti. Alti e bassi sicuramente. Comparse di
epidemie, carestie e guerre. Intervalli aurei. Ma nessun balzo in avanti, nessun
cambiamento violento. Nei quattromila anni, conclusisi all’incirca nell’anno di grazia 1700,
alcuni periodi hanno fatto registrare un miglioramento del 50 per cento (nel migliore del
casi del 100 per cento) rispetto ad altri.
Questo lento tasso di progresso, ovvero questa mancanza di progresso, era dovuto a due
motivi: l’assenza vistosa di miglioramenti tecnici di rilievo, e la mancata accumulazione di
capitale.
L’assenza di grandi invenzioni tecniche fra l’era preistorica e i tempi relativamente
moderni è davvero degna di nota. Quasi tutto ciò che, di sostanziale importanza, il mondo
possedeva all’inizio dell’età moderna, era già noto all’uomo agli albori della storia. Il
linguaggio, il fuoco, gli stessi animali domestici che abbiamo oggi, il grano, l’orzo, la vite e
l’olivo, l’aratro. la ruota, il remo, la vela, le pelli, la tela e il panno, i mattoni e le terrecotte,
l’oro e l’argento, il rame, lo stagno e il piombo (e il ferro vi si aggiunse prima del 1000 a
C.), il sistema bancario, l’arte del governo, la matematica, l’astronomia e la religione: non
sappiamo quando l’uomo abbia avuto per la prima volta in mano queste cose.
In una certa epoca, anteriore all’inizio della storia, forse durante uno di quei favorevoli
intervalli che hanno preceduto l’ultima epoca glaciale, deve essere esistita un’era di
progresso e di invenzioni paragonabile a quella in cui viviamo oggi. Ma per la maggior
parte della storia vera e propria non si è avuto nulla del genere. L’età moderna si è aperta,
ritengo, con l’accumulazione di capitale iniziata nel secolo XVI. Io credo che ciò, per
ragioni con cui non devo gravare questa trattazione, sia stato dovuto inizialmente
all’aumento del prezzi (e ai profitti conseguenti) determinato dal tesori d’oro e d’argento
che la Spagna portò dal Nuovo Mondo in quello Vecchio. Da allora a oggi il processo di
accumulazione secondo l’interesse composto, che sembrava in letargo da tante
generazioni, ebbe nuova vita e assunse nuove forze. E la portata di un interesse composto
per un periodo di più di due secoli è tale da far vacillare la fantasia.
Permettetemi di citare un esempio, da me elaborato, a illustrazione dell’entità di questa
capitalizzazione. Il valore degli investimenti all’estero della Gran Bretagna è stimato, oggi,
circa 4 miliardi di sterline, e fornisce un reddito annuo al tasso di circa 116,5 per cento.
Questo reddito per metà lo facciamo rimpatriare e lo godiamo; l’altra metà, vale a dire il
3,25 per cento, lasciamo che si accumuli all’estero con l’interesse composto. Qualche cosa
del genere è accaduto ininterrottamente per circa 250 anni.
Io, infatti, riconduco l’inizio degli investimenti inglesi all’estero al tesoro che Drake
sottrasse alla Spagna nel 1580, anno appunto in cui rientrò in Inghilterra portando con sé
le spoglie meravigliose del Golden Hind. La regina Elisabetta era una forte azionista del
gruppo che aveva finanziato la spedizione. Con la sua quota del tesoro la regina pagò
tutto il debito estero del paese, riportò in pari il bilancio e si ritrovò in mano ancora 40mila
sterline. Questa fu appunto la somma che investì nella Levant Company, la quale
prosperò. Con i profitti della Levant Company fu fondata la East India Company, e i
profitti di questa grande impresa costituiscono la base dei successivi investimenti
all’estero della Gran Bretagna. Ora, si dà il caso che la capitalizzazione di 40mila sterline al
tasso di interesse composto del 3,25 per cento corrisponda approssimativamente al volume
reale degli investimenti all’estero della Gran Bretagna in date diverse, e ammonterebbe
effettivamente alla somma complessiva di 4 miliardi di sterline che ho già citata come
volume attuale dei nostri investimenti all’estero. Pertanto, ciascuna delle sterline che
Drake portò in patria nel 1580 si è trasformata in 100mila sterline. Tanta è la potenza
dell’interesse composto!
Dal secolo XVI è incominciata, proseguendo con crescendo ininterrotto nel XVIII secolo, la
grande era delle invenzioni scientifiche e tecniche che, dall’inizio del secolo XIX, ha avuto
sviluppi incredibili: carbone, vapore, elettricità, petrolio, acciaio, gomma, cotone, industrie
chimiche, macchine automatiche e sistemi di produzione di massa, telegrafo, stampa,
Newton, Darwin, Einstein e migliaia di altre cose e uomini troppo famosi e troppo noti per
essere ricordati.
Quale il risultato? Nonostante l’enorme sviluppo della popolazione del mondo, che è stato
necessario dotare di case e di macchine, il tenore medio di vita in Europa e negli Stati Uniti
è aumentato, devo ritenere di quattro volte. Lo sviluppo del capitale è avvenuto su una
scala di gran lunga superiore a cento volte quella conosciuta da qualsiasi altra epoca. E
d’ora in avanti non dobbiamo attenderci un incremento demografico tanto forte.
Se il capitale aumenta, diciamo, del 2 per cento l’anno, in vent’anni l’attrezzatura
produttiva del mondo sarà aumentata del 50 per cento e in cent’anni di sette volte e
mezzo. Pensate a questo in termini di beni capitali: case, trasporti e simili.
Al tempo stesso i miglioramenti tecnici nei settori manifatturiero e dei trasporti sono
proceduti negli ultimi dieci anni con tassi molto superiori a quelli registrati
precedentemente dalla Storia.
Negli Stati Uniti la produzione pro capite dell’industria, nel 1925, superava del 40 per
cento quella del 1919. In Europa ostacoli contingenti ci hanno intralciato il cammino; pur
tuttavia è lecito dire che il rendimento tecnico sta aumentando con ritmo superiore al tasso
composto dell’1 per cento l’anno.
Vi sono buoni elementi per ritenere che le rivoluzionarie trasformazioni tecniche, che
finora hanno interessato soprattutto l’industria, si applicheranno presto all’agricoltura.
Può ben darsi che ci troviamo alla vigilia di un’evoluzione del rendimento della
produzione agricola di portata analoga a quella verificatasi nell’estrazione mineraria,
nell’industria manifatturiera, nel trasporti. Nel giro di pochissimi anni, intendo dire
nell’arco della nostra vita, potremmo essere in grado di compiere tutte le operazioni dei
settori agricolo, minerario, manifatturiero con un quarto dell’energia umana che eravamo
abituati a impegnarvi.
Per il momento, la rapidità stessa di questa evoluzione ci mette a disagio e ci propone
problemi di difficile soluzione. I paesi che non sono all’avanguardia del progresso ne
risentono in misura relativa. Noi, invece, siamo colpiti da una nuova malattia di cui alcuni
lettori possono non conoscere ancora il nome, ma di cui sentiranno molto parlare nei
prossimi anni: vale a dire la disoccupazione tecnologica. Il che significa che la
disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede
con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa
manodopera.
Ma questa è solo una fase di squilibrio transitoria. Visto in prospettiva, infatti, ciò significa
che l’umanità sta procedendo alla soluzione del suo problema economico. Mi sentirei di
affermare che di qui a cent’anni il livello di vita dei paesi in progresso sarà da quattro a
otto volte superiore a quello odierno. Né vi sarebbe nulla di sorprendente, alla luce delle
nostre conoscenze attuali. Non sarebbe fuori luogo prendere in considerazione la
possibilità di progressi anche superiori.
II
Ammettiamo, a titolo di ipotesi, che di qui a cent’anni la situazione economica di tutti noi
sia in media di otto volte superiore a quella odierna. Cosa di cui, in verità, non dovremmo
affatto stupirci.
È ben vero che i bisogni degli esseri umani possono apparire inesauribili. Essi, tuttavia,
rientrano in due categorie: i bisogni assoluti, nel senso che li sentiamo quali che siano le
condizioni degli esseri umani nostri simili, e quelli relativi, nel senso che esistono solo in
quanto la soddisfazione di essi ci eleva, ci fa sentire superiori ai nostri simili. I bisogni
della seconda categoria, quelli che soddisfano il desiderio di superiorità, possono davvero
essere inesauribili poiché quanto più alto è il livello generale, tanto maggiori diventano. Il
che non è altrettanto vero dei bisogni assoluti: qui potremmo raggiungere presto, forse
molto più presto di quanto crediamo, il momento in cui questi bisogni risultano soddisfatti
nel senso che preferiamo dedicare le restanti energie a scopi non economici.
Veniamo ora alla mia conclusione che credo riterrete sconcertante, anzi quanto più ci
ripenserete, tanto più la troverete sconcertante.
Giungo alla conclusione che, scartando l’eventualità di guerra e di incrementi demografici
eccezionali, il problema economico può essere risolto, o per lo meno giungere in vista di
soluzione, nel giro di un secolo. Ciò significa che il problema economico non è se
guardiamo al futuro, il problema permanente della razza umana.
Perché mai, potrete chiedere, è cosa tanto sconcertante? È sconcertante perché, se invece di
guardare al futuro ci rivolgiamo al passato, vediamo che il problema economico, la lotta
per la sussistenza, è sempre stato, fino a questo momento il problema principale, il più
pressante per la razza umana: anzi, non solo per la razza umana, ma per tutto il regno
biologico dalle origini della vita nelle sue forme primitive. Pertanto la nostra evoluzione
naturale, con tutti i nostri impulsi e i nostri istinti più profondi, è avvenuta al fine di
risolvere il problema economico. Ove questo fosse risolto, l’umanità rimarrebbe priva del
suo scopo tradizionale.
Sarà un bene? Se crediamo almeno un poco nei valori della vita, si apre per lo meno una
possibilità che diventi un bene. Eppure io penso con terrore al ridimensionamento di
abitudini e istinti nell’uomo comune, abitudini e istinti concresciuti in lui per
innumerevoli generazioni e che gli sarà chiesto di scartare nel giro di pochi decenni.
Per adoperare il linguaggio moderno, non dobbiamo forse attenderci un “collasso
nervoso” generale? Abbiamo già avuto una piccola esperienza di quello che intendo, cioè
un collasso nervoso simile al fenomeno già piuttosto comune in Gran Bretagna e negli Stati
Uniti fra le donne sposate delle classi agiate, sventurate donne in gran parte, che la
ricchezza ha privato dei compiti e delle occupazioni tradizionali: donne che non riescono a
trovare sufficiente interesse nel cucinare, pulire, rammendare quando vi manchi la spinta
della necessità economica: e che tuttavia sono assolutamente incapaci di inventare qualche
cosa di più divertente.
Per chi suda il pane quotidiano il tempo libero è un piacere agognato: fino momento in cui
l'ottiene.
Ricordiamo l’epitaffio che scrisse per la sua tomba quella vecchia donna di servizio:
Non portate il lutto, amici, non piangere per me che farò finalmente niente, niente per l’eternità.
Questo era il suo paradiso. Come altri che aspirano al tempo libero, la donna di servizio
immaginava solo quanto sarebbe stato bello passare il tempo a far da spettatore.
C’erano, infatti, altri due versi nell’epitaffio:
Il paradiso risuonerà di salmi e di dolci musiche ma io non farò la fatica di cantare.
Eppure la vita sarà tollerabile solo per quelli che partecipano al canto: e quanto pochi di
noi sanno cantare!
Pertanto, per la prima volta dalla sua creazione, l’uomo si troverà di fronte al suo vero,
costante problema: come impiegare la sua libertà dalle cure economiche più pressanti,
come impiegare il tempo libero che la scienza e l’interesse composto gli avranno
guadagnato, per vivere bene, piacevolmente e con saggezza.
Gli indefessi, decisi creatori di ricchezza potranno portarvi tutti, al loro seguito, in seno
all’abbondanza economica. Ma saranno solo coloro che sanno tenere viva, e portare a
perfezione l’arte stessa della vita, e che non si vendono in cambio dei mezzi di vita, a poter
godere dell’abbondanza, quando verrà.
Eppure non esiste paese o popolo, a mio avviso che possa guardare senza terrore all’era
del tempo libero e dell’abbondanza. Per troppo tempo, infatti, siamo stati allenati a faticare
anziché godere. Per l’uomo comune, privo di particolari talenti, il problema di darsi
un’occupazione è pauroso, specie se non ha più radici nella terra e nel costume o nelle
convenzioni predilette di una società tradizionale.
A giudicare dalla condotta e dal risultati delle classi ricche di oggi, in qualsiasi regione del
mondo, la prospettiva è davvero deprimente. Queste classi, infatti, sono per così dire la
nostra avanguardia, coloro che esplorano per noi la terra promessa e che vi piantano le
tende. E per la maggior parte costoro, che hanno un reddito indipendente ma nessun
obbligo o legame o associazione, hanno subito una sconfitta disastrosa, così mi sembra, nel
tentativo di risolvere il problema che era in gioco.
Sono certo che, con un po’ più di esperienza, noi ci serviremo del nuovo generoso dono
della natura in modo completamente diverso da quello dei ricchi di oggi e tracceremo per
noi un piano di vita completamente diverso che non ha nulla a che fare con il loro.
Per ancora molte generazioni l’istinto del vecchio Adamo rimarrà così forte in noi che
avremo bisogno di un qualche lavoro per essere soddisfatti. Faremo, per servire noi stessi,
più cose di quante ne facciano di solito i ricchi d’oggi, e saremo fin troppo felici di avere
limitati doveri, compiti, routines. Ma oltre a ciò dovremo adoperarci a far parti accurate di
questo “pane” affinché il poco lavoro che ancora rimane sia distribuito fra quanta più
gente possibile.
Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema
per un buon periodo di tempo. Tre ore di lavoro al giorno, infatti, sono più che
sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in ciascuno di noi.
Dovremo attenderci cambiamenti anche in altri campi. Quando l’accumulazione di
ricchezza non rivestirà più un significato sociale importante, interverranno profondi
mutamenti nel codice morale. Dovremo saperci liberare di molti dei principi pseudomorali
che ci hanno superstiziosamente angosciati per due secoli, e per i quali abbiamo esaltato
come massime virtù le qualità umane più spiacevoli. Dovremo avere il coraggio di
assegnare alla motivazione “denaro” il suo vero valore. L'amore per il denaro come
possesso, e distinto dall’amore per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita
sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle
propensioni a metà criminali e a metà patologiche che di solito si consegnano con un
brivido allo specialista di malattie mentali.
Saremo, infine, liberi di lasciar cadere tutte quelle abitudini sociali e quelle pratiche
economiche relative alla distribuzione della ricchezza e alle ricompense e penalità
economiche, che adesso conserviamo a tutti i costi, per quanto di per se sgradevoli e
ingiuste, per la loro incredibile utilità a sollecitare l’accumulazione del capitale.
Naturalmente continueranno ad esistere molte persone dotate di attivismo e di senso
dell’impegno intensi e insoddisfatti, che perseguiranno ciecamente la ricchezza a meno
che non riescano a trovarvi un sostituto plausibile. Ma non saremo più tenuti all’obbligo di
lodarle e di incoraggiarle perché sapremo penetrare, più a fondo di quanto sia lecito oggi,
il significato vero di questo “impegno” di cui la natura ha dotato in varia misura quasi
tutti noi. “Impegno” infatti, significa preoccuparsi dei risultati futuri delle proprie azioni
più che della loro qualità o del loro effetto immediato nel nostro ambiente. L’uomo
“impegnato” tenta sempre di assicurare alle sue azioni un’immortalità spuria e illusoria,
proiettando nel futuro l’interesse che vi ripone. Non ama il suo gatto, ma ne ama i gattini,
o per la verità neppure i gattini, ma i figli di quei gattini e tutta la loro generazione fino a
che esisterà la stirpe dei gatti. Per costui la marmellata non è marmellata a meno che non si
tratti della marmellata di domani, mai della marmellata di oggi. E così proiettando nel
futuro la sua marmellata tenta di assicurate l’immortalità al lavoro con cui la prepara.
Permettetemi di ricordare qui il professore di Sylvie and Bruno:
“È solo il sarto, sir, con il suo conticino” disse una voce querula fuori dell’uscio.
“Oh, bene” disse il professore ai bambini. “Risolverò subito questa sua faccenda, se vorrete
aspettare un momento. Quant’è quest’anno buonuomo?” Mentre parlava il sarto era entrato.
“Vedete, è stato raddoppiato per tanti anni” replicò il sarto un po’ brusco “che adesso penso proprio
di volere i quattrini. Sono duemila sterline, sono!”
“Roba da nulla”, osservò noncurante il professore frugandosi nelle tasche come se si portasse
sempre dietro quella cifra come minimo. “Ma non preferireste aspettare ancora un anno e farle
diventare quattromila sterline? Pensate solo a quanto diventereste ricco! Pensate, potreste
diventare un re, se lo voleste!”
“Non so se mi interessi diventare un re” commentò pensieroso l’uomo. “Ma sembra davvero un
mucchio di quattrini... Beh, credo che aspetterò....”
“Certo che aspetterete” incalzò il professore. “Vedo che avete cervello. Buongiorno, buonuomo!”
Non appena la porta si richiuse alle spalle del creditore Sylvie chiese: “Gliele pagherete mai quelle
quattromila sterline?”
“Mai ragazza mia” replicò enfatico il professore. “Preferirà raddoppiare fino al giorno della morte.
Vedete, vale sempre la pena di aspettare ancora un anno per avere il doppio!”
Forse non è un caso che la razza che più ha fatto per radicare la promessa di immortalità
nel cuore e nella natura delle nostre religioni, è anche quella che più di ogni altra ha fatto
per il principio dell’interesse composto e che predilige in particolare questa che è la più
impegnata delle istituzioni umane.
Vedo quindi gli uomini liberi tornare ad alcuni del principi più solidi e autentici della
religione e della virtù tradizionali: che l’avarizia è un vizio, l’esazione dell’usura una
colpa, l’amore per il denaro spregevole, e che chi meno s’affanna per il domani cammina
veramente sul sentiero della virtù e della profonda saggezza. Rivaluteremo di nuovo i fini
sui mezzi e preferiremo il bene all’utile. Renderemo onore a chi saprà insegnarci a cogliere
l’ora e il giorno con virtù, alla gente meravigliosa capace di trarre un piacere diretto dalle
cose, i gigli del campo che non seminano e non filano.
Ma attenzione! Il momento non è ancora giunto. Per almeno altri cent’anni dovremo
fingere con noi stessi e con tutti gli altri che il giusto è sbagliato e che lo sbagliato è giusto,
perché quel che è sbagliato è utile e quel che è giusto no. Avarizia, usura, prudenza
devono essere il nostro dio ancora per un poco, perché solo questi principi possono trarci
dal cunicolo del bisogno economico alla luce del giorno.
Attendo, quindi, in giorni non troppo lontani, la più grande trasformazione che mai sì sia
verificata nell’ambiente fisico in cui si muove la vita degli esseri umani come aggregato.
Ma, naturalmente, tutto avverrà per gradi, non come una catastrofe. Tutto, anzi, è già
incominciato. Le cose andranno semplicemente così: sempre più vaste diventeranno le
categorie e i gruppi di persone che in pratica non conoscono i problemi della necessità
economica. Ci si renderà conto della differenza critica quando questa condizione si sarà a
tal punto generalizzata da mutare la natura del dovere dell’uomo verso il suo simile:
infatti l’impegno del fare verso gli altri continuerà ad avere una ragione anche quando
avrà cessato di averla il fare a nostro vantaggio.
Il ritmo con cui possiamo raggiungere la nostra destinazione di beatitudine economica,
dipenderà da quattro fattori: la nostra capacità di controllo demografico, la nostra
determinazione nell’evitare guerre e conflitti civili, la nostra volontà di affidare alla
scienza la direzione delle questioni che sono di sua stretta pertinenza, e il tasso di
accumulazione in quanto determinato dal margine fra produzione e consumo. Una volta
conseguiti i primi tre punti il quarto verrà da sé.
In questo frattempo non sarà male por mano a qualche modesto preparativo per quello
che è il nostro destino, incoraggiando e sperimentando le arti della vita non meno delle
attività che definiamo oggi “impegnate”.
Ma, soprattutto, guardiamoci dal sopravvalutare l’importanza del problema economico o
di sacrificare alle sue attuali necessità altre questioni di maggiore e più duratura
importanza. Dovrebbe essere un problema da specialisti, come la cura dei denti. Se gli
economisti riuscissero a farsi considerare gente umile, di competenza specifica, sui pian
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