domenica 23 maggio 2021
Utopia di Thomas More
Thomas More
Utopia
www.liberliber.it
Questo e-book è stato realizzato anche grazie al sostegno
di:
E-text
Web design, Editoria, Multimedia
(pubblica il tuo libro, o crea il tuo sito con E-text!)
http://www.e-text.it/
QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Utopia
AUTORE: More, Thomas <1478 - 1535>
TRADUTTORE:
CURATORE:
NOTE:
CODICE ISBN E-BOOK: n. d.
DIRITTI D’AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/
COPERTINA: n. d.
TRATTO DA: Utopia di Tommaso Moro Cancelliere
d’Inghilterra - Milano : Per Vincenzo Ferrario,
1821. - [4], CIV, 150, [2] p. ; 18º.
CODICE ISBN FONTE: n. d.
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 12 dicembre 2018
INDICE DI AFFIDABILITÀ: 1
0: affidabilità bassa
2
1: affidabilità standard
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
SOGGETTO:
PHI019000 FILOSOFIA / Politica
DIGITALIZZAZIONE:
Umberto Corradini, ucorradini@libero.it
REVISIONE:
Gabriella Dodero
IMPAGINAZIONE:
Umberto Corradini, ucorradini@libero.it
PUBBLICAZIONE:
Catia Righi, catia_righi@tin.it
3
Liber Liber
Se questo libro ti è piaciuto, aiutaci a realizzarne altri.
Fai una donazione: http://www.liberliber.it/online/aiuta/.
Scopri sul sito Internet di Liber Liber ciò che stiamo
realizzando: migliaia di ebook gratuiti in edizione integrale,
audiolibri, brani musicali con licenza libera, video
e tanto altro: http://www.liberliber.it/.
4
Indice generale
Liber Liber.....................................................................................4
UTOPIA.........................................................................................7
NOTIZIA INTORNO A TOMMASO MORO..........................12
AL GENTILISSIMO M. GEROLAMO FAVA.......................76
TOMMASO MORO A PIETRO EGIDIO..............................78
TAVOLA DI ALCUNE COSE PRINCIPALI.........................83
DEL PARLAMENTO DI RAFAELLO ITLODEO DELLO STATO
DI UN’OTTIMA REPUBBLICA SCRITTO DA TOMMASO
MORO.........................................................................................85
LIBRO PRIMO............................................................................86
UTOPIA DI TOMMASO MORO LIBRO SECONDO.............118
DELLE CITTÀ E SPECIALMENTE DI AMAUROTO......122
DEI MAGISTRATI...............................................................125
DEGLI ARTEFICI................................................................127
DEL COMMERCIO TRA I CITTADINI.............................132
PELLEGRINAGGI DEGLI UTOPIENSI............................138
DEI SERVI............................................................................159
DELLA GUERRA................................................................168
DELLE RELIGIONI DEGLI UTOPIENSI..........................178
NOTE.........................................................................................194
5
UTOPIA
DI
TOMMASO MORO
CANCELLIERE D’INGHILTERRA
MILANO,
PER VINCENZO FERRARIO,
M DCCC XXI.
6
AL SIGNOR
VINCENZO FERRARIO
Voi l’anno passato ristampaste un’operetta di Erasmo,
la quale fu veramente necessaria ne’ suoi tempi, e
tuttavia si mantiene in credito per la fama dell’autore:
ma poveri noi se non fossimo andati tanto innanzi da
avere per inutile oggidì quell’elogio della follia. Non
prendereste a ristampare un’operetta egualmente antica,
molto più elegante, utilissima all’età nostra, e scritta
da un ingegno non minore di Erasmo, amicissimo a
lui per tutta la vita, e più di lui pratico nelle cose del
mondo, e faceto non meno di lui; un’operetta di un gran
Ministro di stato, e di un Martire? Io vi propongo e vi
consiglio di ristampare l’antica traduzione italiana
dell’Utopia di Tommaso Moro Gran Cancelliere
d’Inghilterra. A me pare che sia onor di Milano ch’ella
fosse qui stampata latina nel 1620 dal Bidelli, e dedicata
a don Giulio Arese Presidente del Senato. Mi pare
che sia onor d’Italia che noi la traducessimo prima che
i Francesi; i quali per verità più volte poi la tradussero.
Il volgarizzamento italiano che io conosco è stampato
in Venezia nel 1548: e mi apparisce, a molti modi del
favellare, opera di un veneziano; benchè pubblicato da
Antonfrancesco Doni fiorentino. E perciò converrebbe
7
che nel riprodurre quell’antica stampa, si avesse innanzi
l’originale, per renderla più esatta e conforme.
Certo i dotti italiani conoscono le gloriose fatiche e
la fine immatura e gloriosa di Tommaso Moro: ma perchè
un tant’uomo sia più noto anche agl’italiani meno
letterati; mi piacerebbe che innanzi a questo suo libretto
faceste andare una notizia cavata da quelle memorie
che nel 1808 si pubblicarono in Londra con altre opere
di lui: di che diede sette estratti la Biblioteca Britannica
di Ginevra del 1809*. Sono in quegli estratti molte cose,
che si possono benissimo tralasciare: ma tanto se ne
può prendere da formarne buon ritratto di quel grande
e celebre uomo. Nol chiamerò infelice; poichè egli pur
senza lamenti si lasciò togliere dal tiranno la vita: e la
coscienza delle insigni virtù, e la speranza de’ premii
eterni lo tennero contento e lieto vivendo; e la fama che
gli mantiene gloriosamente vivo dopo tre secoli il nome,
gli compensa quell’avanzo d’anni senili, che la tirannia
gli rapì.
Credo che pochi oggidì leggano l’Utopia; e vorrei
che la leggessero molti. Vorrei che si considerasse come
siano antichi certi concetti, che oggi alcuni esaltano, ed
altri disprezzano, come nuovi. Vorrei che fosse notato
con quanta amabile disinvoltura una mente profonda
sappia trattare le materie più gravi; e con poche parole,
* Il chiarissimo sig. Prof. G. Montani ha voluto gentilmente
assumersi il peso degl’indicati lavori, ch’egli seppe condurre a
termine con somma esattezza ed intelligenza.
L’Editore.
8
quasi da scherzo, persuadere molti documenti utilissimi.
Vorrei che si vergognassero, o almeno fossero svergognati
e si confondessero, quegli odiosi, che de’ mali
pubblici non pur vivono ma trionfano; e poi insultano
alle querele dell’universale e a’ sospiri dei buoni, deridendo
come pazzia di teste deboli, e malinconiche, e
inesperte del mondo, e incapaci della politica, il desiderare
che i popoli possano vivere con tali fatiche e sventure
che sieno inevitabili e tolerabili alla natura umana,
e non debbano invocare come unico rimedio il morire.
Un Tommaso Moro, già esercitato in molte ambascerie,
poi inalzato all’amministrazione di un gran regno, non
credette indecente a un Ministro il filosofare; non credette
ridicolo in un uomo di stato, il riprendere pubblicamente
come abusi alcune usanze, le quali con danno
di moltissimi profittano a pochi; il mostrare necessarie
e non difficili alcune riforme che sarebbero utili a tutti.
Quando il gran Cancelliere nel 1506 proponeva nella
sua graziosa Utopia il modello di un virtuoso e felice
stato, era si può dir barbara l’Inghilterra: e fra quella
tanta ferocia fa stupore la saviezza e la gentilezza del
Moro. Ora dopo trecento anni niuna parte di Europa è
tanto proceduta nel viver civile che non possa riconoscerne
quasi nuovi e tuttavia assai lontani gli elementi
in quel libretto. E pur troppo si rimarrà, (chi sa ancora
per quanti anni o secoli) nella estimazione di un romanzo.
Ma in tanta importunità di romanzi di vani amori, e
di strane o di sciocche avventure, che tuttodì si stampano
e si leggono, speriamo che tra gl’italiani non debba-
9
no mancar lettori ad un antico romanzo di pubblica felicità.
State sano; e stampate più che potete de’ buoni libri;
e il men che potete de’ cattivi.
Pietro Giordani.
10
NOTIZIA
INTORNO
A TOMMASO MORO
ESTRATTA
DALLE MEMORIE DELLA SUA VITA
SCRITTE
DA ARTURO CAYLEY
TOMMASO MORE, o, come più universalmente pronunziasi,
Moro, nacque in Londra d’onesti genitori
l’anno 1480, vigesimo del regno d’Eduardo IV. Della
sua prima educazione altro non si narra degno di ricordo,
se non ch’egli si allevò nella casa del cardinale Morton
che il proteggeva, e fu poscia da lui, a riconoscenza,
sì ben ritratto nel primo suo libro dell’Utopia. Uom di
persuasiva facondia, di tenacissima memoria, e di gran
scienza nelle leggi fu questo prelato, al dire del Moro; e
l’autorità somma, di cui godeva, più che all’alto suo
11
grado era da ascriversi alla sua saggezza e virtù, per cui
seppe guadagnarsi egualmente la confidenza del suo re,
e della sua nazione. Egli valse a restituire al settimo Enrico
quella corona, che Riccardo III avea usurpata, e riunire
in un sol capo i dritti delle case d’York e di Lancastro.
Enrico VIII il sollevò alle dignità d’arcivescovo di
Cantorberì e di cancelliere d’Inghilterra; e il papa vi aggiunse
l’onore della porpora romana.
Era costume di quel secolo il far vie più liete fra le
domestiche pareti le feste del sacro Natale con drammatiche
rappresentazioni. Ora il giovinetto Moro, non pago
di assistervi, usando quella libertà che gli era conceduta
larghissima nella casa del cardinale, mescolavasi talvolta
agli attori, e improvvisava la sua parte con tal ingegno
e vivacità, che il protettor suo ne traeva non picciolo
diletto. “No questo fanciullo che vedete alla mia mensa,
diceva egli sovente, no riuscir non dee uomo ordinario”.
Verso i diciassett’anni si partì il Moro dal cardinale
Morton per l’università di Oxford, ove diè saggi di grande
ardore e riuscimento negli studj. Ed ivi forse conobbe
Erasmo, e seco si strinse di quell’amicizia che poi durò
tutta la vita. Certo che all’esempio di un tal condiscepolo
di molte cose andò debitore; e specialmente d’essersi
applicato al greco idioma, allora in Inghilterra troppo
negletto. Il celebre cardinale Wolsey, già semplice pensionario
d’un collegio di quella università, non fu probabilmente
straniero ai due amici.
12
Pur fra gli studj osfordiani, essendo il Moro sul diciottesim’anno,
compose alcuni epigrammi che ci sono
trasmessi. E tradusse di greco in latino il Tirannicida di
Luciano, accompagnandolo di grave e succosa risposta.
Nel 1499 passato dall’università alle scuole di diritto
fè sentire come l’ingegno e il sapere in lui vie più progredivano.
Il cavalier suo padre forniva, per vero dire,
tanto sottilmente a suoi bisogni, che il vivere gli era difficile
più che lo studiare. Pur ebbe a lodar in seguito una
così severa economia, che il preservò dalle seduzioni
del vizio e dalla vile mollezza.
Ottenuto poi in breve un posto di lettor pubblico, pronunciò
seguitamente sovra la Città di Dio di S. Agostino
così compiuti discorsi, che assai ne fu applaudito. Nè
abbandonò fra si gravi occupazioni la giovine sua musa,
onde pianse in versi la morte della regina sposa di Enrico
VII, che avvenne il 1503.
Nel qual tempo, com’egli avea fatto per genio principalissima
sua cura lo studio della religione, pieno de’
sentimenti ch’essa ispira, pensò consecrarsi alla vita
monastica. Quattro anni passò quindi nel silenzio de’
Certosini, senza, per altro, pronunciame i voti. E qualche
propensione sentì pure all’ordin dei Francescani, da
cui dicesi non si ritrasse che pel rilassamento in loro osservato
dell’antica austerità e disciplina. Del resto Erasmo
ne accerta, che principale ostacolo ad abbracciare
alcuna forma di vivere ecclesiastico fu per l’amico suo
la legge del celibato.
13
Nel 1506, quest’Erasmo, ch’era allora in Inghilterra,
vi pubblicò egli pure il Tirannicida Lucianico, e insieme
una confutazione, come già fece l’amico, pigliando sì
giusta opportunità di favellar di lui, e mostrare quanto lo
ammirasse.
Grande stima avea concepita il Moro pel famoso Pico
della Mirandola, di cui verso quel tempo scrisse la vita,
e trasportò in inglese più opere. Postosi pien di fiducia
sotto lo spiritual regime di Colet, decano della chiesa di
S. Paolo, paragonava la scuola da lui fondata al cavallo
di Troja, poichè ne usciva moltitudine d’uomini a combattere
e dissipare l’ignoranza e la barbarie. Colet, per
sua parte, dicea che l’Inghilterra non possedeva che un
sol uomo di genio, e quell’uomo era Tommaso Moro.
Sembra che i consigli di un tal direttore abbian di molto
contribuito a determinare il Moro pel matrimonio; ma
l’occasione di contrarlo gliela porse l’amicizia. Avea già
egli varcato il settimo anno oltre il vigesimo, quando si
sposò ad un’assai tenera fanciulla, confidando, siccome
dice Erasmo, di compierne più facilmente l’educazione,
e ispirarle quelle inclinazioni, che alle proprie corrispondessero.
L’anno appresso a queste nozze, e fu il 1508, Erasmo
gli dedicò il suo Elogio della Pazzia, ripetendo a tale
occasione i sentimenti, ch’era usato esprimere ogni volta
che si trattava di lui.
Questi, alcun tempo dopo, sedendo in un parlamento
convocato da Enrico VII, incorse la disgrazia del monarca,
perocchè si oppose ad una domanda, ch’ei facea,
14
di sussidj; ed ove la morte non ne avesse impedito maggiori
effetti di sdegno, è probabile che il Moro, onde
sottrarvisi, avrebbe dovuto per qualche tempo andar
esule dalla patria.
Il non volontario ritiro dagli affari gli porse, intanto,
nuovo agio di soddisfare al suo gusto negli studj. Quindi
si occupò di storia, di matematica, d’astronomia, famigliarizzandosi
ad un tempo colla lingua de’ francesi, e
ricreandosi colla teoria e colla pratica della musica. Egli
stesso ne fa sapere quanto fosse in ciò ajutato da una felice
memoria, sebbene modestamente si lagni che
l’ingegno e il sapere non andassero del pari con tale facoltà.
Di quei giorni compose altresì varie inglesi poesie
sovra argomenti morali, e particolarmente sull’instabilità
della fortuna.
Salito Enrico VIII al trono, il Moro che allor toccava i
trent’anni, parve ripigliare il primiero suo spirito; e
quando il principe, conforme a’ desiderj del padre, e in
virtù delle dispense ottenute, sposò Caterina d’Aragona,
vedova del fratel suo; gli indirizzò un latino complimento
assai lusinghevole, ove lascia trapelar certo risentimento
contro il predecessore, e finisce col dare al nuovo
re il titolo d’amatissimo.
Investito, quindi a poco, dell’impiego che chiamano
di sotto-sceriffo, e nulla da esso impedito nella sua professione
di avvocato, si trovò coll’annua rendita di quattro
centinaja di sterlini, de’ quali godeva, giusta le sue
frasi, in tutta sicurezza di coscienza. Poichè a quel tem-
15
po non trattavasi causa alcun poco rilevante, per la quale
ei non fosse consultato, o non aringasse in persona.
Nè tante occupazioni il distraevano affatto da’ lavori
letterarj. E ben trovò tempo di comporre una calda difesa
del suo Erasmo, poichè un dottor di Lovanio si avvisò
di assalirlo pel suo Elogio della Pazzia.
Dopo sei anni di dolce union maritale, perdè la consorte,
di che fu sconsolatissimo. Indi ad altri due si accasò
ad una vedova, la qual non era nè ricca, nè bella, ma
parevagli molto opportuna a far le veci di buona madre
co’ suoi figliuolini, mentre vera madre si mostrerebbe
con quegli avuti dal primo marito. Di fatto ed ella visse
con lui in tenerissimo vincolo, e la doppia figliuolanza
non compose che una istessisima famiglia. È notabile
ch’egli insegnò alla nuova moglie la musica, perchè meglio
si compiacesse del ritiro e della vita domestica.
Era di quei giorni salito assai alto il favore, di cui godeva
in corte il cardinale Wolsey. Bramava egli (e il re
medesimo gliene avea mostrato vivo desiderio) di attirar
il Moro a’ servigi del ministero, ma non potè riuscirvi.
Mai, dice Erasmo, uomo alcuno si adopero con più industria
ad insinuarsi nella grazia de’ principi, quanto il
Moro a fuggirla. Finì però questi coll’accettare nel 1516
una mission diplomatica nelle Fiandre, ove si trattenne
assai più a lungo che non avea divisato.
Scriveva egli ad Erasmo, che mai non gli era piaciuto
l’ufficio di ambasciadore; ma che pure in mezzo a parecchi
incomodi questa belgica legazione gli fu causa
d’alcuni piaceri. La convivenza con Tonstall suo collega
16
e amabil uomo pareagli il primo: l’altro l’amicizia incontrata
con Busleiden, magnifico signore, ricco di bei
libri e di bei monumenti, e più ancora di cortesia e di
elette maniere. “Ma nulla, ei prosegue, mi è stato più
caro nel mio viaggio, come la conoscenza del tuo amico
Egidio di Anversa, così dotto, e così festevole, così modesto
e così aperto. Darei, invero, parte di quanto mai
possedessi, per godermi il rimanente con lui”.
A questo medesimo Egidio intitolò egli poscia la sua
Utopia, scritta di ritorno dall’ambasciata nelle Fiandre,
quasi ricreazione dalle ordinarie sue cure, a cui, dice ei
medesimo nella sua lettera d’introduzione, d’essersi restituito.
Se non che avvenne cosa, la quale da esse lo distrasse,
riproducendolo su teatro più ampio e più degno
di lui. Perchè essendo un vascello del papa con dovizioso
carico entrato a Southampton, fu confiscato dalle
genti del re e dichiarato di buona preda. Or il legato
chiese, che la causa si trattasse giusta le leggi del regno,
e a lui si assegnassero uomini scelti, per far valere i diritti
del suo signore. E poichè Enrico ottavo era sì perito
nella scienza del gius civile, aggiunse che il pregava che
il dibattimento fosse pubblico e in sua presenza. Il re annuì
e, avuto riguardo alla tanta riputazione in che era il
Moro appresso di tutti, lo diede al legato, a cui prima
espor dovesse latinamente gli argomenti con cui si proponeva
sostenerne le parti. Venuto poscia il giorno, in
cui la causa fu portata dinanzi al cancelliere e a’ giudici
della camera stellata, il Moro usò di tanta forza e persuasion
di discorso, che non solo ottenne la restituzione
17
del vascello, ma si guadagnò tale applauso, e ammirazione
dall’istesso monarca, che questi ad ogni patto il
volle alla sua corte.
Però dapprima il creò suo referendario, e nello spazio
di un mese cavaliere, suo consiglier privato, ed indi a
poco tesorier dello Scacchiere. “Son venuto mio malgrado
alla corte (scriveva quindi il Moro al vescovo Fisher)
come ognun sa, e il re istesso me lo dice talvolta scherzando.
Ed oggi pure ho l’aria sì imbarazzata, come chi
per la prima volta montasse in arcione. Ma il nostro
principe, di cui io sono ben lungi dall’assicurarmi il favore,
è verso tutti sì buono e sì affabile, che per quanto
un uomo diffidi del proprio merito, sempre gli pare doversi
affidar maggiormente alla bontà di lui”. Indi segue
a dire come le virtù del monarca, il suo sapere, la sua incredibile
opperosità così gliel rendono ammirabile, ch’ei
sente ogni giorno minore il peso de’ suoi nuovi doveri.
La qual alta opinione riguardo ad Enrico non era così
particolare al Moro, che molti anzi non l’avessero comune
con lui; ed Erasmo, in ispecie, fa di quel principe
e della sua corte pitture le più lusinghiere.
Mentre che il favore, di cui il Moro godeva, era ancor
fresco, Enrico domandavalo spesso, onde seco trattenersi
d’astronomia, di geometria, di quistioni teologiche, e
di più cose estranee agli affari, pei quali erano destinati
altri momenti. Talvolta anche salivano insieme all’alto
del palagio per osservarvi il corso degli astri: innocente
passatempo, che fa sì grande contrasto coll’indole in seguito
manifestata dal principe. Egli ha pel Moro, scrive-
18
va Erasmo, sì grande attaccamento, che non può separarsi
da lui. Se gli abbisogna consiglio in cose di grave
momento, nessuno più del Moro è atto a prestarglielo;
s’ei cerca sollievo nella conversazione, quella del Moro
più di qualunque altra gli sembra piena di brio e di giocondità.
Anche la regina, al dire di Roper, genero e biografo
del nostro cancelliere, di lui tanto si compiaceva,
che di consenso col re facealo spesso chiamar la sera,
onde ambidue con lui discorrere e ricrearsi. Il Moro
però, che, siccome scrive nella Utopia, ponea fra suoi
doveri e avea fra più cari diletti il discorrere e ’l ricrearsi
colla sua famiglia, usò di uno spediente per sottrarsi a
tanto favore: rese, a disegno, la sua conversazione meno
gustosa, e ottenne quindi più lunghi intervalli di libertà.
Era quello il tempo delle prime innovazioni di Lutero
sollevatosi contro le indulgenze, fatte spargere da Leon
X con tanta profusione. E poichè Erasmo già dava sospetto
alla gente di chiesa, a cagione dei suoi sarcasmi
contro i frati e le loro pratiche superstiziose, diceasi di
lui, ch’egli avea messo l’uovo, e Lutero fattolo nascere.
Il vero si è che le persecuzioni e le guerre prodotte dalle
nuove dispute religiose cagionavano gran pena all’amico
del Moro, il qual dolevasi sovente, che i suoi sforzi,
impotenti a riconciliare gli opposti partiti, null’altro produceano
che l’odio d’ambidue contro di lui. Il Moro affezionatissimo
alla chiesa di Roma parea prevedesse
l’esito de’ colpi che le si dirigeano. Intanto difendea validamente
l’amico incontro ai suoi detrattori, e n’era da
lui corrisposto. Perocchè avendo un certo de Brie scritto
19
un poema intitolato Antimorus, Erasmo indotto prima
l’offeso a non pubblicare l’apparecchiata risposta, diedela
egli medesimo più conveniente e più vittoriosa.
In quel torno, o poco oltre, si offerì al Moro occasione
di mostrare il suo zelo pei buoni studj. Era sorta querela
nel mezzo dell’università di Oxford, per cui dividevasi
questa in due fazioni, l’una di cultori del greco
idioma, l’altra di spregiatori, che appellavansi Trojani, e
prendevano i nomi di Priamo, di Ettore, di Paride, sostenendo
anche pubblicamente il loro scisma erudito. Onde
all’università per ciò vacillante scrisse il Moro una lettera
latina assai propria a raffermarla. Poichè primieramente
le oppose in essa l’università di Cambridge che,
sebbene riputata inferiore, dava troppo miglior esempio
di sè. Indi fece uso dell’autorità del cardinale Wolsey e
di quella del re medesimo, i quali ambidue bramavano
che lo studio del greco fosse incoraggiato. E finì dicendo
di sperare che il puerile esercito de’ Trojani si applicherebbe
un antico proverbio: che i Frigi sebben tardo,
pur rinsaviscono; sero sapiunt Phryges.
Nel 1523 il Moro, suo malgrado, ebbe ad accettare le
parti di oratore in un parlamento; così esigendo il monarca.
Umili ed ossequiose furono le parole del suo discorso
d’ingresso, ma pur tali che il monarca medesimo
si sentisse obbligato a qualche rispetto per l’assemblea,
da lui presieduta. Riguardo al cardinale Wolsey mostrò
egual riverenza che fermezza; la qual punto non piacque
al favorito. E già questi, al dire di Erasmo, temeva il
Moro piuttosto che non lo amasse. Quindi studiò allon-
20
tanarlo dalla corte, facendolo eleggere all’ambasceria di
Spagna; ma il re veggendolo ripugnante, nol costrinse
ad accettarla.
La riforma, intanto, progrediva; ed Enrico temendone
trovò leggi assai rigide, che le vietassero l’entrar nel suo
imperio; anzi pubblicò egli medesimo un’opera contra
Lutero, che gli valse il titolo di difensore della fede. In
altro tempo, non molto posteriore ma assai differente,
s’imputò al Moro questo scritto qual gravissima colpa;
ed ei si difese, dichiarando non avervi avuta altra parte,
che la semplice distribuzione delle materie. E invero
sembra ch’ei tendesse a moderare, anzi che ad inasprire
lo zelo del re.
Lutero fece violentissima risposta, qual potea aspettarsi
da tal uomo così provocato. Senza riguardo per la
real maestà trattò l’avversario da mentitore insieme e da
bestemmiatore. Contro le quali accuse comparve una replica,
sotto il nome di G. Ross, la quale fu sempre attribuita
al Moro e impressa fra le sue opere. L’autore,
chiunque ei si fosse, imitando l’esempio di Lutero, mescolava
a ragionamenti le ingiurie; arme sicura per ottenere
il dispregio di chi l’adopera. Ciò, che il Moro fece
in questa causa palesemente, fu di eccitare l’amico Erasmo
a pubblicare uno scritto contro Lutero; e chiese ad
un tempo licenza di leggere i libri degli eretici, affine di
confutarli.
Indi a poco Erasmo diè in luce il suo Ciceroniano,
composizione ingegnosa, ove egli volgea in ridicolo
l’affettazione di quegli italiani, specialmente, che niun
21
vocabolo degnavan soffrire, il quale non appartenesse a
Cicerone. Con questa opportunità ei ricolmò di somme
lodi l’amico Moro, dipingendolo qual lume e sostegno
delle lettere in Inghilterra. A queste, soggiunse, ei tenne
sempre rivolto l’animo, malgrado l’aridità degli studj di
sua vocazione, e il continuo applicarsi a pubblici negozj.
La sua eloquenza si avvicina piuttosto a quella d’Isocrate,
che di Cicerone, a cui tuttavia non cede nell’urbanità.
E poichè giovinetto fu assiduamente co’ poeti; un non so
che di poetico ha pur ritenuto la sua prosa.
Già da parecchi anni viveva il Moro nella grazia del
re, quando fu da lui chiamato al posto di cancelliere nella
ducea di Lancastro. E tanto Enrico lo amava, che
andò talvolta famigliarmente a visitarlo nella sua casa di
Chelsea; anzi un dì gli giunse improvviso a chiedergli
da pranzo, dopo del quale fu veduto passeggiar seco in
giardino un’ora intera col braccio appoggiato al suo
omero. Per lo che il genero del Moro seco rallegrandosi,
al partire del re, per una prova di affetto così singolare:
“Io ne son commosso, ei rispose, ma non credo, mio
Roper, doverne trar vanità; poichè se la mia testa potesse
valergli una piazza in Francia, siate ben sicuro che la
darebbe”. Così fra tanti segni di benevolenza egli avea
ben saputo distinguere il carattere del suo protettore.
Moro fu distratto dalle funzioni del nuovo impiego
con due ambascerie, l’una in Fiandra e l’altra in Francia.
Nel 1529 egli accompagnò Tonstall a Cambray, ove assistè
alla conchiusion del trattato che porta il nome di
quella città. E i servigi, che allor rese, furono di tal rilie-
22
vo, che gli meritarono elogi e grado assai più eminente
di quello che occupava. Prima però che noi ne parliamo,
fermiamoci ad alcune cose più umili, ma più atte a dar
piena conoscenza dell’uomo che si descrive.
Al suo ritorno di Cambray ei si rese immediatamente
a Woodstock, dove allora dimorava la corte. Ivi udì
come la sua casa di Chelsea, e gli edificj all’intorno pieni
di raccolte biade furon preda al fuoco, il quale propagatosi
alle abitazioni de’ contigui recò ad essi non piccioli
danni. Quindi scrivendo all’istante in termini di religiosa
rassegnazione alla moglie sua, e confortandola a
tranquillarsi colla famiglia, e piuttosto ringraziar Dio
per ciò che loro avea lasciato, di quello che rammaricarsi
del perduto, la prega a voler prendere esatti ragguagli
delle perdite de’ suoi poveri vicini, e rassicurarli; poichè,
dovess’egli spogliarsi di tutto, mai non soffrirebbe
che una sciagura a lui sopraggiunta fosse causa
dell’altrui. Indi parlandole del ridursi a più stretta condizione,
e governar da sè medesimo i proprj poderi, le raccomanda
che nè i fittajuoli, nè i servi siano rimandati
senza certo provedimento.
Ora ci par tempo di toccare alcuna cosa di un celebre
personaggio, elevato da Enrico VIII alle più gran dignità,
e la caduta del quale ebbe pel Moro non lievi conseguenze.
Wolsey, di cui è chiaro che qui vogliam dire, fu figliuolo
d’un beccajo d’Ipswich, ma allevato in maniera
non poco superiore alla nativa condizione. Entrò molto
giovane, qual educatore, in cospicua famiglia, racco-
23
mandandolo a quest’uopo i suoi rari talenti; ed indi ebbe
il grado di capellano presso il settimo Enrico. Il qual
principe lo adoperò poi in trattative segrete, allorchè disegnava
sposarsi a Margherita di Savoja; e rimase così
pago della sua destrezza e del suo zelo, che l’ebbe quindi
in singolar estimazione e favore. Se non che la sua
morte parve rompere al Wolsey ogni speranza di avanzamento.
Ma introdotto, in seguito, alla corte del successore,
divenne il compagno de’ suoi piaceri, e il depositario
della sua confidenza. Che s’egli non mise più limiti
alle sue pretese; nè il re pure sembrava porne alle
sue ricompense, a cui si aggiunse la porpora cardinalizia
donata dal papa. Onde il Wolsey camminava poscia seguito
d’un corteggio di ottocento famigliari, fra cui parecchi
gentiluomini e cavalieri. Investito della dignità di
cancelliere del regno, e rimossi quanti poteano adombrarlo,
fu eziandio, ad istanza del re, creato da Leon X
suo legato con incredibili poteri, quello tra gli altri di
sospendere per un anno le leggi della chiesa. Allora vie
più spiegando la sua alterezza, stabilì una corte di legazione,
o tribunale mezzo civile e mezzo ecclesiastico, le
cui attribuzioni da niun certo limite erano definite. Però
si arrogava una censura inquisitoria sui laici egualmente
che sui membri del clero, i quali erano costretti allo
sborso di smoderate somme, onde mettersene al coperto.
Le curie dei vescovi vi erano assoggettate; i testamenti,
le disposizioni dell’ultima volontà cancellate; e i beneficj
conferiti senza riguardo a nomine precedenti e a legitime
elezioni.
24
Alla morte di Massimiliano, i re di Francia e di Spagna
disputavansi la corona imperiale, ed Enrico VIII pareva
dal suo grado e dalla natura delle circostanze fatto
arbitro in sì gran contesa. Quindi Francesco I sollecitava
da lui un abboccamento a Calais; ma Carlo V il prevenne,
recandosi a Douvres. Ivi s’impadronì dell’animo del
cardinal ministro, legandolo colla speranza di farlo eleggere
papa. Morì Leone a cui succedette Adriano VI; e
rinnovando Carlo le sue promesse, Wolsey fè tacere i
proprj sospetti, o dissimulò il proprio risentimento. Ma
quando poi, morto anche Adriano, fu creato Clemente
VII, più non gli rimase dubbio, che l’imperadore si
prendesse giuoco della sua credulità, onde cominciò a
distaccarsi apertamente da lui.
Più volte il Moro si oppose a Wolsey nel consiglio e
nel parlamento. Ed ora pure gli fu avverso, quando trattavasi
di indurre l’Inghilterra a prender parte nella querela
dell’imperadore. Al che fa espressa allusione in una
lettera, narrando che alla opinione manifestata da alcuni
di rimanersi tranquilli “Milord cardinale rispose con un
apologo. La pioggia, diss’egli, rendeva pazzi quelli su
cui cadeva. Alcuni uomini prudenti si ripararono entro
caverne, onde evitarla. Ma quando poi ne uscirono, e
vollero operare e parlare da saggi, quanti eran matti si
scagliarono contro di loro, e li gettarono a terra. Questa
favola costa al re ed allo stato gran somme, che avrebbesi
potuto risparmiare”.
A Wolsey parimenti ebbe Moro il pensiero, quando
nel suo trattato della Consolazione nell’avversità ei rap-
25
presenta un prelato d’Alemagna, che dopo aver profferito
un discorso chiedeva a’ circostanti il loro parere, e distribuiva
ricompense a chi gliel lodava con più trasporto.
Quel ministro favorito mostrò un dì al Moro un suo
abbozzo di trattato fra l’Inghilterra e la Francia, pregandolo
istantemente a dirgli ciò che ne pensava. Il Moro,
volendo lealmente corrispondere a tal confidenza, propose
alcune savie osservazioni. Per lo che Wolsey levossi
furioso, gridando: “Sir Tommaso, pel corpo di Cristo,
voi siete il più gran pazzo del consiglio”. E il Moro sorridente:
“Rendo ben grazie a Dio, che nel consiglio del
re mio signore non si trovi che un pazzo solo”.
Credesi che un profondo risentimento contro l’imperadore
inducesse Wolsey a nodrire nel cuor del re il desiderio
di sciogliere il suo matrimonio con Caterina di
Aragona, zia dell’imperador medesimo. Già prima della
missione del Moro a Cambray manifestò Enrico alcuni
scrupoli su questo matrimonio (poichè l’infanta era vedova
del fratello di lui Arturo); anzi su ciò stesso volle
consultare la saggezza del Moro. Ma già sappiamo ciò
che pensar si debba del vero motivo di tali scrupoli in
un re abbandonato alle proprie passioni, ed abile a trovar
loro i più fini pretesti. I vezzi di Anna Bolena il seducevano,
o a meglio dire il trascinavano irresistibilmente.
È però strano a concepirsi, come, volendo rompere
un nodo, che gli ispirava disgusto, ei pretendesse
conciliare anche solo in apparenza la dispensa già otte-
26
nuta da un papa e la dichiarazione di nullità chiesta dal
successore.
Moro, dopo avere esaminati i passi che il re gli citava
in appoggio della propria opinione, cercò esimersi dal
profferire giudizio in materia, che tutta era de’ teologi.
Ma Enrico lo pressò talmente, che fu costretto promettere
che peserebbe le sue ragioni, domandando, per allora,
tempo a riflettervi. Quindi il re nominò alcuni vescovi e
varj membri del suo consiglio, coi quali dovesse conferire.
Narrasi che il Moro, intanto, ritirato a Chelsea, e assiso
un giorno sulla riva del fiume in compagnia del suo
genero, sclamò: “Piacesse a Dio, Roper carissimo, che
di tre cose io fossi assicurato! a questo patto soffrirei di
essere chiuso in un sacco e gettato nel Tamigi”. Le quali
cose avendo il Roper ansiosamente domandato di conoscere,
quegli rispose: “Che i principi cristiani, i quali ora
si fanno guerre funeste, si unissero in stabil pace; che
nella chiesa di Cristo, oggi turbata da errori e da eresie,
regnasse perfetta e uniforme credenza; da ultimo che la
quistione procellosa del matrimonio del re si terminasse
a gloria di Dio, e tranquillità immanchevole delle parti
or contrastanti”.
Quand’egli ricomparve alla corte favellò al monarca
di questa forma: “Poichè è pur volere della maestà vostra
ch’io parli con intera schiettezza, dirò francamente
che nè monsignor vescovo di Durham, nè monsignor
vescovo di Bath, prelati ch’io riconosco per dotti egualmente
che virtuosi, nè io, nè altri de’ vostri consiglieri a
voi più devoti, non possiam qui servirvi di guida e di au-
27
torità. Che se la maestà vostra brama intendere il vero,
deve consultar uomini, che nè i suoi benefici possan
corrompere, nè il suo potere intimorire”. Quindi nominò
chi egli intendeva, ed erano i padri della chiesa Girolamo,
Agostino ed altri, di cui citò i passi a disegno studiati,
come i più proprj a trarre il re dalla sua perplessità.
E per quanto disaggradevole riuscisse a questo il ricevere
risposta contraria alle sue speranze, non parve
che ne mostrasse allora alcun risentimento.
Al suo ritorno dì Cambray il Moro fu consultato di
nuovo. Enrico gli fece intendere, che nella sua assenza
altre prove si erano discoperte della illegittimità del proprio
maritaggio, onde non potè esser valida alcuna pontificia
concessione. E come gli stava molto a cuore di
convincerlo, ordinò che venisse a ragionamento col vescovo
di Londra.
Sebben il Moro punto non piegasse, l’esito della conferenza
gli fu però cagion di favore; perocchè il vescovo,
che Wolsey avea offeso, volendo perdere questo ministro,
nè sapendo altra via più sicura che quella di lusingare
il principe in ciò che gli era più caro, gli riferì
che il Moro parea bramar ingenuamente di rinvenir argomenti
in conferma dell’opinione di sua maestà.
La causa, intanto, seguiva a trattarsi a Roma; ove il
papa ligio all’imperadore mostravasi avverso a’ desiderj
di Enrico. Questi avvezzo a vendicar ne’ suoi negoziatori
il mal successo delle commissioni loro affidate, imputò
a Wolsey il rifiuto del papa; e la caduta di un tal favorito
fu così strepitosa, come la sua prosperità. Il gran si-
28
gillo a lui tolto passò alle mani del Moro, che il re volea
affezionarsi co’ benefici; e assicurasi che il Wolsey medesimo
disse chiaramente, che non conoscea chi ne fosse
più degno. Il Moro, in quel discorso che pronunciò
all’entrare in carica, fra molte espressioni di modestia,
di riconoscenza e di rispetto, lasciò scorgere abbastanza
ciò ch’egli pensasse del favore che a tanta eminenza
l’avea elevato; poichè si paragonò a Damocle, sul cui
capo stava sospesa la spada. Del resto chiese a’ magistrati,
cui presedeva, di denunziarlo al re tosto che il vedessero
allontanarsi pur un poco dalla rigida via del dovere.
Al cangiarsi del ministro, gran cangiamento si fè sentire
a quanti avean d’uopo di presentarsi alla corte. I
modi fastosi del Wolsey il rendeano inacessibile alle
persone di grado inferiore; e solo a forza di presenti fatti
a suoi famigliari si giugneva a parlargli. Presso il nuovo
cancelliere la povertà divenne ottimo titolo per essere
ben accolti. Più un uomo era oscuro, e più incontrava
d’affabilità, d’attenzione, di pazienza nell’ascoltarlo, di
prontezza e diligenza nello spedirne gli affari. Stavasi il
Moro i lunghi dopopranzi nella sua sala di udienza, colle
porte aperte, onde chi avea qualche processo al suo
tribunale, o qualche doglianza da recargli davanti, il potesse
fare agevolmente e senza timore. Prima di soscrivere
alcun decreto di arresto, il leggeva ei medesimo; nè
permettevane l’esecuzione che dopo averne ponderata e
riconosciuta la dispiacevole necessità.
29
Il padre del Moro, ormai giunto al novagesimo anno,
era giudice del banco del re. Quand’ei recavasi alla cancelleria,
mai il figliuol suo non mancava di entrare nella
sala ove risedeva, e ricevere genuflesso la sua benedizione.
Trovandosi insieme a qualche conferenza, solea
questi pregarlo a pigliar posto prima di lui; ciò che per
verità il buon vecchio sempre ricusava, avuto riguardo
alla dignità del capo della magistratura.
È superfluo il ricordare che le relazioni di amicizia o
di parentela non aveano sui giudizj del Moro alcuna influenza.
Dicevagli un giorno uno de’ suoi generi, che sotto il
ministero di Wolsey non solo i favoriti, ma fino al portinajo
trovavano mille occasioni d’arricchire; mentre sotto
il suo quei medesimi ch’egli più amava non potean di
nulla avvantaggiarsi, poichè in tanta facilità a tutti conceduta
di accostarsegli, il ricevere alcun presente sarebbe
vero latrocinio. Al che rispose il cancelliere: “Lodo
figliuol mio che così pensiate; ma non però dovete credere
che non mi rimangano mezzi di fare a voi e agli
amici vostri qualche piacere. Una mia parola potrebbe
talvolta esser bene spesa in loro servigio, una mia lettera
esser loro di utile. Presentandosi alcun di essi al mio tribunale
io potrei, per riguardo vostro, ascoltarlo prima di
un altro; e se la sua causa fosse dubbia proporre un accomodamento.
Avvi però un segno, al di là di cui non
mi è possibile andare; e accertatevi bene che se mio padre
da un lato, e il diavolo dall’altro a me si richiamas-
30
sero, e il buon diritto fosse dalla parte del diavolo, ei
guadagnerebbe tosto il suo processo”.
Avea un altro dei suoi generi lite pendente nella cancelleria,
e contando sul favore del suocero si rifiutava ad
oneste composizioni. Il Moro udita aringar la causa,
pronunciò senza esitare la condanna del genero.
Un dì venne un mendico a querelarsi al suo tribunale,
che Lady More teneasi un cane, di cui egli solo avea padronanza.
Il cancelliere mandò per la consorte insieme e
per l’animale, e come questi gli fu condotto innanzi ei
medesimo se lo prese, facendo collocare madama e il
paltoniere alle due estremità della sala. Io debbo giustizia
a tutti, diss’egli; e in profferir queste parole lasciò
andar libero il cane, aggiugnendo che ciascun lo chiamasse
quanto meglio sapeva. Il bassotto o barbone che
fosse non esitò, e in un attimo fu a ricevere e alternar le
carezze dell’antico padrone. Però Lady More sentì pregarsi
a lasciarlo o a pagarne il valore, se il pover uomo
se ne accontentava.
Tanto era lo zelo e l’attività del Moro nell’adempiere
ai doveri del proprio officio, che di sì gran numero di affari
già prima indecisi non rimase che la memoria. E fu
per lui gratissima sorpresa, un dì che standosi in pubblico
consesso, e profferita sentenza sopra una causa, domandò
quella che seguisse, l’udirsi rispondere che nessun’altra
ne rimaneva. Del qual fatto ei volle che si tenesse
ricordo nei registri: e corse un quadernario, che bisticciando
colla parola More, la quale in inglese vale per
31
più, diceva che dopo lui più singolar cosa mai non sariasi
veduta.
Le grandi occupazioni di cancelliere non impedivano
al Moro l’immischiarsi nella controversia, e lo scrivere
di tempo in tempo contro l’eresia, cioè contro la riforma.
I vescovi commossi dal suo zelo, veggendo
com’egli, malgrado il favore del re, mancava di quella
che appelliamo fortuna, risolvettero di raccoglier fra
loro una somma di quattro o cinquecento sterlini ed offerirgliela.
Moro, com’è ben da credere, la rifiutò, chiamandosi
abbastanza soddisfatto di vedere le sue fatiche
approvate da uomini di una saggezza tanto eminente.
Ma aggiunse che, com’egli non mirò che alle ricompense
che Dio solo dispensa, a Dio solo era pur dovuta la riconoscenza
del fedele suo clero.
I vescovi però, insistendo, pregarono che almeno permettesse
che il loro presente fosse accettato dalla sua
sposa e da figli suoi. “No, no rispose il Moro; ciò mi recherebbe
troppo grave dolore. Sebbene la offerta vostra
sia egualmente onorevole che liberale, così mi è caro il
riposo, e così poco il danaro, che nessuna grandissima
somma avrebbe potuto indurmi a passar dopo giorni faticosi
le notti insonni. Pur piacesse a Dio che non rimanesse
ombra di eresia, e ogni mio travaglio fosse riputato
inutile!” Di qui può rilevarsi quanto poco fondata fosse
l’imputazione già datagli d’essere al soldo del clero, e
di non iscrivere contro la riforma, che per amor di mercede.
32
Le cose da noi riferite danno a vedere, senza dubbio,
un carattere integerrimo, e assai degno di rispetto. Or
quanto è triste il pensare che lo zelo, onde il Moro era
animato, si convertisse troppe volte in intolleranza, onde
vengono offuscate l’altre sue virtù. Nè di ciò vogliamo
altri testimonj che lui medesimo nel capo trigesimo sesto
della sua Apologia, ove rifiutando assurde calunnie,
confessa ingenuamente, per non dir si dà vanto della sua
severità contro i seguaci della riforma. Si dirà essere stata
questa piuttosto colpa del secolo in cui viveva che
sua; si appellerà un effetto di quella fermezza di principj
che fu in esso per tanti riguardi così ammirabile; si scuserà
finalmente siccome temperata dalla sua naturale
dolcezza. Ma noi accettando queste discolpe sempre più
ci dorremo che un sì eccellente uomo abbia potuto appartenere
alla classe dei persecutori.
Fin qui noi vedemmo il Moro innoltrar, suo malgrado,
a passi rapidi nel cammin degli onori. La fine della
sua vita ci presenterà spettacolo di ben altra sorte.
Poco dopo averlo innalzato alla dignità di cancelliere,
Enrico insistè di di nuovo, perchè esaminar volesse la
quistione propostagli del suo matrimonio. Onde il Moro
gettatosi a’ piè di lui, e mostrandosi afflittissimo di non
potere soddisfar insieme alla propria coscienza, e al desiderio
del suo augusto signore, il supplicò a non volerglisi,
per questo, mostrar diverso da quel che sempre gli
era stato. E aggiunse che gli piacesse aver ognora al
pensiero quelle parole, degne veramente di grande e vir-
33
tuoso principe, già da lui profferite, accogliendolo al suo
servigio: Dio innanzi a tutto, e dopo Dio il vostro re.
Enrico non parve di ciò adirato, e lo assicurò, che
mentre ad altri consiglieri avrebbe ricorso, non ritirerebbe
da esso il proprio favore: che anzi l’adoprerebbe
sempre in quegli affari, i quali non turbassero, come il
presente, la pace dell’animo suo. Gli effetti, per altro,
comprovarono quanto poco sincero fosse un simil linguaggio.
Avendo il dottor Cramer proposto di consultare intorno
alla causa, che tanto premeva al monarca, tutte le
università di Europa, onde forzare l’assenso del papa;
Enrico annuì e diede al proponente particolar segno del
suo aggradimento. Varie, infatti, di quelle dotte adunanze,
fra le quali Cambridge e Oxford, opinarono conforme
al voto di lui. Ma Clemente VII, inteso principalmente
a gratificarsi l’imperadore, citò Enrico a Roma. Il
che punse troppo vivamente l’animo di questo, il quale
se ne richiamò come di gravissimo insulto; e il conte di
Wiltshire, padre di Anna Bolena, mandato ad esporre al
pontefice le ragioni, per cui il re non si arrenderebbe a
suoi ordini, ricusò di baciargli il piede, conforme all’uso
ricevuto.
Più intanto non potè il Moro dissimulare a se stesso,
che le nozze con Anna già erano risolute, e che gli andamenti
del principe e del parlamento tendevano a manifesta
scissura colla chiesa di Roma, e a gravi cangiamenti
nella religione. Fu egli, qual cancelliere, incaricato con
altri membri della camera alta di recare a quella dei co-
34
muni l’avviso delle università; e ben s’avvide che ormai
sovente gli verria posta innanzi la dura alternativa di
contraddir se medesimo, o i comandi del trono. Volentieri
sarebbesi egli unito a’ migliori, per opporsi alle eccessive
pretese della corte di Roma; ma già scorgea
chiaramente che altro si meditava. Però, nè potendo entrar
nelle mire della corte, nè accogliere gli affettati
scrupoli del re intorno al suo matrimonio, non è a meravigliare
che pensasse a ritirarsi dalla magistratura. Pregò
infatti il duca di Norfolk, col quale era stretto d’amicizia,
a parlare al monarca di un tal disegno, e supplicarlo
a permettergli di restituire il sigillo, di cui già l’avea fatto
depositario. Allegò per unico motivo lo stato di sua
salute mal ridotta da tante e sì ostinate fatiche, onde provava
al petto, in ispecie, molestissimi dolori. Nè in
quante lettere allora scrisse a più persone, d’altro parlò
che di questa sua infermità e del bisogno di riposo. La
qual dissimulazione niuno vorrà biasimare, ove ponga
mente alle difficili circostanze del cancelliere, e al carattere
del suo signore.
Sapea Norfolk troppo bene, qual caso facesse Enrico
del Moro, onde non aderì che a gran pena al desiderio
dell’amico. E a gran pena il re pure si arrese a concedere
la chiesta dimissione (ciò fu nel 1532), accompagnandola
con parole di rammarico e di stima forse non mai da
lui usate. E disse al Moro che in riconoscimento dei suoi
buoni servigi sempre sarebbe pronto a tutto ciò ch’ei potesse
pel suo onore e per la sua fortuna. Intorno a che
nota Roper, pronipote del Moro, che questo ministro
35
mai dall’epoca di tali proferte non ricevette uno scellino;
e che il re, all’incontro, tutto gli tolse non solo di
quanto gli aveva donato, ma pur di ciò che gli era venuto
dalle sue fatiche, o dalla paterna eredità.
Moro discese dal suo posto eminente con maggior
contentezza che non vi era salito. Scherzava egli sulle
vicissitudini della sorte; e come lo splendore della magistratura
non alterò la moderazione del suo spirito,
l’oscurità del ritiro non ne turbò la serenità. E quando
gli amici esprimevano qualche dispiacere di vederlo caduto
da tanta grandezza, ei rispondea loro sorridendo:
“Che quel bene non valea il sagrificio di un solo istante
di domestica tranquillità”.
Ma la moglie sua non giugneva, per assai, a sì maschia
filosofia. Mentr’egli fu cancelliere ebbe in costume,
all’uscir della chiesa, di darlene avviso per mezzo
di alcuno del proprio seguito. La prima volta, che dopo
aver fatta accettare la sua rinuncia, assistè a divini offici,
venne egli stesso al luogo ove stavasi la donna sua, e
colle parole medesime, di cui era uso valersi lo staffiere,
od altro dei famigliari: “Madama, le disse, monsignore
si è ritirato”. Lady More credette, a prima giunta, esser
questa una beffa, tutta naturale all’umor festevole del
marito. Ma come poi seppe il vero della cosa, troppo più
seria di quello che mai non avrebbe voluto, si sentì presa
da grandissimo corruccio. Allora il Moro fè chiamar
le figliuole, e loro domandò ridendo, se nel volto della
madre nulla scorgevano di straordinario. Al che rispondendo
esse riapettosamente di no: or come? diss’egli;
36
non vedete voi che ha messo la cuffia di traverso? Ma al
fine che farete voi? gli soggiunse madama, con frasi
proverbiali di quel tempo. Vi rimarrete dunque colle
mani alla cintola? Credetemi, signore, molto meglio dar
comandi che riceverne.
Prima cura del Moro, al rientrar suo nella condizion
de’ privati, fu di provvedere a chi avea seguita la sua
fortuna; e in questo adoperò efficacemente quanto gli rimaneva
di credito o autorità. In seguito, chiamati a sè i
figliuoli, che tutti fino allora si nudrì in casa colle loro
famiglie, alla maniera de’ patriarchi; dichiarò loro di
non poter più oltre godere della lor cara unione, ora più
che mai necessaria al suo cuore, se eglino non si studiavano
di fornirne i mezzi.
Alle quali parole ciascun tacendosi, ei seguitò: “Dirovvi
adunque intero il pensier mio, e voi ne sarete i
giudici. Vissi dapprima, come sapete, in una pensione
ad Oxford, poi alla cancelleria, indi a Lincolns-Inn, e finalmente
alla corte. Passai così dallo stato il più modesto
a quello che potea riputarsi altissimo grado d’elevazione.
Or mi rimane di entrata netta poco più di un centinajo
di lire, le quali non bastano, se ciascuno di voi,
per sua parte, non vi aggiugne qualche cosa. Certo noi
non faremo a un tratto sì gran cangiamento, da ridurci
alla spesa della prima pensione, di cui vi ho detto. Potremo
pigliarci a norma quella di Lincolns-Inn, della quale
ben si accontentano molte persone di vero merito. Se,
dopo un anno d’esperienza, troveremo che siffatta spesa
oltrepassi le nostre forze, ci restringeremo a quella della
37
cancelleria, che pur basta a non poca gente onorata. Ed
ove neppur essa si pareggi al picciolo aver nostro, chi ci
vieta di moderarci al trattamento di quella di Oxford, di
cui molti dotti e gravi e rispettabili uomini non hanno il
migliore? Alla peggio poi, messa ciascuno una bisaccia
al collo, e fidandoci alla carità de’ nostri fratelli, andrem
cantando di porta in porta la salve regina, e ancor vivremo
uniti e contenti”.
Poco avanti a questo tempo perdette Moro il suo genitore,
dimodochè il venerando vecchio fu testimonio
della prosperità del figlio, e nol fu della sventura. E se la
vista di quella, e la testimonianza della figlial riverenza
e tenerezza poteano rendergli l’ora estrema alquanto
meno lugubre, certo ei morì consolato. Non grandi beni
lasciò all’erede; e fossero anche stati maggiori, che non
avrebbero accresciuta la sua ricchezza. Poichè la più
gran parte ne cedette il Moro spontaneamente alla matrigna,
in pegno di rispetto e di affezione; di che essa, la
quale gli sopravvisse, non avrà potuto ricordarsi mai se
non lagrimando.
Poco dopo aver rinunciato alla dignità di cancelliere
scriveva il Moro al suo caro Erasmo: “Ciò ch’io ho bramato
dalla più tenera età; di cui tu godi costantemente; e
ch’io non gustai finora se non di rado e come di furto,
alfin mi è dato ottenerlo per grazia del cielo e per favore
del mio re. Posso ormai, libero dagli affari, consecrare il
mio tempo a Dio e a me stesso”.
Indi segue a dire, che non ha però conseguito intero
l’oggetto de’ suoi voti, che era insieme una vecchiezza
38
senza dolori. E dopo aver parlato alcun poco di questi,
ch’egli allega qual possente motivo della sua rinuncia,
fa un motto di coloro che ardivano chiamarla forzata, A
smentire i vani lor detti, egli aggiunge, ho preparato
l’epitafio che si leggerà nel monumento, ove debbono
riposar le mie ceneri. Sarò forse per esso tacciato di orgoglio,
ma preferisco una tale accusa al lasciare un benchè
menomo sospetto della mia sincerità. Quindi ricorda
le parole di onore indirizzategli dal monarca per bocca
del duca di Norfolk gran tesoriere d’Inghilterra, mentre
gli concedeva suo malgrado di ritrarsi dalle pubbliche
cure, e quelle, per volere del re medesimo, e alla sua
presenza profferite dal cancellier successore in pieno
parlamento.
Or chi bramasse al nostro proposito intendere alcuna
cosa di quell’epitafio, poi ch’esso è molto lungo, gli basti
sapere che dice in latino pel luogo, ove s’incontra,
forse elegante, che il Moro avendo perduto il padre, ed
essendo padre egli stesso di quattro figli ed undici nipoti,
ormai vecchio, tocco nel polmone, sazio delle cose
mortali, avea alfin ceduto ad un antico desiderio, di passar
lungi d’ogni cura gli inoltrati suoi giorni, onde prepararsi
all’immortalità; il che ottenne per grazia dal migliore
dei re.
Il monumento, su cui fu posta l’iscrizione, stava nel
coro della chiesa parrocchiale di Chelsea. Ivi avendo il
Moro fatto trasportare i mortali avanzi della prima sua
moglie, aggiunse de’ versi, anch’essi latini, che parlano
della riunione delle proprie spoglie e di quelle della se-
39
conda consorte alla già defunta; e della sua affezione per
ambidue.
Chelsea già era da più anni il luogo ordinario di sua
dimora. Egli vi avea fatta edificare una devota capella, e
fondato un ospizio pe’ vecchj, affidandolo alle sollecitudini
di Margherita sua figlia. Ora sgombro d’ogni altro
pensiero, tutto si consecrava in quel luogo alla pietà e
allo studio. La parsimonia, a cui erasi ridotto, parea veramente
doverlo assicurare d’ogni nuova angustia nelle
cose famigliari; pure fu costretto vendere parte di quel
poco che possedeva, onde salvare il rimanente. Quivi,
malgrado il vivo desiderio di sempre vivere congiunto a
suoi, ebbe a pregare i figli, che volessero ciascuno provvedere
a sè stesso in proprie e distinte case.
Dicesi che la prevision della sorte che il minacciava
gli turbasse i sonni. Passava egli le intere notti in preghiere,
domandando a Dio che gli piacesse di sostenere
il suo coraggio; poichè, dicea, la mia carne è inferma, nè
potrà sostenere i più piccioli tormenti. Volendo preparare
la sua famiglia a casi troppo probabili fè appostar un
uomo, che all’ora del desinare venisse a battere fieramente
alla sua porta, e intimargli di recarsi al consiglio.
Quando Enrico sposò la Bolena, disse il Moro a suo
genero: “Piaccia al cielo, che il re non esiga in questa
occasione alcun giuramento!”.
Un dì che Tommaso Cromwello, fatto ministro, venne
pel monarca a visitarlo a Chelsea, ei gli disse: “Voi vi
siete, o signore, posto ai servigi di un principe savio e
generoso. Ma se vi pare ch’io meriti alcuna fede, quan-
40
do sarete richiesto de’ vostri consigli, mai non gli parlerete
di quel che può, e sempre invece di quel che dee
fare. Se un leone conoscesse la sua forza, come si farebbe
a governarlo?”
Poco avanti al coronamento della nuova regina, Moro
fu da tre vescovi invitato ad assistere a quella cerimonia,
e perciò recarsi con loro alla torre di Westminster. Essi
gl’inviavano ad un tempo venti lire sterline, onde si
provvedesse d’abito conveniente; ed ei le accettò. Non
per questo si arrese all’invito; e mandò a dir loro, che
ben sperava, poichè soddisfaceva ad essi in una parte,
che lo avrebbero per iscusato nell’altra. Nè potè ritenersi
dall’aggiugnere, come la sorte loro gli richiamava
quel fatto di un imperadore, che avendo rassicurate dal
supplizio le vergini pure, non lasciò di condannarvi una
di esse, comandando però che prima avesse a perdere la
sua innocenza. “Voi ancora, diss’egli, siete puri: or si
adoprano a corrompervi: ben presto vi faranno parlare e
scrivere in favore del regio matrimonio; e avrete così
perduta la vostra innocenza. Coloro, intanto, che ve
l’avranno rapita, non tarderanno a perdere voi stessi.
Quanto a me, il perdermi sarà loro certamente agevol
cosa: ma l’innocenza mia spero poterla difendere abbastanza
dai loro attentati”.
Pretendesi che queste parole fosser riferite alla giovane
regina, che d’allora più non cessò di stimolare il re
contro del Moro. Più probabile però sembra, che offeso
quel principe dall’ostinazione di lui, e sospettando
l’effetto, che l’opinion sua produrrebbe in quella del
41
pubblico, risolvesse da se medesimo d’usare ogni mezzo
di smuoverlo.
Però cominciarono a farsi maligne ricerche, onde trovare
nella condotta del Moro alcun pretesto di accusa. E
incontrasi nelle sue opere una lettera a Tommaso Cromwello,
in cui difende certo suo scritto contro un manifesto
del re, pur dianzi appellatosi dalla corte di Roma.
Ma bentosto le confessioni di Elisabetta Barton, chiamata
comunemente la santa vergine di Kent, fornirono ai
nemici del Moro miglior occasione di nuocergli.
Un’altra lettera al medesimo Cromwello, scritta dal
Moro probabilmente a propria giustificazione presso di
Enrico, e piena di curiose particolarità, mostra ad un
tempo la prudenza e la semplicità dell’uomo veramente
innocentissimo. Alla qual lettera egli unisce copia
d’alquante sue linee a quella fingitrice di rivelazioni e di
miracoli, per dissuaderla dal parlare delle cose del re.
Indi toccata la pia dabbennaggine d’altri uomini rispettabili
riguardo alla scaltra o pazza femmina, ch’ella si
fosse, forse per confessare con meno vergogna d’esserne
stato ingannato, finisce col lodar grandemente il
Cromwello che la smascherò.
Quando sotto l’imperio della regina Maria si pubblicarono,
di suo ordine, le opere del Moro, una tal lettera
non si lasciò comparire. Riguardandosi a quel tempo la
vergine di Kent qual profetessa e martire, e sperandosi
per lei gli onori della canonizzazione, simile testimonianza
sarebbe stata di troppo gran peso contro la sua
celebrata santità. Nel 1534, per altro, il parlamento avea
42
accettata l’accusa contro alcuni fautori della sua riconosciuta
impostura. Fra i quali trovandosi malamente avvolto
anche il Moro, chiese una udienza dal re, che si
contentò di nominare de’ commissarj per interrogarlo; e
furono l’arcivescovo di Cantorberi, il cancelliere, il
duca di Norfolk, e Tommaso Cromwello. Sino dal cominciamento
del processo fu facile avvedersi che
l’accusa non era che un pretesto. Infatti, accennatala appena,
più non se ne fece parola; e il cancelliere molto si
estese sui beneficj, che il Moro avea in ogni tempo ricevuti
dal re, e sulla corrispondenza che questi avrebbe
dovuto aspettarsi da un ministro così favorito, lungi dal
trovare in esso tanta opposizione contro l’avviso del
parlamento, de’ vescovi e delle università.
Al che replicò il Moro con dolcezza: “riconoscer egli,
nè potere obliar giammai i favori impartitigli dal re suo
signore; e nessuno bramare più sinceramente di far ciò
che sia in piacere della maestà di lui. Quanto alla cosa, a
cui ora si alludeva, aver egli sperato di non udirne più
motto, massime dopo le dichiarazioni fatte al re medesimo,
e da lui accolte con tanta indulgenza, fino ad assicurarlo
(sue proprie espressioni) che più non gli si darebbero
inquietudini in tal proposito. Da quel tempo nulla
avere discoperto che potesse fargli cangiare opinione; il
che se gli fosse accaduto ne proverebbe, più che altri
qualunque, sommo contento”.
Come i commissarj si avvidero che nulla profitterebber
col Moro per le vie della persuasione, avvisarono di
fare miglior frutto colle minacce. Quindi gli dissero che
43
troppo abusava della regia clemenza, onde, sapesse
come il monarca gli rimproverava la sua ingratitudine e
il suo tradimento, e querelavasi che pe’ suoi perfidi consigli
si fosse indotto a scrivere in difesa de’ sette sacramenti
e della papale autorità, onde s’era coperto di vergogna,
e avea dato in mano al pontefice un’arme per
combatterlo.
Allora il Moro, pregandoli ad avvertire che le minacce
erano buoni argomenti pei fanciulli, non per lui, proseguì:
“Rispetto alla principale accusa che voi mi date
risponderò, niuno sapere meglio del re quanto io sia innocente.
No, io non consigliai l’opera da voi accennata;
ma poi che fu scritta ebbi dall’augusto autore espresso
comando di dare alle materie in essa comprese ordine
conveniente. E come vidi l’autorità del sommo pastore
oltre il debito amplificata, pregai la maestà sua a sovvenirsi
che il pontefice non era principe di natura diversa
dagli altri, e poteva avere interessi opposti a’ suoi, e
stringere alleanze ad essa contrarie, onde alfine si verrebbe
a violenta scissura. Però era mia opinione che alcuni
cangiamenti si facessero a quella parte del libro che
toccava siffatta autorità, o che almeno si passasse
sovr’essa assai leggermente. Ma il re rispose che non
soffrirebbe alcuna mutazione, e che l’union sua
coll’apostolica sede era tale, che nulla potea far di troppo
per onorarla. Io allora gli richiamai lo statuto, che diminuisce
nel nostro paese l’ingerenza del papa; ma il re
vie più fermo soggiunse che, ad onta d’ogni ostacolo,
conveniva avvalorarla; poichè dal successor di Pietro ei
44
teneva la corona: discorso per me fino a quel giorno
inaudito, e che per più meraviglia mi toccò intendere
dalla bocca stessa del re. Vuol dunque ragione ch’io
speri, che la maestà sua richiamando alla memoria le
passate cose, niun conto vorrà tener di presente
dell’accusa che mi si fa, ed io facilmente ne verrò assolto.”
Per la qual conchiusione i commissarj poco soddisfatti
si ritirarono; e Moro, preso un battello onde tornare a
Chelsea, si mostrò assai lieto in tutto il corso della picciola
navigazione. Il che vedendo Roper suo genero
concepì speranza ch’ei fosse scarico d’ogni appostagli
calunnia. Onde giunti a casa; e diportandosi pel giardino:
“Tutto adunque, gli domandò, va bene, poich’io vi
trovo di sì allegro umore! - Tutto bene, disse il Moro,
lode a Dio tutto bene - Siete voi dunque libero del mandato
di accusa? - In verità, Roper mio caro, non pensava
adesso a questo mandato. - E che? non vi curate voi
dunque nulla di cosa, la qual tocca sì davvicino e voi e
tutta la vostra famiglia? Oh! io, all’aria vostra, avrei pur
creduto, che nulla più vi fosse a paventare. - Vuoi tu sapere,
mio figlio, ciò che mi ispira questa ilarità? - Troppo
volentieri: altro non desidero. - Che nel mio esame il
diavolo ha pur avuto il di sotto: io mi sono avanzato di
tanto, che il tornar addietro di un passo or mi è impossibile”.
Enrico, siccome ben può supporsi, rimase trafitto dalle
risposte del Moro, che il convinceano di menzogna.
Quindi, a sfogo del suo ingiusto risentimento, comandò
45
che con ogni severità se ne proseguisse il processo. Indarno
il cancelliere e gli altri commissarj gli rappresentarono
che la difesa di quell’uomo avea fatta sulla camera
alta sì forte impressione, che parea doversi desistere
da un’accusa niente creduta. Il re troppo superbo per cedere,
troppo vendicativo per sofferire che un vecchio favorito
potesse contrastargli impunemente, dichiarò che
assisterebbe ei medesimo al dibattimento, sperando,
senza dubbio, intimorir colla presenza quelli che si sentissero
disposti a mostrarsi indulgenti.
I commissarj, temendo o fingendo temere l’eloquenza
dell’accusato, soggiunsero, che non credevan prudente il
far che aggiugnesse a proprio sostegno gli argomenti e
le parole quell’uomo, che già dalla sua virtù e dolcezza
era così bene difeso. Non però Enrico si smosse dalla
sua orgogliosa ostinazione. Fin ch’eglino gittandosi a’
suoi piedi il pregarono a pensare, che non saria impossibile
trovar più specioso capo di accusa, che più sicuramente
servisse al risentimento del monarca, non al
trionfo del Moro. Alle quali ultime parole Enrico si arrese;
e tosto il Cromwello fè intendere a Roper che avvisasse
il suocero non essere egli più fra gli accusati. Se
non che il Moro al ricever l’annunzio: figliuol mio disse,
quod differtur non aufertur; nè la predizione tardò ad
avverarsi.
Alcune leggi, infatti, promulgate l’anno medesimo,
che fu il 1537, fornirono nuovi pretesti a nuove accuse,
che poi ebbero quel fine luttoso, a cui ci affrettiamo. Era
una di tali leggi intorno alla successione al trono, e di-
46
chiarando nullo il matrimonio di Enrico VIII con Caterina
di Aragona confermava l’altro con Anna Boleyn.
Quindi la corona sarebbe de’ figli che nascessero di
quest’ultimo; e in mancanza di essi andrebbe agli eredi
naturali del re. Fossero i vassalli obbligati a giurare
quest’ordine di successione, e ricusandolo, avessero
confiscati i loro beni, e perdessero la libertà della persona
quanto tempo piacesse all’offesa maestà del monarca.
Con altra legge il parlamento conferiva ad Enrico il
titolo di capo supremo della chiesa d’Inghilterra; ciò
che, al dir dei cattolici, costituiva il re e i suoi deputati,
soli giudici in materie di fede, ed arbitri assoluti
dell’ecclesiastica disciplina; niun rispetto avendo
all’ordine stabilito da Cristo e dagli apostoli, confidando
la cura delle anime al civil potere, e facendo dipendere
l’esistenza stessa della religione al volere del magistrato.
Poco dopo che queste leggi furono proclamate, comparve
un’edizion latina della Bibbia, con un proemio,
ove il re decoravasi del nuovo titolo, e parea, in certa
guisa, menar trionfo. Perchè diceva espressamente, che
investito di pienissimo potere sovra la chiesa e le sue discipline,
nè dovendone ragione ad alcuno fuori che al
solo Dio; alla legge di Dio appunto faceva ricorso, per
intendere ciò che a lui prescriveva, e ciò ch’ei dovesse
prescrivere agli altri. Una medaglia nel medesimo tempo
fu coniata, con leggenda in tre lingue, ebraica, greca
e latina, a perpetuar la memoria della ecclesiastica su-
47
premazia trasferita nel re. Onde Enrico da taluno ai paragonò
a Pilato, che con triplice iscrizione mise già in
croce Gesù, com’egli or la sua chiesa.
Se non che, mentre i cattolici dolevansi del titolo di
capo della chiesa inglese conferito al principe, quasi significasse
veramente capo spirituale, e racchiudesse il
potere di conferire i sacri ordini, e amministrare le cose
sante, i loro avversarj opponevano, null’altro significare
che una superiorità ai prelati, fra cui molti pretendevano
sottrarsi alla regale autorità; e un diritto d’indipendenza
dal papa, che arrogavasi giurisdizione su tutti i potentati.
Il re, dicean essi, già non si usurpa veruna autorità nelle
cose della fede; ma quando abbisogni qualche estrema
forza a reprimer l’errore e sostenere la verità, ciò a lui
solo appartiene, per tutta l’estensione del suo dominio;
nè però veruna dottrina o disciplina può esservi legalmente
stabilita, che per sua volontà.
Il giuramento riguardo alla successione fu a ciascun
de’ vassalli rigorosamente imposto. Soli, fra gli uomini
più distinti, Fisher e Moro vi si mostrarono ripugnanti.
E poichè l’opinione delle virtù e saggezza del secondo
era grandissima, temendo che il suo esempio non inducesse
altri al rifiuto, nulla si obbliò per vincere la sua
contrarietà. Egli, per altro, rimase inflessibile, allegando
che il preambolo della legge supponeva illegittimo il
matrimonio di Caterina. Del qual motivo checchè si
pensi, non è meno ammirabile la delicatezza del Moro,
che nulla mai volle ascoltare fuorchè la propria coscienza.
48
Riferisce il Roper che un giorno il duca di Norfolk
disse al Moro: “Per dio, signor Moro; è ben periglioso il
cozzar co’ potenti. Vorrei che al desiderio del re aveste
qualche rispetto. Poichè, per dio, signor Moro, indignatio
principis mors est”. Al che l’altro replicò: “È questo
tutto, o milord? In tal caso la differenza che passa tra me
e voi è ben di poco momento. Poichè io morrò oggi, e
voi morrete domani”.
Un mese dopo la promulgazione della legge del giuramento
fu annunziato al Moro e ad alcuni membri del
clero di Londra che comparissero a Lambeth innanzi a
Cranmer, Andley e Cromwel deputati a riceverlo. Moro,
giusta un costume nelle importanti occasioni mai da lui
non tralasciato, fu in sul mattino alla messa; e come per
l’ordinario usciva di chiesa colla moglie e colle figliuole,
ond’era accompagnato sino al fiume, e da cui riceveva
un bacio di addio; questa volta uscì solo, e tornato a
casa diligentemente si chiuse, quasi paventando la loro
vista all’istante della partenza. Il suo viso, dice Roper,
che il seguì fino a Lambeth, mostrava un cuore oppresso.
Ei stette alcun tempo seduto e pensoso. Alfin volgendosi
al genero: “Mio figlio, esclamò, sia lode a Dio!
La battaglia è vinta”.
Moro, come avea preveduto, non fu libero di restituirsi
alla famiglia. Scrisse pertanto a Margherita, quella
che più teneramente amava fra le sue figlie, onde avvisarla
di ciò che a Lambeth gli era avvenuto. Egli, senza
biasimare nè l’atto parlamentario, che lo obbligava al
giuramento, nè quelli che già vi si erano conformati;
49
non avendo riguardo che alla sua intima persuasione, da
cui non pretendeva che altri pigliassero norma, negò di
poter giurare nella forma prescrittagli, sebben fosse dispostissimo
a giurar la successione. Intorno a che molte
parole essendosi fatte, e il Moro, non commosso nè da
minacce nè da preghiere, insistendo, perchè s’ei rispettava
l’altrui opinione, fosse parimenti rispettata la sua,
venne dato in custodia all’abate di Westminster, presso
cui rimase quattro giorni. Nel quale spazio si trattò, non
senza gran disputa, del modo che si avrebbe a tenere
con un tal uomo in tale causa non più imaginata. Crammer,
a cui non isfuggiva il pericolo di una discussione
con personaggi di tanta stima e inaccessibili al timore,
siccome Fisher e Moro, scrisse a Tommaso Cromwello
una lettera notabilissima, proponendo che se dopo nuovo
esame seguitavano a rigettare il preambolo della legge,
si accettasse il lor giuramento a ciò che riguardava
l’ordine di successione; giuramento che potria tenersi
segreto, sin che si giudicasse conveniente.
I suoi avvisi non furono seguiti. Stimolato forse dalla
giovane regina, Enrico decretò che si procedesse contro
i renitenti a rigor delle minacce già fatte. Però accusati
nelle forme, vennero essi rinchiusi in quella prigione di
stato, che si chiama la Torre. E perchè, ov’eglino alcuna
cosa scrivessero intorno al matrimonio o alla supremazia,
il loro nome e la loro istessa disgrazia darebbero
grandissimo peso alla loro opinione; fra non molto fu
loro vietato anche uno degli ultimi sollievi, l’uso della
penna, che singolarmente si paventava. Non solo Fi-
50
scher e Moro furono esclusi dal generale perdono conceduto
pocanzi all’occasione delle nozze; ma due atti
particolari furon diretti ad imputar loro il delitto di non
rivelato tradimento. Moro, particolarmente, nel proemio
di quello che lo riguardava era accusato di nerissima ingratitudine;
d’aver cioè studiato di sollevare contro il
suo sovrano e benefattore i sudditi più fedeli; e negato il
giuramento alla sua legittima discendenza. Però i doni e
i privilegi a lui già conceduti dal re erano dichiarati nulli,
e il Moro abbandonato a quella sentenza che di lui si
pronuncierebbe.
La quale severità, sebben dettata manifestamente dalla
vendetta, molti hanno creduto, che fosse necessaria a
que’ difficili momenti, in cui l’indulgenza verso un
uomo eminente avria potuto incoraggiare alla rivolta. Il
Moro, per altro, niuna contrarietà avea mostrata alla
successione, per cui anzi era disposto a giurar fedeltà; e
tutto il suo reato consisteva in uno scrupolo della sua
coscienza. L’atto, con cui ne veniva accusato, era almeno
imprudente, o come oggi diremmo impolitico, poichè
alla stima universale pel carattere del Moro, aggiugneva
il nuovo affetto, che suol nascere dalla persecuzione.
Per fiera, intanto, che questa si fosse, punto non potè
scuotere la sua fermezza. Anzi egli oppose alla tirannide
costantemente sì dolci modi, che parea non sentirla; ed
anche oppresso conservò in parte quel lieto umore,
ch’era in lui distintivo della natura. Portava egli, giusta
il costume di que’ tempi, una catena d’oro a guisa di
collana. Or avviandosi alla Torre, il carceriere gli disse,
51
che potria mandare un siffatto ornamento alla consorte,
o ad alcuno de’ figli. “No, no, rispose il Moro: s’io fossi
preso sul campo di battaglia, vorrei bene che ne avesse
qualche picciolo guadagno chi mi tenesse in suo potere”.
All’ingresso della Torre, il portinajo gli chiese la sopravveste:
alla qual domanda il Moro presentò la sua
berretta, scusandosi di non avere di meglio. Ma quel ruvido
che non gustava lo scherzo, gli avventò le mani, e
gli trasse, senz’altro dire, la parte dell’abito, che gli avea
domandata. Non pochi obblighi avea il luogotenente
della Torre verso del Moro, onde gli attestò il suo rammarico
di doverlo, tale essendo l’espressa volontà del re,
trattare così diversamente da quel che avrebbe desiderato.
“Signor luogotenente, ei gli rispose, sono ben persuaso
che voi siete mio buon amico, e non avrò che a lodarmi
de’ vostri trattamenti. Ma se mai vi accorgeste,
che ne mostrassi il minimo malcontento, non abbiate riguardi;
mettetemi pur subito alla porta”.
Era già egli prigione da un mese, quando madama Roper,
sua figlia, ebbe facoltà di vederlo. Dopo aver egli
passato con lei alcun tempo in divote preci, giusta il suo
costume: “Io credo, le disse, che quelli, onde qui fui
messo, abbiano imaginato di darmi gran punizione; ma
ti assicura, mia cara, che se non fosse stato il rispetto
alla moglie e a’ figliuoli già da gran tempo mi sarei
chiuso io medesimo in carcere ben più stretto. E poichè,
senza averlo io meritato, sono oggi in questo, non dubitare
che Iddio vorrà prendere per voi tutti il luogo di padre.
Del resto io non ho alcuna ragione di querelarmi
52
d’essere qui piuttosto che in mia casa: chè anzi io mi riguardo
come fra le mani amorose di Dio, e colmato de’
suoi favori”.
Fino da’ primi istanti della sua cattività parve il Moro
prevederne la fine. Confessava che la natura gli avea
date poche forze contro i patimenti, onde armavasi, per
così dire, di tutto punto, affin di resistervi. E già separavasi
ogni giorno d’avvantaggio da quanto gli era caro
quaggiù, raccogliendo gli affetti e i pensieri nella vicina
eternità.
Scôrse egli dalla sua finestra della Torre il padre Reynolds
e tre altri religiosi, che conduceansi al supplizio,
per avere infranti i nuovi statuti riguardo al matrimonio
e alla supremazia del re. “Vedi tu, mia figlia, gridò egli,
quanta serenità ne’ volti di quegli avventurati? Vanno
eglino al supplizio, come sposi alla chiesa, per ricevervi
la nuzial benedizione. Qual differenza fra chi passò la
vita nel ritiro e nella penitenza, e chi, siccome l’infelice
tuo padre, fu tutto nelle cure del mondo, e ne’ suoi vani
piaceri!”
Venne un giorno a visitarlo il segretario Cromwello,
e, o fosse pietà verso di lui, o a se medesimo facesse inganno,
studiò recargli assai confortevoli speranze. Dissegli
che il re gli restituirebbe il favor suo, nè persisterebbe
a volere da lui ciò che turbasse la sua coscienza. Il
Moro, per altro, non accolse per nulla il dolce di queste
parole, e come prima il ministro fu uscito, dettò alcuni
versi inglesi, il cui significato era questo: “Fortuna ingannatrice!
Tu ancor mi sorridi, quasi ovviar volessi alla
53
mia perdita; ma punto non mi illudono le tue lusinghe.
In Dio solo io confido, che m’apra nel cielo un porto
tranquillo e sicuro; mentre la tua calma non è che foriera
di tempesta”.
Più tardo anche la consorte sua ottenne di vederlo. Ed
entrandogli in camera gridò nel modo che in casa era
usata: “Ben mi fa meraviglia che un uomo riputato di sì
gran saggezza, così poca ne abbia dimostrata, scegliendosi
un soggiorno oscuro ed infetto, fra sorci ed altri incomodi
animali; mentre da lui solo dipenderebbe il goder
la sua libertà, e la grazia del monarca. A quest’uopo
non gli bisognerebbe se non di far ciò che già tutti i vescovi
e i più dotti uomini del regno hanno fatto. Chi, chi
vi toglie, se non voi stesso, di ritornare a Chelsea, a’ vostri
agi, alla vostra biblioteca, al vostro giardino, alla
compagnia della moglie e de’ figli vostri, alla vostra felicità?
Certo io non posso comprendere ciò che vi affezioni
a questa prigione“. Moro le chiese, a rincontro, se
il presente suo ricetto non le parea così vicino al cielo,
come la propria sua casa? S’io fossi morto e sotterra,
egli aggiunse, e dopo un intervallo di sette anni sorgessi
e rientrassi nella nostra usata abitazione, vi troverei un
nuovo possessore, che di essa mi farebbe uscire. Come
dunque sentir tanto amore per quella, che sì tosto oblia
il signor suo? Indi proseguì: quanto tempo credete voi
che avremmo il piacere di albergarvi insieme? Forse ancora
una ventina d’anni, rispose madama Moro. “Ah se
mi aveste detto un migliajo, replicò egli, sarebbe almeno
qualche cosa. Qual meschino contratto, però, anche per
54
quel migliajo, sagrificare l’eternità! Ma che pensare di
un tal sagrificio per una casa, di cui non sono certo di
godere un sol giorno?”.
Non è senza verisimiglianza, che la buona donna fosse
adoperata dalla corte istessa, onde piegare il Moro, e
affievolirne le risoluzioni. Certo che da quel punto più
tentativi furono fatti a tal uopo, ma nessuno riescì più
efficace dell’altro. Poco dopo la visita della consorte,
vennero a lui successivamente i duchi di Norfolk e di
Suffolk, Cromwello, e altri membri del consiglio privato;
nè per insinuarsi che facessero nel suo spirito, nè per
industria, che usassero disputando, nè per timori che si
studiassero di accrescere in lui, nulla, per ciò che scrive
egli medesimo alla sua cara figlia Margherita, poterono
trargli di bocca intorno al matrimonio e all’ecclesiastica
supremazia del monarca, fuorchè le antiche sentenze.
Quindi, fattosi vie più grave il suo caso, gli fu mandato
il regio sollecitatore, e due altri commissarj, che a privarlo
d’ogni conforto gli togliessero anche i libri. Da
quel punto il Moro, tutto si diede alla meditazione, onde
chiuse le imposte della sua finestra. E avendogli il luogotenente
della Torre domandato, perchè cosi condannavasi
all’oscurità, ei rispose, che mancate le merci ben
potea chiudersi la bottega. Nondimeno procacciò di
tempo in tempo qualche pezzo di carta, su cui scriveva
con del carbone; ed uno di questi frammenti era passato
in eredità al suo pronipote Roper, che lo appellava una
gemma preziosa.
55
Nacque sospetto che il sollecitator generale Rich fosse
stato mandato al Moro, per trarne parole imprudenti,
o tali che fornissero materia a testimonianze anche false
contro di lui. Non è oggi possibile chiarire una tal congettura;
ma sventuratamente la critica non vi trova contraddizione
colle abitudini della corte anglicana a quei
tempi. E già è noto, che mentre gli altri commissarj erano
occupati a raccogliere i libri dell’illustre prigioniero,
il Rich trattenendosi con lui a colloquio gli volse questa
singolare domanda: Se un atto del parlamento ordinasse
di riconoscermi per re d’Inghilterra, neghereste voi di
avermi per tale? No certamente, o signore, disse il
Moro. Ebbene, soggiunse il Rich, se un atto del medesimo
parlamento comandasse di riconoscermi per papa;
che fareste voi? Allora il Moro: vi risponderò, disse, facendovi
io pure un’interrogazione. Se il parlamento bandisse
legge che Dio non sia Dio, sareste voi disposto, signor
Rich, a credere e parlare a norma di essa? A che il
Rich dovè pur rispondere che nessun parlamento avea
potere di emanare legge siffatta. E qui finì il diverbio,
racconta il Roper; ma Rich attestò poi che il Moro avea
aggiunto, che il parlamento d’Inghilterra non potea
niente più creare il re capo della chiesa.
Già da un anno languiva l’uomo illustre nella prigione,
quando fu citato alla sbarra del banco del re. Le sue
forze erano al termine; chè ai soliti dolori de’ visceri altri
se ne erano aggiunti di renella ancor più molesti.
Però debile e dimagrato si strascinò, appoggiandosi ad
un bastone, fino al tribunale: ma il suo volto esprimeva
56
costanza ed anche serenità. L’atto d’accusa ivi a lui letto
riuscì di tanta lunghezza, ch’ei dichiarò non averne potuto
ritenere una terza parte. La principal colpa, per altro,
che gli si apponeva, era il dinegato giuramento; colpa
che chiamavasi proditoria, maligna e diabolica. Se
ne recavano in prova le parole sue ne’ due interrogatorj
subiti alla Torre. Diceasi aver egli scritto al vescovo Fisher
per renderlo ostinato e a se stesso rassomigliante,
onde poi vedeansi concordare le loro risposte. E terminavasi
col denunziar Moro traditore al re ed alla patria,
per aver negata la suprema giurisdizione di quello sul
governo ecclesiastico.
Già la sorte dell’uomo integerrimo era decisa. Nessuno
ignora che a quell’epoca infelice i giurati e i giudici
altra norma non aveano che l’arbitrio del principe, il
qual calpestava sfacciatamente ogni legge più sacra.
Finita la lettura di quell’atto, il duca di Norfolk disse
al Moro: “Voi vedete, quanto abbiate offeso la maestà
del monarca; ma tanta è la sua clemenza, che cessando
voi di ostinarvi, e cangiando opinione, ci lascia speranza
di ottenere il vostro perdono”. Il Moro allora: “Milordi,
io debbo alle signorie vostre ringraziamenti sinceri per
la benevolenza a me dimostrata, ma prego Iddio onnipotente,
che faccia colla grazia sua, ch’io continui sino alla
morte ne’ sentimenti già manifestati. Indi essendogli da
giudici fatta dare una seggiola, per riguardo alla sua
estrema fiacchezza, di che si lagnava, entrò distesamente
nella propria difesa, che ridusse a quattro capi.
57
Confermò primieramente la disapprovazion sua al secondo
matrimonio del re, già lealmente dichiarata; e disse
che se era fallo il rispondere la verità al monarca, il
qual la domandava, ei già ne avea sufficientemente pagata
la pena.
Quanto agli offesi diritti del re, siccome capo riconosciuto
della chiesa d’Inghilterra, ei ricordò di avere soltanto
ricusato di rispondere sulla giustizia dell’atto parlamentario
che tai diritti gli conferiva. Il qual silenzio
non solo non gli pareva delitto capitale, ma neppur soggetto
a forza di umane leggi, che solo risguardar possono
le azioni e le parole. E come gli si oppose che il tacere
fu segno di animo avverso, egli aggiunse che, giusta
le norme del dritto, dovea darsegli tutta contraria interpretazione,
e ch’egli particolarmente parea meritarlo.
Che, del resto, la fedeltà di suddito non dovendo pregiudicare
alla fedeltà di cristiano, ei pensava che fosse da
ascoltarsi, innanzi tutto, la propria coscienza; astenendosi,
per altro, com’egli avea fatto, di turbare l’altrui.
Disse, in terzo luogo, delle sue lettere al vescovo di
Rochester, che chiedeva istantemente si recassero in
mezzo, come necessarie a condannarlo o ad assolverlo.
E poichè gli fu risposto che il vescovo le avea arse, ei ne
espose con semplicità il contenuto, giurando che nulla
era in esse di opposto agli statuti o al parlamento, come
gli si imputava.
“La quarta accusa, ei proseguì, si è che interrogato
nel mio carcere intorno alla nuova legge, io l’abbia appellata
spada due tagli; onde chi vi resiste perde il cor-
58
po, e chi vi si assoggetta perde l’anima. E come tale è
pur la risposta del vescovo di Rochester, si è conchiuso
che ambidue l’avessimo d’accordo preparata”.
“Quanto a me dir posso, che la mia espressione fu più
circoscritta, non avendo accennato che il mio personale
pericolo, sia approvando, sia non approvando la legge,
che quindi era per me spada a due tagli. Sembra strano
rigore l’applicarmi le pene da essa minacciate, poich’io
mai non l’ho violata nè in fatti, nè in parole. Se il modo
di ragionare del vescovo fu conforme al mio; esso non
prova già un accordo fra noi, ma solo una conformità
d’opinioni, generata dagli studj conformi. Può al re essersi
fatto credere il non vero; ma io accerto di non aver
con anima nata profferito accento contrario alla legge”.
Qui finiva la risposta del Moro; quando, al riferire del
suo pronipote, il tribunale suonò ripetutamente della parola
malizia; e al Rich fu ingiunto di render giurato ragguaglio
de’ suoi colloqui col prevenuto nella prigione.
Ciò che avendo egli fatto, il Moro così ripigliò la parola:
“Milordi, s’io mai avessi potuto dispregiare la religione
del giuramento, ciascun di voi sa bene che in questo
istante io non sarei ai piedi del vostro tribunale. Ora
se ciò, che voi o signor Rich giurando affermaste, è conforme
al vero, Iddio mi neghi per sempre di vederlo faccia
a faccia; scongiuro ch’io raccapriccerei a pronunciare,
ove non fossi ben sicuro della mia asserzione”.
E qui si fece a rendere esatto conto del suo discorso
col sollecitatore, indi seguitò: “Ah sig. Rich io sono assai
più afflitto del vostro spergiuro, che del pericolo
59
ch’io corro per esso”. E toccata, per necessità, la nessuna
riputazione dell’uomo, e quindi la nessuna confidenza
ch’ei poteva riporre in lui: “Come dunque o milordi,
aggiunse, vi parrà verisimile che in affare il più grave io
abbia voluto a lui manifestare tutto l’animo mio, aprirgli
intorno alla supremazia del re que’ segreti della coscienza
che dopo la promulgazione della legge ho creduto
dover tenere sì gelosamente custoditi? Che se pure io
avessi detto ciò che il signor Rich giura di avere da me
udito; non essendo la nostra che semplice conversazione,
in cui nulla di affermativo, nulla di rivoltoso da me
si frammischiava, potriano mai le mie parole chiamarsi
maliziosamente pronunciate? Ora dove non è malizia,
non è offesa. Nè mi è possibile il credere che tanti degni
vescovi, tanti dotti, virtuosi e ragguardevoli personaggi,
raccolti in parlamento per sancire la legge, abbian voluto
che si punisse di morte un uomo, in cui non si discoprisse
veruna specie di malizia, o a parlar più esattamente
veruna specie di malevolenza”.
Richiamata infine la memoria de’ beneficj ricevuti dal
re conchiuse: “Pel corso dei venti e più anni mi ha egli
trattato con bontà di gran lunga superiore al merito mio,
concedendomi, per estremo pegno del favor suo, verso il
termine di mia carriera quel tempo ch’io sospirava in
preparazione alla morte. Tanti benefici, io penso, basterebbero
soli a smentire l’imputazione, ond’io sono così
stranamente aggravato.”.
I giurati, intanto, si affrettarono a dichiarar Moro colpevole;
nè il cancelliere suo immediato successore fu
60
meno sollecito a pronunciarne la sentenza. Avvertillo il
Moro che a suoi tempi era d’uso costante ascoltar di
nuovo il prevenuto, se mai alcuna cosa avesse ad opporre.
Quindi il cancelliere gliene fece la domanda; ed egli,
al riferire di Roper, si espresse di questa forma.
“L’accusa datami, o milordi, si fonda sovra un atto
del parlamento direttamente contrario alle leggi di Dio e
della santa sua chiesa”. Indi entrato a favellare della distinzione
del temporal potere e dello spirituale, trovò
quell’atto insufficiente fra cristiani a dar fondamento ad
un’accusa contro un cristiano. E aggiunse, che come la
città di Londra far non poteva contro un atto del parlamento
tal legge che obbligasse tutto il regno, così un regno
particolare nulla potea sancir di contrario alla legge
della chiesa universale; che operavasi a violazione degli
antichi statuti, poichè la gran carta diceva espressamente
La chiesa d’Inghilterra sia libera, e i suoi diritti si conservino
illesi; che l’atto parlamentario era in contraddizione
col giuramento prestato da Enrico al prender che
fece la corona, e comune a tutti i principi cristiani.
Il cancelliere avendogli ripetuto l’argomento più volte
recato innanzi, che i vescovi, le università, i più dotti
personaggi aveano sottoscritto a quell’atto, di cui si parlava,
ed era strano che un sol uomo pensasse di opporre
l’opinion sua a tante autorità; fra l’altre cose il Moro
cosi replicò: “Io sono ben certo, che ove non ci teniamo
a soli prelati di questo regno, ma consultiam quelli di
tutta cristianità, non ne troveremo la quarta parte solamente,
che pensi, come a voi piacerebbe. Che se pren-
61
diam l’avviso di tanti, che or più non sono in terra, e parecchi
de’ quali hanno corona sicura di santità nel cielo,
troppo a dismisura vedrem crescere il numero di chi ha
meco le medesime opinioni. Però, o milord, io non credo
dover regolare la mia coscienza dietro all’opinione
del gran consiglio del regno, quand’essa è opposta a
quella di tutto il mondo cristiano”.
Il cancelliere finalmente, udito l’avviso del gran giudice,
per saper se l’accusa fosse abbastanza provata,
pronunciò contro il Moro sentenza di morte con tutte le
circostanze aggravanti, che in simili casi sono usitate.
Se non che, avuto riguardo all’alte dignità, onde il condannato
fu già rivestito, la pena venne poi commutata
nella decapitazione. La qual grazia del re fece dire al
Moro scherzando, che pregava Dio a voler preservare la
sua famiglia e gli amici suoi da tanta clemenza.
Essendogli stato offerto dai commissarj di ripigliar la
parola, ei rispose che nulla aveva ad aggiungere, se non
che, di quella guisa che Paolo, dopo aver consentito alla
morte di Stefano, si era pur seco ritrovato nel cielo; sperava
che i giudici suoi, che ora il condannavano sulla
terra, seco nondimeno fruirebbero un giorno di quel luogo
di felicità.
Ei fu quindi rimandato alla torre; nè chi vel condusse
potè frenare le lagrime. E il Moro lo consolava, dicendogli
che pregherebbe per lui, e starebbero poi insieme
ove non è mai pianto, ma gioja eterna.
Più dolorosa scena preparavasi intanto sotto gli occhi
stessi del pubblico. Perocchè la più amata figlia del
62
Moro, Margherita Roper l’attendeva al passaggio, temendo
non aver più altra occasione di rivederlo. Fattasi
quindi strada attraverso le guardie, giunse fino a lui, lo
strinse fra le sue braccia, lo coprì de’ suoi baci, gli prodigò
quante espressioni più tenere ha la figliale pietà.
Moro parve dolcemente commosso a questi atti, diede
alla figliuola la paterna benedizione, e le volse alcune
parole di conforto. Ma appena ei l’ebbe congedata, appena
fu ella da lui divisa, che in preda al suo dolore, e
incapace di moderarlo tornò addietro, si aprì di nuovo il
varco per mezzo ad una folla di spettatori lagrimosi, e si
gettò per alcuni istanti ancora fra le braccia del padre.
Scorse una settimana dalla pronunciazione dell’esecuzione
della sentenza; e il Moro tutta la passò in preghiere
e in opere di penitenza. In mezzo però all’istesso
religioso raccoglimento ei si lasciò sfuggire alcuni tratti
della sua ordinaria piacevolezza.
Venne a lui un cortigiano di testa leggiera, il quale, in
luogo di uniformarsi alla sua disposizione di spirito, e
secondare le sue gravi riflessioni, molto il sollecitò a
cangiar d’opinione. Stanco della sua importunità Moro
gli disse d’aver infatti cangiato. Questa parola fu
all’istante riportata al re, il quale commise al cortigiano
istesso di ordinare al Moro che si spiegasse. Il Moro allora,
disapprovando colui, che avesse occupato il monarca
d’una parola di semplice lepidezza: “Avea, disse,
intenzione di farmi radere pel giorno del mio supplizio;
ma ad un tratto, mentre voi mi parlavate, cangiai pensie-
63
ro, parendomi giusto che la mia barba seguisse la sorte
della mia testa.”
Furono conservate le ultime due lettere, che il Moro
scrisse col carbone, l’una ad un mercadante suo amico,
l’altra alla sua figlia Margherita. È questa dei 15 luglio
1532, il dì innanzi alla sua decapitazione; ei si direbbe
una specie di testamento di amore, che non può leggersi
ad occhi asciutti. Probabilmente fu, ad istanza del Moro
medesimo, prescelto l’indomani pel fatal colpo, che gli
fu dato in sulle nove del mattino. Tommaso Pope suo
amico era di bonissima ora venuto ad annunciarglielo,
onde potesse compiere la sua preparazione.
“Sig, Pope, gli disse il Moro, molto io vi ringrazio
della buona nuova che mi portaste. Sempre io fui riconoscentissimo
pe’ beneficj e per gli onori, onde il re mi
colmò; ma assai più il debbo essere per la sua risoluzione
di mettermi in luogo, ove avessi ogni agio di pensare
al mio fine. Ora di tutti i favori, il più grande a’ miei occhi
si è quello di prontamente liberarmi dalle pene di
questo mondo. Però considero uno de’ miei primi doveri
il supplicar Dio per lui e nel breve spazio che mi rimane
di questa vita, e nella vita novella, di cui son presso a
godere”.
Il re desidera, aggiunse il sig. Pope, che in sugli estremi,
voi non teniate lungo discorso. Ben faceste ad avvertirmene,
rispose il Moro, poichè appunto io disegnava
profferire alquante parole, che per altro non sarebbero
state di veruna offesa nè per la maestà sua, nè per altri.
Ad ogni modo io mi uniformerò ai voleri del monar-
64
ca. Piacciavi però, mio caro sig. Pope, ottenere da lui,
che mia figlia Margherita assista a’ miei funerali. Egli,
soggiunse Pope, già acconsente, che vi assistano e la
moglie vostra e tutta la famiglia, e gli amici. Oh di
quanta gratitudine io son compreso, esclamò allora il
Moro, per quest’ultimo favore, ch’egli acconsente alle
mie misere spoglie!
Congedandosi da lui non potea il signor Pope ritenere
le sue lagrime. Ah calmatevi, gli disse il Moro, chè ben
confido ci riuniremo nel cielo, ove perpetuo sarà per noi
il piacere della nostra amicizia.
Si vestì quindi coi più onorati panni che potè; e al
luogotenente della torre, che lo ammoniva non volesse
mettere sopra di sè cosa che arricchisse alcun uomo indegno
di tal dono, rispose: “Chi oggi deve rendermi il
più importante servigio non ne è già indegno. Se il mio
abito fosse d’oro gliel lascerei volentieri, pensando io
non diversamente da s. Cipriano che diede trenta nobilissime
monete al suo carnefice”.
Nuove riflessioni però gli fecero cangiar parere, onde
prese altre vesti; ma potendo ancora disporre di poche
somme, una ne mandò a chi dovea giustiziarlo.
All’ora segnata vennero uomini in arme alla sua prigione,
onde condurlo al supplizio. Egli avea lunga la
barba, pallido ed estenuato il volto, e andava con una
rossa croce nelle mani, levando spesso gli occhi verso
del cielo. Nè però in quel passo estremo e solenne gli
mancò del tutto il suo umor faceto. Perocchè montando
il patibolo e accorgendosi che cedeva: “Pregovi, disse al
65
luogotenente, fate ch’io giunga sopra con sicurezza, chè
quanto al discendere non vi sarà altra briga”. Ubbidiente
al comando di Enrico VIII ei si restrinse a domandare
agli spettatori che pregassero per lui, dicendo che moriva
nella fede cattolica e per amore di essa.
Indi postosi a ginocchio recitò un salmo con soavissima
devozione; dopo di che si alzò con molta serenità. E
il carnefice chiedendolo, che volesse perdonargli ciò
ch’era per fare contro di lui, Moro gli diè un bacio e gli
rispose: “Tu anzi sei per farmi quel maggior bene che
uomo possa. Ti acquieta dunque, e non temer di eseguire
l’officio tuo. Solo, poichè ho breve il collo, vedi che
il colpo sia diritto, onde non compromettere il tuo onore.”
E posando la testa sul ceppo pregò il giustiziere
d’aspettare che si fosse acconcia la barba, poi ch’essa,
disse, non è rea di tradimento.
Biasimò taluno questa gajezza a parer suo leggiera,
che il Moro dimostrò in occasione sì grave. Ma essa gli
era sì naturale, era sì caratteristica del suo spirito, che
trapelava, suo malgrado, anche nel momento che sentiva
approssimar la sua fine; massime che egli riguardava la
morte, come una felice liberazione, come la porta di un
glorioso trionfo.
Il suo capo rimase alcun tempo infitto in un’asta sul
ponte di Londra; insino a che la pietosa sua figliuola
Margherita pervenne a ricovrarlo. Dicesi che poi il serbasse
entro un’urna di piombo, onde averlo compagno
nell’ultimo asilo. Al corpo del suo genitore diedesi umile
sepoltura alla torre nella cappella di S. Pietro, proba-
66
bilmente presso le spoglie dell’amico Fisher, che al par
di lui si era preparata una tomba, ove il suo cenere non
riposò.
Narrasi che quando fu annunciata ad Enrico la fine
del Moro egli stava giuocando alle dame, e la giovane
regina a riguardarlo; e che gittati gli occhi sovra di lei:
voi, disse, ne siete la cagione; e ritiratosi dolorosamente
si abbandonò a cupa tristezza. Volendoci accontentar del
probabile noi penseremo che la regina fu approvatrice di
quell’indegna morte, dacchè allo sposo non abbisognava
maggior istigatrice che l’ira sua propria. Il Moro non
solo si era opposto al divorzio e al nuovo maritaggio del
re, ma più fortemente ancora alla riforma, cui Anna dichiarava
di proteggere. Ecco più motivi, perch’ella il
prendesse in avversione. Pur basta che confermasse Enrico
nella risoluzione di perderlo, perchè questi in un
primo istante di rimorso le facesse il rimprovero che
udimmo.
Non pur d’Inghilterra, ma da tutta Europa s’alzarono,
al fiero annunzio, lamenti e grida d’uomini ragguardevolissimi,
così cattolici come protestanti, contro di Enrico.
Il dottor Gark, rettore di Chelsea, e affezionatissimo
al Moro ne fu sì colpito, che risolvè di seguir l’esempio
dell’amico; e avendo com’egli ricusato di riconoscere la
supremazia del re nelle cose della chiesa, fu messo a
morte.
Scrive il Roper che l’imperadore Carlo V, fattosi improvvisamente
chiamare sir Tommaso Elliot, ambascia-
67
dore d’Inghilterra, che nulla sapeva del crudele atto del
signor suo, ei medesimo gliel narrò, aggiugnendo che
per la vita di sì degno e leal consigliere egli anzi avrebbe
data la più bella città de’ suoi dominj.
Il cardinal Polo, il quale benchè consanguineo di Enrico
fu astretto a cercar rifugio in Italia, rispondendo ad
un’apologia del re fatta scrivere dal dottor Sampson, paragona
la morte del Moro a quella di Socrate, dice
com’essa fu pianta da chi pur nol conoscea che di nome;
e che le lagrime de’ suoi occhi gl’impedivano di distinguere
i tratti della sua penna.
Ed Erasmo, anch’egli rammaricandosi, notò che gli
Egineti rispettarono la vita di Piatone; Filippo il Macedone
non incrudelì contro Diogene; che l’uccision di Cicerone
rese la memoria di Marcantonio per sempre
odiosa; e quella di Seneca è l’obbrobrio di Nerone.
Or non parrà inutile che diciamo d’alcuni tratti particolari
al carattere del Moro, su cui la rapidità della narrazione
non ci permise di fermarci. E primo ci si presenta
il suo attaccamento alla religione, che parve sin pendere
alla credulità ed all’entusiasmo. Se non che, ove
pongasi mente a’ tempi in cui visse, conosceremo che la
superstizione ebbe assai minore impero sovra di lui, che
sovra gran parte de’ suoi contemporanei. Molte austerità
ei praticò immutabilmente dall’adolescenza alla vecchiezza;
e la sua figlia Margherita ebbe in santa eredità
il paterno cilicio, che sola conosceva, e che era solita lavare
colle sue mani. La casa del Moro parve quasi tempio
di devota pietà; e di qualunque occhio questa si ri-
68
guardi, certo a lui ne venne quel lustro che sempre nasce
dalla regolarità e dalla costanza. Raffrontando l’Utopia
agli ultimi suoi scritti parve a taluno vedere qualche
contrasto fra le sue opinioni in tempi diversi. Di che si
recò a spiegazione l’umana debolezza e l’influenza di
certi dogmi. Ma chi sa che la vista delle procelle eccitate
dallo spirito di riforma non lo avesse fatto rifuggire
alle idee consacrate dal tempo, come a porto sicuro? La
qual cosa, malgrado un po’ di eccesso, non sarebbe stata
indegna del suo cuore, e può giustificarsi con illustri
esempi anche recenti.
Della festività del Moro ci sembra aver già detto abbastanza;
ed ove raccoglier si volessero i suoi detti arguti,
se ne avrebbe a comporre un libro. Se non che quel
nativo sapore, che sempre è in tal sorta di detti, par che
ne renda impossibile il passaggio in altro idioma. Noteremo
intanto con Erasmo, che mai il suo facile scherzo
degenerò in ischerno, o in amara ironia. Tutti sempre
sorrisero alle sue piacevolezze: solo egli pronunciandole
stava in contegno, il che mettendo talvolta dubbio in chi
le ascoltava, ne accresceva la lepidezza.
Altro insigne distintivo del carattere del Moro fu il
suo magnanimo disinteresse. E ben può esserci invece
d’ogn’altra prova che ne volessimo recare, il ricordar
che Enrico nella sua ira niun rimprovero potè fargli,
anzi neppur fingere ombra di sospetto, che a tal lode si
opponga.
Sembra che il Moro non meno per religione, che per
indole sua propria, fosse giunto a formarsi regole di
69
condotta così invariabili, che nè cupidigia, nè ambizione,
nè timor di calunnia mai potè rimoverlo di un passo
dalla via del dovere. Nella prospera e nella avversa fortuna
ei mostrò uguaglianza d’animo incomparabile. Potente
non impose silenzio a’ suoi accusatori, perseguitato
non seppe temerli. In un regno dispotico, ove l’opposizione
era ancor lungi dall’aprir il sentiero alle più alte
dignità, ei ne diede l’esempio quasi inudito contro il
monarca e i suoi ministri.
Giunto ai primi seggi, senza averli cercati o bramati,
non ne usò nè ad ingrandimento della propria fortuna,
nè di quella de’ suoi; e gli abbandonò senza dispiacere e
senza fasto, poichè vide non poterli più conservar con
onore. Ricchezze, libertà, tutti i beni, la vita stessa gli
parvero di niun pregio, se dovevano costargli il sagrificio
della propria coscienza.
Per sedic’anni che Roper suo genero visse con lui,
non si accorse che la collera o l’impazienza il sorprendesse
un istante. Una fanciulla educata co’ figli del
Moro confessava di aver talvolta commesso, a disegno,
qualche lieve fallo pel piacere d’esserne ripresa; tanto le
correzioni di quell’uomo eccellente erano piene di dolcezza
e d’incanto. Erasmo nota altresì, che l’amico suo
governava la famiglia con tanta grazia e amenità, che la
pace vi avea stabilito il suo regno. Obbligato ad aver
molti domestici, mai non sofferì che alcuno anneghitisse
nell’ozio, o si disonorasse co’ vizi.
Molto si andrebbe errati pensando che in qualche
tempo della sua vita la devozione il rendesse tristo o au-
70
stero. Sempre egli aprì il cuore alla dolce amicizia, alla
onesta allegria. Sempre gustò i piaceri, ma innocenti e
ragionevoli, degni di un filosofo e d’un cristiano.
Il pronipote suo ci lasciò scritto, come egli invitava di
rado i grandi, e facea molta festa ai poveri vicini; largheggiava
in limosine, e quando non era che semplice
avvocato mai nulla ricevea dai bisognosi, dalle vedove o
dagli orfani, a cui avesse prestata la sua difesa. Gli uomini
vani od ignoranti mai non ottennero da lui veruna
dimostrazione; ma i dotti l’ebbero a sostegno e ad amico:
e pochi ne fiorirono al suo tempo, che non vantassero
con lui almeno relazione di lettere.
Gli fu rimproverata qualche apparenza di singolarità;
ma il rimprovero, ove pure sia lontano da invidia, lungi
dal nuocere alla sua riputazione, appena getta qualche
lieve ombra sullo splendore di sue virtù.
Intorno alle proprie opere sempre egli parlò con somma
modestia. La su Utopia scritta latinamente e pubblicata
nel 1516, fu accolta con grande trasporto e recata in
tutte le lingue. Probabilissimo ch’ei la componesse prima
d’aver udito parlar di Lutero. Che s’egli non fosse
sopravvissuto all’opera sua, gli uomini l’avrebber forse
collocato fra quelli che bramarono e presagirono la riforma.
L’età e l’esperienza diedero altro andamento a
suoi pensieri. L’istoria di Riccardo terzo cominciata in
latino insieme ed in francese fino dall’anno 1513, mai
da lui non fu compita. Rimangono sue poesie non senza
estro; fra le quali si stimano particolarmente gli epigrammi,
genere di composizione più conforme all’indo-
71
le sua. Le sue lettere son dettate con eleganza, ma
d’un’indole troppo oratoria. Di tutte le sue opere quelle
che reggon meno alla critica sono i suoi trattati di controversia,
ove un cieco zelo troppo spesso disvia il suo
buon giudizio, sicchè dimentica, giusta l’infelice costume
di quel secolo, la decenza e i riguardi, che in ogni altro
argomento avrebbe osservati. Nelle sue dispute con
Lutero, in ispecie, ei quasi non distinguerebbesi dal suo
avversario; così ambidue prorompono quasi destrieri focosi
e senza freno. Indarno il Moro nella sua Apologia
cerca di scusare sè stesso coll’esempio d’altri scrittori
della sua età; poi che un uomo, qual egli, era anzi fatto
per dare l’esempio che per riceverlo.
Le opere inglesi del Moro furono pubblicate a Londra
nel 1557 per espresso volere della regina Maria. Divenute
assai rare, e quali tutte polemiche o divote, possono
appena trovar nel mondo qualche lettore. Tre edizioni si
hanno invece di tutte le opere latine, l’una di Basilea nel
1563, l’altra di Lovanio nel 1566, e l’altra di Francoforte
e Lipsia nel 1689. L’Utopia, siccome più letta
dell’altre, fu più volte stampata.
Ma onde por termine a ciò che ne resta a dire del
Moro aggiugneremo una parola sulla sua maniera di vivere.
Per quanto bene imbandita si trovasse la sua mensa,
egli mai non toccava che una sola vivanda, e questa
comunemente era un salato. In gioventù mai non gustò
vino, e anche inoltrato negli anni assai di rado ne bevve
o piuttosto ne delibò. Usava farsi leggere alcun libro
mentre mangiava, e come sempre alla lettura intromette-
72
va alcune osservazioni o discorsi, naturalmente se ne
formava la più aggradevole conversazione. Quanto al
vestir suo egli ne lasciava il pensiero ad uno dei famigliari,
che però chiamava il suo governatore.
Fu il Moro di picciola statura, ma di belle proporzioni.
Il color del volto era pallido, ma gli occhi lucenti
promettevan letizia e benevolenza. Sebbene amantissimo
della musica ebbe voce non armonica, ma chiara e
piacevole ad udirsi quand’egli parlava. Rimane un suo
ritratto di mano di Holbein.
Erasmo, che in varj tempi era vissuto in seno alla famiglia
dell’illustre amico, la chiama soggiorno delle
Muse, e la paragona alla scuola di Platone, salvo che in
essa più che in quella del greco sapiente era assiduo lo
studio della morale. Il Moro l’avvalorava di troppo nobili
esempi, e Margherita Roper, la prediletta sua figlia,
l’abbelliva colle sue grazie.
Quando il Moro rinunciò alla dignità di cancelliere
dispose de’ suoi poderi in questa guisa che, serbandosene
egli il godimento mentre viveva, fossero poi alla sua
morte divisi fra la moglie e i figliuoli. Ma due giorni appresso
cangiò tal disposizione a favore del suo genero
Roper e di Margherita, cui volle tosto possessori di
quella parte che loro avea assegnata pel futuro. Avvenne
quindi che ucciso il Moro, e tutti i suoi beni essendo invasi
dal fisco, solo una tal porzione fu preservata. La vedova
del grand’uomo cacciata dalla sua casa di Chelsea,
e priva d’ogni avere, solo ottenne una pensione per gli
alimenti, che non passava i venti sterlini. Giovanni
73
Moro e Margherita Roper furono imprigionati, ma alfin
riebbero, cessando o gli odj o i sospetti, la loro libertà.
Erasmo sopravvisse presso a poco un anno all’amico
suo. Ei terminò nel luglio del 1536 la sua lunga e laboriosa
carriera, tutta impiegata a combattere l’ignoranza o
la superstizione, e accelerare i progressi delle lettere e
della vera pietà. Impresa onorevole, ch’egli adempì con
mezzi dolci e gentili, mai non toccando le persone, ma
solo i vizj e le stolidezze del suo secolo; finchè agli assalti
della perfidia si vide astretto resistere con maggior
forza. S’alzò egli di buon’ora contro le minuziose pratiche
de’ falsi divoti, molto insistendo, per altro, ne’ doveri
della religione. Indarno ei volle pacificar la chiesa,
predicando ai luterani la sommissione, alla corte romana
la moderazione. Buoni erano i suoi desiderj, ma che poteano
a fronte dei partiti e delle passioni? Egli stesso,
malgrado tanta saggezza e bontà, non potè sfuggire
all’odio di quelli, a cui ogni riforma era sospetta, e fu
generalmente confuso coi partigiani delle nuove opinioni.
Così torto giudizio poco non influì su quello stretto
vincolo, che fu tra Erasmo ed il Moro. Ed è onorevole
per ambidue l’esser stati amicissimi dall’infanzia sino al
fine della vita, non solo malgrado, ma per la diversità
stessa delle loro opinioni.
74
AL GENTILISSIMO
M. GEROLAMO FAVA
Messer Jacopo vostro padre, mi è paruto un uomo
tanto ben composto ed ordinato, così nelle faccende del
mondo, come ne’ governi della famiglia, ch’io giudico
la casa vostra un’ottima repubblica. Poi s’io volessi entrare
nel lodare quanto egli abbia bene allevati tanti figliuoli
e figliuole, avrei preso troppo carico sopra le
mie spalle, perchè bisognerebbe ch’io mi facessi dai
buoni costumi, dalla realità, dalla religione, dalla fede,
dall’amore, dalla carità, e così venissi virtù per virtù
lodando quella, ed onorando quell’altra, talmente che
io non farei mai fine. Poi s’io avessi a far noto al mondo
la pace, non saprei dipingere miglior esempio, nè
maggior specchio, che mostrar cinque fratelli che voi
siate, cosa rara veramente. Però essendo tanto la virtù
del padre, la bontà della madre, e la realità di voi altri
figliuoli così nota come chiara; tacerò per non ne saper
dir quel bene, che meritate che sia detto, e verrò al particolar
mio. Perchè avendomi dato a questi dì passati
un libretto nelle mani di un’ottima repubblica, feci subito
disegno d’inviarlo a voi acciò facesse paragone con
la repubblica della casa vostra; e così essendo stampata
ve ne fo un dono, e ve la dedico. Ben è vero che mag-
75
giore è l’animo del Doni, che non son le forze per donare:
pure questo sarà un principio ed un saggio, non tanto
da conservar l’amicizia, quanto a ringraziarvi in
parte de’ beneficj ricevuti. Voi troverete in questa repubblica,
ch’io vi mando, ottimi costumi, ordini buoni, reggimenti
savj, ammaestramenti santi, governo sincero e
uomini reali; poi ben composte le città, gli officj, la giustizia
e la misericordia, che ne avrete sommo diletto, e
non picciol contento. Che più? leggendo il libretto intenderete
cose bellissime; e considerando questa lettera,
ci troverete scolpito il cuor mio tutto devoto alla
gentilezza vostra, ed alla gentil creanza di tutti, ai quali
parimenti mi raccomando.
Vostro affezionatissimo il Doni.
76
TOMMASO MORO
A PIETRO EGIDIO
SALUTE
Mi arrossisco di vergogna, Pietro carissimo, a mandarti
quasi un anno dopo questo libretto dell’isola Utopia,
il quale mi rendo certo che tu aspettavi in un mese
e mezzo: come quello, che sapevi molto bene, che non
aveva d’affaticarmi nel rinnovare la materia, neanco ad
ordinarla, avendola io con esso teco udita narrare da
Rafaello. Per il che non mi occorreva di affannarmi
nell’esprimerla con parlari esquisiti, quando non potè il
dir suo esser molto eloquente, come quello che fu
all’improvviso, e di uomo non così dotto nella lingua latina
come nella greca: e tanto più s’avvicinerebbe il
mio alla verità, quanto più alla trascurata semplicità di
quello si rassomigliasse. Confessoti o Pietro mio essermi
per una tale considerazione scemata assai la fatica,
perchè altrimenti avrebbe ricercato alquanto di tempo e
di studio da ingegno dico ancora non ignorante nè stupido.
Se però mi fosse stato richiesto che tal materia venisse
scritta con stile eloquente, senza scostarsi dal
vero, dirò veramente ch’io con niuna lunghezza di tempo
o di studio l’avrei potuto fare. Ora levati via tali
77
pensieri, nei quali faceva mestieri sudare d’avvantaggio,
tutto agevolmente potevasi scrivere, siccome era
stato udito. Benchè le mie altre imprese m’hanno lasciato
pochissimo tempo a fornire così leggiera cosa,
trattando, udendo, determinando e giudicando io assiduamente
le cause del foro, visitando or questo per benevolenza
o mio debito, or quello per eseguire le faccende
importanti. Mentre però dispenso fuori quasi tutto
il giorno, ed il rimanente per le mie cose famigliari,
non resta a me, cioè alle lettere, tempo alcuno. Perchè
ritornato che sono a casa, mi bisogna ragionare con la
moglie, gridare coi figliuoli, parlare coi ministri. Tutte
le quali cose io annovero in vero tra le più necessarie,
non volendo essere nella casa propria come forestieri.
Perchè dobbiamo esser benigni verso coloro, che o per
natura, o a caso, o per nostra elezione ci sono stati dati
compagni nel vivere, purchè con la troppa benignità
non si corrompa la disciplina, e i servi non diventino
padroni. Tra questi travagli passa il giorno, il mese e
l’anno. A qual tempo adunque scrivo? Non ho parlato
di quello che si consuma nel mangiare e nel dormire,
che occupa quasi la metà della vita. Io acquisto solamente
quel tempo, che mi rubo dal sonno e dal mangiare.
Ma perchè è poco ho proceduto lentamente; tuttavia
con esso ho fornito, e alfin ti mando, o Pietro mio,
l’Utopia, perchè la legga, e mi ammonisca, ove mi fossi
scordato qualche cosa. Quantunque non molto mi temo
di questo. Così valessi io per dottrina ed ingegno, come
non manco di memoria! Tuttavia non tanto in quella mi
78
fido, che non pensi potermi esser caduto qualche particella
di mente. Perchè Giovanni Clemente mio figliuolo,
che era presente, poichè non mai lo lascio scostare da
alcun parlamento utile, sperando che quest’erba, la
quale ha cominciato a verdeggiare, delle greche e latine
lettere, debba quando che sia produrre frutto copioso,
mi pose in gran dubbio. Perchè, a mio ricordare, Itlodeo
narrò che il ponte amaurotico sopra il fiume Anidro
è lungo 500 passi. Giovanni mio dice che è solamente
300. Pregoti che vi pensi, perchè se affermerai il medesimo
con lui, penserò di avermi scordato questo: ma se
non te lo ricordi, scriverò come ho detto, e studierò di
narrare il vero, e nei dubbj guarderommi a mio potere
da menzogna; studiando esser tenuto piuttosto uomo
dabbene che prudente. Potrai tuttavia intendere di questo
o alla presenza o con lettere dallo stesso Rafaello,
ed è necessario che lo intendi ancora per un altro dubbio
occorso, non so se per mia colpa o tua, ovvero di
Rafaello medesimo. Perchè non ci venne in mente di
chiedere da esso in qual mare era posta quest’isola, nè
in qual parte di quel mondo nuovo. Vorrei con alquanto
del mio ricomperare questa cognizione, perchè mi vergogno
non sapere in qual mare ella sia, dovendone ragionare
così a lungo, ed ancora perchè due de’ nostri
uomini, ma uno specialmente pio e teologo, brama di
andare in Utopia, non già per curiosità di veder cose
nuove, ma per aumentare la cristiana religione, ivi cominciata.
Ed ha disposto di farsi creare dal pontefice
vescovo di Utopia, giudicando che sia fruttuoso il ricer-
79
care tale officio, non mirando all’onore nè al guadagno,
ma alla pietà. Pregoti adunque, o Pietro, che alla presenza
o con lettere vogli tanto intendere circa quest’isola
da Itlodeo, che non vi sia alcuna falsità, nè vi manchi
verità alcuna. E per mio avviso sarebbe comodo mostrargli
questo libro, quando che niuno potrà meglio
correggervi gli errori, e con più acconcio lo farà, avendo
in mano questo mio scritto. Potrai ancora intendere
quando gli piaccia ch’io mandi in pubblico quest’opera.
Perchè s’egli avesse disposto di scrivere le sue fatiche,
forse avrà a male ch’io le scriva, ed io altresì mi
rimarrò di preoccupargli questo nuovo fiore di pubblicare
la repubbica Utopiense: quantunque non ho determinato
ancora s’io voglia pubblicarla. Perchè sono tanto
varj i gusti degli uomini, tanto difficili gli ingegni,
tanto ingrati gli animi, e sconci i giudizj, che meglio
riesce appo loro chi si dà buon tempo, che chi si affligge
a comporre qualche opera, che possa giovare o dilettare.
Molti non hanno lettere, e molti le sprezzano. Chi è
barbaro giudica duro lo stile; chi non è barbaro, quei
che si tengono savj, sprezzano il parlare non copioso di
parole antiche e già invecchiate. Ad alcuni piacciono
solamente le cose antiche, altri commendano solamente
le loro proprie. Alcuni non si dilettano di motti: altri
senza giudizio alcuno di niente si compiacciono, alcuni
per l’istabile ingegno non sanno fermare il giudizio. Altri,
sedendo nelle taverne, tra il vino giudicano degli ingegni,
dannando ciò che loro spiace, quantunque non
abbiano eglino pelo alcuno di uomo dabbene, per il
80
quale li possi pigliare. Sono appresso tanto sconoscenti,
che quantunque loro piacciano sommamente le opere,
tuttavolta odiano l’autore, come usano di fare gl’inumani
forastieri, i quali saziati largamente nel convito, si
partono senza render grazia alcuna all’albergatore. Or
fa un convito a tue spese ad uomini di così dilicato e vario
gusto, e d’animo così ricordevole e grato. Tuttavia,
o Pietro mio, fa quanto ho detto con Itlodeo, e potremo
di nuovo consultare sopra di questo. E poichè già ho
fornito la fatica di scriverlo, resta che non sia questo
contra la sua volontà. Circa il darlo in pubblico, seguirò
il consiglio degli amici, e specialmente il tuo. Sta
sano, o dolcissimo Pietro Egidio con la ottima moglie
tua, ed amami come sei solito, poichè io amo te più che
mai.
81
TAVOLA
DI ALCUNE COSE PRINCIPALI
CHE NELL’OPERA SI CONTENGONO
LIBRO PRIMO.
Descrizione del viaggio
Terre e città, poste sotto la linea equinoziale
Nuove vele di navi, e nuovi modi
Come venne in uso la calamita per navigare in quei
paesi
De’ mostri ritrovati in quei luoghi
In quel che si occupano i principi
Discorso sopra le leggi contro ai ladri
Come punisce il furto la legge Mosaica
Qual punizione davano i Romani al ladro
Altre pene, ed altri modi di condannare chi ruba
Segni che portano i servi
Varj discorsi sopra il far guerra, ed altri consigli
Legge dei Macarensi circa l’aver gran tesoro
Legge di Platone
82
LIBRO SECONDO.
Descrizione dell’isola d’Utopia
Qual era il nome antico dell’isola d’Utopia
Quante città sono in quest’isola
Di molte famiglie nuove, e lor governi
Nuovi modi a far le ricolte dei grani
Delle città, e specialmente di Amauroto
Del sito, e del fiume della città
Dei borghi, e degli orti della città
Dei magistrati della città
Come si elegge il magistrato
Degli artefici della città
Ogni famiglia fa le sue vestimenta da se
I giuochi che si usano
Ogni·sorta di gente lavora
Del commercio tra i cittadini
Luoghi per gl’infermi
Pellegrinaggi, con molte belle ordinazioni
Dei servi
Modi, reggimenti e governi
Della guerra, ed altre bellissime ordinazioni
Della religione, e di molte adorazioni secondo la fede
loro
Note
Fine della tavola.
83
DEL PARLAMENTO
DI
RAFAELLO ITLODEO
DELLO STATO
DI UN’OTTIMA REPUBBLICA
SCRITTO
DA TOMMASO MORO
84
LIBRO PRIMO
GIOVANNI CLEMENTI, ITLODEO,
TOMMASO MORO, PIETRO EGIDIO.
AVENDO Enrico VIII, invittissimo re d’Inghilterra, ed
ornatissimo d’ogni virtù che si ricerchi in principe egregio,
certa controversia con Carlo, serenissimo principe
di Castella(1), mi mandò ambasciatore in Fiandra in compagnia
di Cutberto Tunstallo, creato da esso re poco
avanti tesoriero con comune allegrezza di tutti: delle cui
lodi non ragionerò; non già che io tema che l’amicizia,
la quale tengo con esso renda meno fedele il mio testimonio
di lui; ma perchè la sua virtù e dottrina supera
ogni mio sforzo di poterla magnificare, ed è tanto nota e
illustre, che il mio volerla far più chiara, sarebbe con
picciola luce far lume al sole. Ci vennero contra a Brugi
(così era ordinato) quei, che trattavano li bisogni del
principe, uomini egregi; ed era di quest’ambasceria capo
il prefetto di Brugi, uomo magnifico, avendo seco quel
veridico Giorgio Temiscio preposto Casseletano, non
solo per arte, ma eziandio per natura eloquente; oltre
che è nelle leggi peritissimo, e per lungo uso artefice
esperto a trattare quest’imprese. Avendo una e due fiate
parlato insieme, nè essendo d’accordo in alcune cose,
essi andarono a Brusselles per intendere la mente del
loro principe. Io, come portavano i casi miei, andai in
85
Anversa, ove fui visitato da molti, e spesso da Pietro
Egidio, anversano, e tra suoi nobilissimo, giovane non
meno dotto che costumato, e verso gli amici tanto pronto
con amore, fede e sincero affetto, che a fatica troverei
uno che lo ragguagliasse nell’essere in ogni atto d’amicizia
singolare. Egli è di rara modestia senza finzione alcuna,
e di singolare semplicità. Il suo parlare è tanto piacevole
e senz’altrui offendere giocondo, che il desiderio
mio di rivedere la patria, la moglie ed i figliuoli miei, i
quali già più di quattro mesi non avea veduto, meno mi
affliggeva, godendo la sua dolce conversazione e gratissimo
parlamento. Essendo io un giorno a messa nella
magnifica chiesa di santa Maria, molto dal popolo frequentata,
e già stando per ritornarmi all’albergo, io veggo
a caso Pietro ragionare con un forestiero che già cominciava
ad invecchiare, con faccia adusta, lunga barba
ed il mantello che gli pendeva dalla spalla, come colui
che di ciò poca cura si pigliava: e nel volto e nell’abito
lo giudicai un nocchiero. Pietro, vedutomi, venne a salutarmi,
e, trattomi da parte, mi disse: Vedi tu costui? (e
mostrommi quello col quale l’avea veduto parlare) già
mi affrettava di condurlo a te. Egli, diss’io, mi sarebbe
stato per tua causa gratissimo. Anzi, rispose Pietro,
l’avresti avuto caro per se stesso, perchè non vive ora
uomo alcuno, che tanta storia di uomini e paesi non conosciuti
ti possa narrare, del che so che sei sommamente
bramoso. Risposi io, non mi ha ingannato il giudizio,
perchè nel primo aspetto mi parve un nocchiero. Tu pigli
errore, disse Pietro; perciocchè egli ha navigato non
86
già come Palinuro, ma come Ulisse o Platone. Costui si
chiama Rafaello e per cognome Itlodeo(2), non ignorante
della lingua latina, ma della greca peritissimo, in cui
egli s’è più esercitato, perchè datosi tutto alla filosofia,
nella quale però non ha letto in latino cosa di momento,
se non alcuna di Seneca e di Cicerone. Costui è di Portogallo,
e lasciato a’ suoi fratelli il patrimonio, per desio
di veder del mondo, si accostò ad Americo Vespucio, e
nelle tre ultime di quelle quattro sue navigazioni tanto
famose gli fu di continuo compagno; se non che
nell’ultima non ritornò con lui. Anzi quasi con violenza
da esso ottenne di essere tra quei ventiquattro, che nel
fine del navigare si lasciavano nel Castello(3). Così fu lasciato
per fargli piacere, essendo egli più curioso di peregrinare,
che di fabbricarsi un sepolcro; ed è solito di
dire: “Viene coperto dal cielo chi non ha sepoltura(4): e
da ogni luogo è tanta via al cielo come dall’altro”. Il
qual discorso gli sarebbe costato caro, se Dio per sua
benignità non lo avesse ajutato. Partito Vespucio, egli
andò con cinque castellani a veder molti paesi, e con
buona sorte pervenne a Taprobana(5), ove trovate le navi
de’ Portogallesi, tornò contra ogni suo sperare nella patria.
Udito questo, gli rendei grazie della sua umanità,
che si avesse pigliato cura di farmi ragionare con uomo,
il cui parlamento sapeva essermi gratissimo: e salutato
Rafaello, dopo quelle comuni parole d’amendue, che
con forastieri si sogliono usare nel primo incontrarsi,
andammo alla casa mia. E sedendo nell’orto sopra uno
scranno di cespuglio, egli ci narrò come partito Vespu-
87
cio, esso e i compagni lasciati nel Castello cominciarono
con benignità a praticare con le genti del paese, e
indi a poco tempo trovarsi tra loro famigliarmente; per
esser giunti ad un principe di quella regione, il nome del
quale non si ricordava, il quale benignamente provvide
a lui ed ai cinque compagni la spesa per lo viaggio, con
una fedelissima guida, con zattere per acqua e in carro
per terra, da cui erano condotti ad altri principi con la
diligente raccomandazione di questo. Mi narrava egli di
aver vedute molte terre, città e repubbliche bene ordinate.
E che sotto la linea equinoziale, d’amendue le parti,
quanto è largo il cerchio del sole, erano gran solitudini
dal continuo caldo arsicciate e squallide, abitate da fiere
e da serpi, ovvero da uomini poco men che le bestie feroci
e nocivi. Ma che passando assai più avanti, ogni
cosa vi si trova domestica. L’aria meno aspra, il terreno
con più grata verdura, e gli animali più benigni. Finalmente
si scoprirono popoli, città e terre che fanno mercato
tra loro, e con paesi lontani e vicini. Indi egli potè
di qua e di là andare a vedere molti paesi, perchè niuna
nave si apparecchiava a viaggio, nella quale esso ed i
compagni non fossero benignamente accettati. Le navi
da lui vedute nelle prime regioni aveano la sentina piana,
le vele di papiro o di vimine, ed altrove di cuojo.
Trovarono poi navi con la sentina acuta e le vele di canape:
nel rimanente del tutto alle nostre simili, ed i nocchieri
esperti del mare e dell’aria. E dice che fece cosa
gratissima a quelli mostrando loro l’uso della calamita,
il quale non sapevano ancora. Laonde poco navigavano
88
nel verno. Ed ora, fidandosi di quella pietra, navigano
ancor nel verno tenendosi sicuri; quantunque potrebbe
tal sicurezza per l’imprudenza causare loro molti mali.
Sarebbe lungo narrare particolarmente ogni cosa da lui
veduta in qualunque luogo; ma forse ne ragionerò altrove:
specialmente di quelle cose, la cui cognizione può
giovare, come gli ordini di ben vivere da lui considerati
nelle repubbliche; perchè noi di queste cose a preferenza
l’interrogavamo, delle quali esso volentieri ragionava,
tacendo de’ vari mostri tanto frequenti che non sono tenuti
per cose nuove. Trovavansi quasi in ogni luogo
scille, arpìe rapaci e lestrigoni, che mangiano carne
umana. Molti nuovi popoli malamente in alcune cose
ordinati, ed ancora altri esempi de’ buoni istituti, con i
quali si potrebbono correggere, questi furono da lui notati,
dei quali altrove parleremo. Ora ho determinato di
narrare solamente quanto egli disse dei costumi ed ordini
degli Utopiensi; premettendo un parlare, mediante il
quale perveniamo a ragionare di questa repubblica.
Avendo Rafaello prudentissimamente narrato molti errori
qua e là veduti, e molti buoni istituti così appo noi
come appo loro ordinati, ed avendo in memoria la forma
del vivere di quei popoli, non meno che se avesse passato
tutta la sua vita in ogni terra ove si era trovato; Pietro
maravigliandosi di lui disse: Io stupisco o Rafaello che
non ti accosti a qualche re, al quale veramente saresti
carissimo; quando che con tale dottrina e perizia dei
luoghi e degli uomini non solo potresti dargli diletto, ma
eziandio ammaestrarlo con esempi, e con consigli aju-
89
tarlo; e parimente provvedere a casi tuoi ed al comodo
de’ tuoi parenti ed amici. Risposegli: non mi piglio molta
cura dei miei, verso i quali parmi di aver già fatto il
debito mio, avendo nella mia gioventù, e trovandomi
sano, distribuito tra amici e parenti quei beni, che gli altri
nella vecchiaja e vicini a morte mal volentieri lasciano;
e penso che debbano starsi contenti di questa mia
benignità, senza aspettare che pel loro causa io mi faccia
servo dei re. Io, disse Pietro, non chiamo questa servitù,
ma giudico esser via acconcia non solamente di giovare
agli altri in pubblico e privatamente, ma eziandio a fare
lo stato tuo più felice. Come lo farei, disse Rafaello, più
felice con quella via dalla quale tanto l’animo mio abborrisce?
Ora io vivo a mia voglia, il che per mio avviso
avviene a pochi cortigiani. Assai sono quelli che bramano
l’amicizia di uomini potenti; laonde fia poco danno
se questi mancheranno di me, o d’un altro a me simile.
Allora, diss’io, è noto, o Rafaello, che tu non brami ricchezze
nè potenza, ed onori più un uomo del tuo parere,
che ogni re o principe. Ma farai impresa degna di te, e di
quest’animo generoso e veramente filosofo, se con qualche
tuo particolare disconcio accomoderai questo tuo ingegno
ed industria a giovare al pubblico: il che non puoi
fare con maggior frutto, che essendo consigliere di qualche
principe, persuadendolo ad opere giuste ed oneste,
come certo mi credo che farai. Perciocchè un fiume di
tutti i beni e mali deriva dal principe, come da una fonte
nel popolo. E in te è tanta dottrina, che senza l’esperienza
di cose grandi, e tanta perizia di molte cose, che sen-
90
za dottrina potresti essere ad ogni re egregio consigliere.
Ti pigli errore in due modi, o Moro mio, rispose Rafaello,
prima in me, e poi nella cosa istessa: perchè non è in
me la facoltà che mi assegni, e posto che vi fosse, io turbando
la mia quiete, non gioverei punto alla repubblica.
Primieramente i principi si occupano piuttosto negli studi
della guerra, della quale io sono inesperto, che in arti
di pace; e più studiano ad acquistare nuovi regni, che a
ben governare gli acquistati. Oltre di questo niuno de’
consiglieri dei re è tanto savio che non abbia bisogno, o
tanto si tiene savio, che non condescenda a confermare
l’altrui consiglio, come che sia sconvenevole; e non
vada a verso a coloro, che veggono essere più grati al
principe. Siamo tali per natura che ognuno si compiace
de’ suoi trovamenti. Così piaciono al corvo i suoi polli
ed alla scimia i propri figliuoli. Se alcuno in quella compagnia
di invidiosi, e che prepongono le proprie cose
alle altrui, narrerà qualche cosa letta da lui, che sia stata
fatta per altri tempi o veduta in altri luoghi; quei che
odono si pensano che ogni loro reputazione di sapienza
sia giudicata vana, ed essi per pazzi tenuti, non sapendo
che riprendere negli altrui trovamenti. E mancando loro
ogni via, ricorrono al dire: Tali cose piacquero ai nostri
maggiori, la cui prudenza piacesse a Dio che potessimo
ragguagliare: e, come avessero al tutto vinto, si acchetano.
Quasi fosse uno strano pericolo il ritrovare alcuno
più prudente dei nostri maggiori; i cui buoni consigli lasciamo
però da parte, e trovato qualche miglior consiglio
di subito lo teniamo strettamente. Ed io sovente mi
91
sono abbattuto altrove, ed una fiata in Inghilterra in questi
superbi, sciocchi e difficili giudizj. Sei stato, diss’io,
appo noi? Vi fui, rispose Rafaello, non molto dopo quella
misera sconfitta, quando la guerra civile degli Inglesi
occidentali contro il re fu con loro miserabil strage finita.
In quel tempo molto ebbi da render grazie a Giovanni
Mortono, arcivescovo cantuariense e cardinale, e
dell’Inghilterra in quel tempo cancelliere; uomo, o Pietro
mio, (non dico a Moro che lo conobbe) non meno
per sua prudenza venerabile, che per virtù. Era egli di
statura mediocre, e robusto nella molta età; la faccia
piuttosto da esser riverita che temuta; nel parlare affabile
ma con gravità. Dilettavasi di parlare con qualche
asprezza ai supplicanti, senza però offender quelli. Cercava
di spiare che ingegno, che ardire avesse ciascuno, e
trovandovi la virtù alla sua simigliante, se ne serviva
nelle imprese. Era nel parlare elegante ed efficace: perito
nelle leggi civili, di mirabile ingegno e prodigiosa
memoria. A tanta altezza lo condusse l’egregia natura
col suo esercitarsi nel parlare e nel bene operare. Parevami
che il re molto credesse a suoi consigli, e si fermasse
in lui la repubblica come in quello, che dalla sua
gioventù fu dalla scuola spinto nella corte; ed a sua età
avea praticato in alte imprese, e con varii travagli di fortuna
era stato continuamente conquassato; ed avea imparato
la prudenza delle cose tra grandi pericoli, la quale
così appresa non facilmente si perde. Trovandomi alla
sua tavola, un laico perito delle vostre leggi, presa non
so quale occasione, cominciò a commendare quella rigi-
92
da giustizia contra i ladri, la quale ivi allora esercitavasi,
e che tal fiata ne erano stati appesi venti ad una forca:
laonde si maravigliava dove avveniva che si trovassero
tanti ladri, quando che così pochi scampavano dal supplicio.
Allora io, avendo ardire, alla presenza del cardinale
gli risposi: non ti maravigliare di questo; perciocchè
tal supplicio è fuori di giustizia, nè giova al pubblico,
essendo troppo atroce a punire i furti, nè bastante a
raffrenarli. Certamente il semplice furto non è tanto peccato
che si debba con morte punire. Nè alcuna pena, per
grande ch’ella sia, può raffrenare dai latrocinj quei che
non hanno imparato arte alcuna di acquistarsi il vivere.
In questo non voi soli, ma buona parte del mondo imita i
cattivi precettori, i quali battono più volentieri gli scolari,
che insegnare a quelli. Si determinano contra i ladri
gravi supplicj, quando piuttosto era da provvedere che
avessero onde guadagnarsi il vivere, perchè non venissero
a così strana necessità di rubare, e poi perdervi la
vita. È loro provvisto copiosamente, rispose colui: sonovi
le arti meccaniche e l’agricoltura; con queste si potrebbono
provvedere, quando non volessero spontaneamente
esser cattivi. Non vale questa ragione, diss’io. Taciamo
primieramente di coloro che dalle guerre esterne
o civili tornano a casa troncati dei membri, come poco
fa avvenne appo voi dalla guerra cornubiense, e non già
gran tempo dalla francese, i quali per la repubblica o per
difendere il re hanno perduto i membri; questi non possono
per la debolezza esercitare le solite arti, nè per
l’età impararne d’altre: taciamo dico di questi, quando
93
le guerre succedono l’una all’altra. Consideriamo quelle
cose che ogni dì avvengono. Tanto è il numero dei nobili,
i quali come api inutili, stanno in ozio, e radono fin
sul vivo i loro lavoratori per accrescere le proprie entrate.
Perchè non sanno questi dissipatori altra via di acquistare,
e si menano dietro un gregge di servitori che non
hanno imparato arte alcuna. Questi, morto il padrone,
ovvero infermandosi, vengono cacciati di casa; perchè li
nodriscono più volentieri oziosi che infermi: e spesse
volte l’erede del morto non può nodrire tanta famiglia
così di subito; laonde essi sono dalla fame assaliti fieramente,
se non sono a rubare valorosi. E che altro possono
fare? Quando che se vanno alquanto tempo errando,
consumano le vesti e infermano; laonde essendo poi
squallidi per l’infermità e vestiti di grossi panni, non si
degnano i nobili di riceverli, e i contadini temono di accettarli,
sapendo che l’uomo nodrito nell’ozio in delizie,
ed avvezzo di andare con la spada e fiero viso sprezzando
la vicinanza, non è atto con la zappa e la marra di
guadagnarsi il parco vivere e servire ad un povero fedelmente.
Rispose colui: dobbiamo noi mantenere simili
uomini, che sono di più generoso spirito che gli artefici
e i contadini. Questi sono i nervi dell’esercito. Con la
stessa ragione, diss’io, manterremo i ladri, de’ quali non
mancherete, sin che avrete tali uomini. Sono gli assassini
buoni soldati, e i soldati gagliardi assassini; tanto
queste arti si rassomigliano insieme. Questo vizio però,
è quasi comune a tutte le nazioni. In Francia è una peggiore
pestilenza: tutta la patria è piena di soldati stipen-
94
diarj quando è pace, se però quella si può chiamar pace,
con quest’istessa persuasione, che sia bene avere uomini
esercitati alla guerra, la quale si debba quasi cercare, acciocchè
(come dice Salustio) la mano e l’animo non comincin
per ozio ad intiepidirsi. Ma quanto sia pernicioso
nodrire queste bestie, la Francia con suo danno se ne è
avveduta; e gli esempi de’ Romani, Cartaginesi e Soriani
lo manifestano; quando che tali uomini non solo rovinarono
l’imperio di quelli, ma le città ancora ed i campi.
Mostrasi ancora che questo non vi sia necessario, chè i
soldati francesi dalla puerizia nelle armi esercitati sono
stati vinti dal vostro esercito raccolto allora: non dirò
più, per non esser tenuto assentatore. Quei vostri artefici
e contadini non sogliono temere di questi spadacini, i
quali tenuti deliziosamente diventano di animo vile ed
effemminato. Finalmente non mi pare che giovi questo
per stare apparecchiati alla guerra, la quale non avete se
non quando vi piace. Avvi poi un’altra necessità di rubare,
a voi particolare. Quale è questa? disse il cardinale;
ed io risposi: le vostre pecore, le quali per addietro furono
tanto mansuete e parche nel mangiare, ed ora sono
tanto feroci e devoratrici, che consumano gli uomini, i
campi, le case e le città. Perchè ove nel regno nasce lana
più sottile e di maggior prezzo, ivi i nobili ed alquanti
abati santi uomini, non contenti delle entrate annuali che
sogliono pigliare dei loro larghi poderi, nè bastando loro
di vivere delicatamente, senza giovare alla repubblica,
anzi noiandola, rovinano le case, abbattono le terre per
lasciare alle pecore più larghi paschi. Come se occupas-
95
sero poco terreno le selve e i vivai, quei buoni uomini
fanno dei luoghi abitati e coltivati un deserto(6). Così,
perchè un insaziabile divoratore rinchiuda infiniti campi,
sono cacciati i lavoratori, o con inganni privati dei
loro beni, o con ingiurie continue astretti a venderli.
Così pur sono i miseri forzati a partirsi, maschi e femmine,
mogli e mariti, orfani e vedove, padri con i piccioli
figliuoli, e famiglia piuttosto numerosa che ricca.
Si partono, dico, dai soliti luoghi senz’aver dove ridursi;
le povere masserizie sono vendute a vil prezzo: il quale
poichè hanno in breve tempo consumato errando qua e
là, che altro possono fare che rubare ed essere appiccati,
vedete voi con qual giustizia? ovvero mendicare; Benchè
allora sono imprigionati come poltroni che non vogliono
lavorare; e quantunque essi più che volentieri lavorerebbero,
essendo condotti al lavoro. Ma non lavorandosi
il terreno, che è l’arte loro, altro non sanno che
si fare. Quando che un pecoraro ed un bifolco bastano a
coltivare quel terreno, il quale prima aveva bisogno di
molte mani. Perciò la vittovaglia in molti luoghi è cara.
Il prezzo delle lane tanto è cresciuto, che i poveri, usati
di fare i panni appo voi, non ne possono comperare, e
perciò molti stanno in ozio. Ed aumentati i pascoli, una
pestilenza, per divina vendetta, ha ucciso infinite pecore,
la quale più giustamente doveva uccidere gli avari
padroni; tuttavia quantunque cresca il numero delle pecore,
non iscema il prezzo delle lane. Perchè sono in
mano di pochi e ricchi, i quali le vendono quando loro
piace, perchè non sono astretti di venderle. Sono cari
96
eziandio gli altri animali, perchè rovinate le ville non
v’è più chi abbia cura di allevarne. E i ricchi non così
pigliano cura di allevare altri animali, come le pecore;
anzi comperandoli altrove magri, poichè sono ingrassati
nei loro pascoli, li rivendono a gran prezzo. Questo incomodo
non ancora si comprende al tutto. Ma poichè
saranno esausti quei luoghi ove si comprano, quivi ne
patirete estrema carestia; dalla quale specialmente era libera
quest’isola. Causa questa penuria, che i padri di famiglia
mandano via di casa quanti possono: e dove? Se
non a mendicare, ovvero a rubare, al che sono piuttosto
persuasi gli animi generosi. A questa misera povertà si
aggiunge il vivere lussurioso e dilicato, perchè i famigliari
dei nobili, gli artigiani e i contadini vestono troppo
sontuosamente, ed usano cibi troppo delicati. Nei postriboli,
nelle taverne, nei vari giuochi impoveriscono,
laonde poi sono astretti di andar a rubare. Cacciate queste
perniciose pesti, ordinate che rifacciano le ville e le
terre coloro che le hanno rovinate, o che le lascino da altri
riedificare. Raffrenate le compre di questi nobili, rimettete
in assetto l’agricoltura ed il lavorio di lana; acciocché
si possano occupare questi ladri per povertà, e i
mendichi, ovvero gli oziosi ministri. Se non provvedete
a questi mali, in vano si commenda la severa giustizia
contra i ladri, piuttosto bella, che onesta ed utile. Perchè
allevarli pessimamente in corrotti costumi, e volerli punire
quando sono cresciuti nel vizio, altro non è che farli
ladri per appiccarli. Erasi quel giureconsulto apprestato
di usare il costume de’ disputanti, i quali meglio replica-
97
no le cose dette, che rispondono; e disse: Tu, essendo
qui forestiero, ottimamente hai parlato, come io ti mostrerò,
replicando le tue ragioni, ed a quelle rispondendo.
Cominciando dal primo, parmi che quattro cose....
Taci, gli disse il cardinale, perchè vuoi esser troppo lungo
nel rispondere: ma ti riservo per il seguente giorno,
se non occorre altro impedimento. E volto a me disse:
vorrei, o Rafaello, da te sapere, con qual fondamento
giudichi che non si punisca il furto con morte, e qual
pena tu assegneresti ai ladri, che fosse alla repubblica
più utile, quando che non tu ancora pensi che si debba
tollerare il furto? E se la morte ora non ispaventa i ladri;
se fossero della vita sicuri, qual forza li raffrenerebbe?
Parmi, rispos’io, iniquità torre la vita all’uomo, per aver
egli tolto i danari; perchè niun bene umano si può con la
vita ragguagliare. Se diremo che si appendono per aver
violato la giustizia e le leggi; non chiameremo noi quella
somma giustizia, una somma ingiuria? Nè si commendano
le leggi tanto imperiose, che per minimo errore
stringano la spada, nè tanto stoiche che giudichino i
peccati essere eguali, come uccidere l’uomo e rubare
danari. Dio vietò l’uccisione, e noi così prontamente uccidiamo
per picciolo furto? Se dirà alcuno l’omicidio esser
vietato, quando non è dalla legge umana ordinato,
potrà questa legge ancora ordinare che si adulteri o spergiuri.
Avendo Iddio ordinato che l’uomo non uccida altri,
neanco se stesso; se possono gli uomini ordinare che
si uccida alcuno senza la divina autorità, valerà il divino
precetto quanto le umane leggi consentono: ed ordine-
98
ranno gli uomini in ogni cosa in che guisa si hanno da
osservare i divini precetti. La legge mosaica, benchè
aspra, punì il furto con danari, non con morte. Non pensiamo
già che Dio nella nuova legge di clemenza ci abbia
concesso maggior licenza di crudeltà. Cosi volendo
noi punire egualmente i ladri e i micidiali, facciamo i ladri
micidiali, i quali aspettando l’istesso supplicio, uccidono
spesse fiate colui che rubano, per assicurarsi che
sia il furto nascosto. Circa la punizione che sia convenevole
di dare ai ladri, niuna è più comoda di quella, che
tanto piacque ai Romani, nel maneggio della repubblica
peritissimi. Essi dannavano a cavare metalli e pietre coloro
che erano convinti di gravi colpe. Quantunque io
più commendi l’istituto che vidi pellegrinando io Persia
tra i Polileriti, popoli ottimamente istituiti, e liberi
nell’uso della loro legge, pagando solamente un tributo
al re di Persia. Ma perchè sono dal mare lontani e da
monti circondati, stanno contenti dei frutti che nascono
nei loro campi assai ben fertili, laonde vanno di raro ad
altri popoli, e pochi vanno a loro. E per costume antico
non istudiano di ampliare i loro confini, i quai sono con
i monti da esterna ingiuria difesi. Cosi vivono felici, e
pagando il loro tributo, sono da ogn’altra gravezza esenti,
e perciò solamente dai vicini popoli conosciuti. Chi è
convinto di furto, lo rende al padrone di quello non al
principe, come si fa altrove. Parendo loro che tanta ragione
abbia il principe nella cosa rubata, quanta vi ha il
ladro. Non trovandosi il furto pagasi de’ beni del ladro,
ed assegnato il rimanente alla moglie ed ai figliuoli di
99
lui, egli è dannato a lavorare: e se non ha commesso
qualche gran furto, non è imprigionato, nè porta i ceppi,
ma libero e sciolto si esercita nelle opere pubbliche.
Quei che non vogliono sottostare a questa pena, sono
piuttosto battuti che imprigionati; quelli che si affaticano
gagliardamente non patiscono ingiuria alcuna. La
notte chiamati per nome, vengono rinchiusi in certe camere,
nè altro incomodo sostengono che l’affaticarsi di
continuo. Sono cibati comodamente del pubblico. Raccogliesi
in alcun luogo il loro vivere per elemosiua, la
quale per la pietà di quel popolo basta d’avvantaggio a
nodrirli. Altrove si deputano a ciò entrate del pubblico.
In alcun luogo ognuno contribuisce a nodrire questi tali.
Ed in altri non lavorano in opere pubbliche; ma ciascuno,
come gli fa mestieri, li conduce a lavorare a giornata,
con mercede alquanto minore di quella che si dà ad
uomo libero; ed è lecito castigare la dapocagine dei servi
con battiture, così stanno sempre in esercizio, ed oltre
il vivere loro, ogni dì danno qualche cosa nell’erario.
Vestono essi soli d’uno stesso colore, con i capelli tagliati
sopra le orecchie, una delle quali lor tagliano. Possono
i loro amici dar loro mangiare e bere, ed abiti del
lor colore; ma v’è pena la testa a chi dà loro danari, e ad
essi che li ricevono. Non è pericolo minore ad uno libero
che ricevesse danari da un servo (così chiamano essi i
dannati), e parimente ai servi che toccassero arme. Ogni
regione fa un segno particolare ai suoi, ed è pena la vita
levarselo via, siccome ancora uscire de’ suoi confini, e
parlare con servo di altra regione. L’aver disposto di
100
fuggire è pena la testa; il servo consapevole di questa
fuga vi lascia la vita, e il libero cade in servitù. Il libero
che avvisa di questo fuggire ne riceve danari, ed il servo
libertà, ed è loro perdonato di aver partecipato in questo
consiglio. Questo è l’ordine di quel paese circa i ladri, la
cui umanità e comodo facilmente si vede, quandochè
punisce il vizio e castigalo, trattandoli in tal guisa, che
sono astretti ad esser buoni. E tanto è indubitato che non
tornano ai passati costumi; che i viandanti si tengono sicurissimi,
avendo per guida uno di questi servi: perchè
sono senz’arme, con tanto pericolo se loro fossero trovati
danari, e senza speranza di fuggire, avendo abito
differente dagli altri, onde nol potriano se non ignudi,
ma l’orecchia tagliata li farebbe conoscere. Non possono
ancora disporsi a fuggire, poichè tanto pericolo portano
i consapevoli di questa fuga, ed un tal premio chi la
manifesta; nè possono parlare con i servi delle altre regioni.
E tutti sperano portandosi bene di acquistare la libertà;
perchè ogni anno se ne francano alcuni, veduta
dai magistrati la loro pazienza. Avendo io narrato questo,
ed aggiuntovi, che introducendo in Inghilterra simil
costume, ne riuscirebbe maggior frutto che di quella
giustizia, tanto da quel giureconsulto commendata; egli
rispose: non si potrebbe stabilire quest’ordine in Inghilterra
che non venisse la repubblica in gran pericolo; e,
torta la bocca, tacque, confermando tutti il parere di
quello. Allora il cardinale disse: tu sei molto pronto ad
indovinare prima che se ne vegga la prova. Ma potrebbe
il principe sentenziare a morte i colpevoli, e non ese-
101
guendo la sentenza, aspettare il successo di questa benignità
sua, vietando intanto che non si possano ridurre in
luogo di franchigia, e non riuscendo in bene, eseguire la
giustizia; nè potrebbe di questo nascere pericolo alcuno.
Si potrebbe trattare parimente i mendichi, contra i quali
sono fatte invano tante leggi. Detto questo dal cardinale
tutti confermarono il mio parere, ma sommamente commendarono
quello che aveva detto il cardinale dei mendichi.
Seguirono poi cose ridicolose, le quali narrerò
pure, da che non son triste. Eravi certo parasito, il quale
facendo il matto rideva di lui, e talora confermava i detti
suoi. Dicendo uno, ch’io aveva acconciamente provveduto
ai ladri, ed il cardinale ai mendichi, ma che restava
di provvedere a quei poveri, che per infermità o vecchiaia
sono impoveriti: Io, rispose il parasito, provvederò
a questi; perchè già sono fastidito dai loro pianti e
miserabili domande, colle quali tuttavia non mi hanno
potuto cavare di mano un danaro. Perciò quando passo
non più mi ricercano di elemosina, non sperando da me
cosa alcuna, come s’io fossi sacerdote; ma io con una
legge ho provvisto che sieno distribuiti pei monasteri
Benedettini, i maschi come del terz’ordine, e le femmine
come pinzochere. Il cardinale con un riso commendò
il suo parere. Un frate teologo si mostrò molto lieto contra
i sacerdoti e i monaci, e disse: neanco in tal guisa ti
espedirai dai mendichi, non provvedendo a noi frati. A
questo è provveduto, disse il buffone, perchè avendo
provveduto il cardinale ai mendichi vagabondi, a voi ancora
è provveduto, che siete medesimamente vagabondi
102
mendichi. Mosse questo matto tutti a riso, vedendo che
se ne prese giuoco il cardinale; ma il frate non già, il
quale spruzzato di tale aceto, si sdegnò in guisa, che
svillaneggiando il buffone lo chiamò detrattore, figliuolo
della perdizione, minacciando con sentenze della sacra
scrittura. Allora il buffone da dovero buffoneggiando
disse: non ti sdegnare o frate, perchè gli è scritto:
“Nella pazienza vostra possederete le anime vostre”.
Non mi sdegno, rispose il frate, o ladrone, e non pecco,
dicendo il salmista: “Sdegnatevi, e non vogliate peccare”.
Ed essendo dal cardinale benignamente ammonito,
che si temperasse, egli rispose: Io parlo, signor mio, solamente
per buon zelo, come fecero i santi uomini, laonde
è scritto: “Lo zelo della casa tua mi mangiò”. Coloro
che schernirono Eliseo sentirono quanto poteva lo zelo
del calvo; come sentirà forse questo ribaldo beffatore.
Forse ti muovi, disse il cardinale, a buon zelo; ma faresti
da prudente a non ti fare con un buffone schernire. Non
farei signor mio, rispose egli, più saviamente a tacere,
dicendo il savio Salomone: “Rispondi al pazzo secondo
la sua pazzia”: e se furoni puniti molti per ischernire un
calvo, che seguirà a questo beffatore dei molti frati, tra i
quali sono assai calvi, ed abbiamo privilegio papale che
chi ci beffeggia sia scomunicato. Il cardinale vedendo
costui non far fine accennò al buffone che si partisse, e
mutato acconciamente il parlare, poco appresso diedesi
ad udire le cause de’ suoi clienti, e ci mandò via. Ecco, o
Moro, quanto ho ragionato a lungo, vedendo che ti piaceva
udire a punto il tutto: ed era necessario ch’io lo
103
narrassi per farti vedere il giudizio di quelli che aveano
sprezzato il mio parlare, e poi come parassiti lo confermarono,
vedutolo confermare dal cardinale; laonde puoi
comprendere quanto stimerebbono i miei consigli i cortigiani.
Io gli risposi: il tuo prudente e solazzevole parlare,
o Rafaello, mi è sommamente piaciuto; e mi è paruto,
non solo trovarmi nella patria, ma eziandio ringiovenire
con la gioconda memoria di quel cardinale, nella
cui corte fui da fanciullo nodrito; ed amoti assai più, vedendoti
alla memoria di tant’uomo affezionato. Tuttavolta
sono pur del medesimo parere, che non ti spiacendo
tanto, vogli entrare nella corte di un principe, dicendo
il tuo Platone: saranno felici le repubbliche che si
reggeranno dei filosofi, ovvero se i re si daranno alla
filosofia. Quanto si allontanerà la felicità, se non vorranno
i filosofi fare partecipi i re de’ consigli loro? Anzi lo
farebbero volentieri, e lo hanno già fatto coi loro scritti,
quando che volessero i principi ubbidire ai buoni avvisi.
Ma ben previde Platone, che non filosofando i re, essi
malamente istrutti dalla fanciullezza, sprezzerebbero i
consigli dei filosofi, com’egli vedeva per prova appo
Dionisio. S’io proporrò ad un re sani decreti, rigettando
i cattivi semi, sarò da lui cacciato o schernito. Poniamo
ch’io fossi nel consiglio del re di Francia, e che tra buon
numero di uomini prudentissimi si trattasse con quali
arti si dovesse tener Milano(7), pigliare Napoli, andar
contra i Veneziani, ed occupare i paesi vicini, confederarsi
con i principi, e partecipare con quelli del bottino.
Consigliano alcuni che si conducano Alemanni, altri che
104
si plachino con danari gli Svizzeri, altri che si diano danari
all’imperatore, altri che si faccia accordo col re
d’Aragona, lasciandogli il regno di Navarra. Ad altri
piace che si faccia speranza al principe di Castella di
qualche parentado, che si corrompano con danari alquanti
nobili della sua corte. Circa l’Inghilterra dicono
che più importa, che si faccia con essa finta amicizia, tenendo
tuttora in punto gli Scoti, i quali ad ogni movimento
degl’Inglesi entrino nel paese loro nemicamente.
E che di secreto si favorisca a qualche nobile bandito, il
quale pretenda di aver ragione in quel regno, e così terrà
sempre il re in sospetto. Se io uomicciolo tra tanti uomini
egregi, che consigliano a guerreggiare, mi levassi
consigliando che si lasciasse stare l’Italia, essendo la
Francia tanto grande, che a fatica può essere da un solo
governata, onde non dovesse pensare il re di più aumentare
il suo dominio: se io gli proponessi i decreti degli
Ancorj(8), popoli opposti all’isola degli Utopiensi vicino
all’Euronoto, i quali avendo guerreggiato per ottenere
un regno al re loro, che secondo lui gli veniva per eredità;
e presolo, vedendo che non meno travaglio sostenevano
a mantenerlo, per le civili ribellioni e correrie
esterne, nè mai poter lasciare l’esercito, ed esser rubati,
e spargere il sangue per l’altrui gloria, la pace non esser
sicura, corrompersi i loro costumi, molti bramar pigliare
l’altrui ed uccidere, e le leggi esser sprezzate; perchè il
re distratto al governo di due regni, meno attendeva a
questo ed a quello; non vedendo fine a tanti mali, fatto
consiglio, proposero benignamente al re, che tenesse
105
uno di quei due regni, perchè eran eglino tanti che non
potevano essere governati da mezzo un re, come non patirebbe
alcuno di aver un mulatiero con un altro comune,
onde quel buon re tenutosi l’antico regno, diede il
nuovo ad un suo amico, il quale tosto ne fu cacciato: se
io gli mostrassi ancora che tanto sforzo di guerra, consumati
i tesori e rovinati i popoli, gli riuscirebbe in sinistro;
sicchè attendesse ad ornare il regno, dai suoi avoli
sino a lui conservato, amasse i suoi, per esser da quelli
amato, vivesse con loro, usando benignità nel comandare,
e lasciasse gli altrui regni poichè il suo è ampio e capace;
questo parlare come pensi o Moro che sarebbe
grato? Ma seguiamo. Si tratta tra il re e i consiglieri di
ammassare tesori, consigliando uno che si aumenti il
prezzo delle monete, dovendone dispensare, e che si abbassi
poi nel riceverle(9); persuade altri che finga di far
guerra, e raccolti i danari faccia con solenni cerimonie
la pace, mostrando come pietoso principe di aver pietà
dell’umano sangue. Alcuno revoca a memoria certe antiche
leggi, contra le quali ognuno (perchè non erano in
uso) ha contraffatto, e asserisce che riscuotendo le condannagioni
di quelle, ne piglierebbe una buona somma,
e parimente si mostrerebbe giusto principe. L’ammoniscono
gli altri, che sotto gravi pene faccia nuovi statuti
in cose che giovino al popolo, e poi dispensi con danari
quei, contra i quali va l’interdetto: così piglierà doppio
frutto, e da quei che contravveranno, e vendendo ad altri
molto cari i privilegi. Gli persuade alcuno che stringa i
giudici a dispensare in ogni cosa a favore del dominio
106
regale, e facciali venire a litigare innanzi a se, perchè
così non vi sarà alcuno tanto stupido, che per aggradirsi
al re non trovi qualche via di calunniare. Contendendo
dunque i giudici in cosa chiarissima, si viene in dubbio
della verità, e può il re a suo comodo interpretare la legge;
gli altri o per vergogna o per timore staranno addietro,
e così darassi arditamente la sentenza, quando che
basta al re potersi mostrar giusto torcendo le leggi, ove
gli pare, e, ciò che più importa, vogliono i religiosi giudici
che non si disputi la causa regale. Consentendo tutti
nel detto di Cassio: che non basta ogni gran tesoro a
quel principe che debba mantenere un esercito; e che
non può il re far cosa ingiusta, ancorchè ne fosse bramoso,
perch’egli è padrone del tutto, e tanto è proprio di
ciascuno, quanto la sua benignità non gli leva; e che importa
assai al principe, al quale appartiensi di difendere
il popolo, studiare che quello non sia per delizie e libertà
morbido; le quali cose lo fanno ardito a non sopportare
i duri e giusti imperj, ma la povertà lo fa paziente, e
priva i nobili di ardire di ribellarsi. Or pensa ch’io levandomi
persuada, che questi consigli sono al re disonesti
e perniciosi, il cui onore o sicurezza consiste piuttosto
nelle forze del popolo che nelle sue, e mostri gli uomini
eleggere il re, acciocchè con istudio e fatica di
quello essi stiano comodamente e siano da ingiurie sicuri,
perchè è ufficio di principe portarsi verso i sudditi da
pastore, il quale pasce le pecore, non se stesso(10). Le
contenzioni poi regnano più nei poveri, i quali specialmente
studiano a cose nuove, e con speranza di guada-
107
gno sono arditi ad ogni impresa. Se fosse un re tanto da
poco ed odiato dai suoi, che non potesse tenerli soggetti
senza far loro ingiuria o impoverirli, fia meglio ch’egli
rinunzi il regno, che tenerlo con tali arti, con le quali tiene
la signoria, ma perde la maestà, e conviensi alla regal
dignità esercitar piuttosto la signoria negli uomini potenti,
che sopra i poveri, come volle inferire Fabrizio dicendo,
che voleva piuttosto signoreggiare ai ricchi che
esser ricco. Ed in vero chiameremo piuttosto guardiano
di prigione uno che voglia esser solo ricco ed impoverire
gli altri, e fa come l’imperito medico, che non sa cacciare
una malattia, senza introdurvene un’altra. Confessi
di non sapere signoreggiare ad uomini liberi, o cacci da
se la dapocaggine e la superbia, le quali cose fanno
sprezzare, ovvero odiare il principe. Viva egli del suo,
misuri la spesa con le rendite, raffreni i mali; e prevenga
con buoni ordini che non si commettano, rinovi le leggi
antiquate, non pigli per alcuna colpa quello che non lascierebbe
pigliare ad alcuno giudice. Io proporrei quivi
la legge dei Macarensi(11), non lontani dall’Utopia, il cui
re nella sua creazione giura di non aver mai nell’erario
più di mille libbre d’oro, e d’argento alla valuta di
quell’oro. Dicono che un re, il quale amò più il comodo
della patria che il proprio, fece questa legge: parendogli
che tanta somma potesse bastare al re per raffrenare i ribelli,
o ribattere i nemici con arme, non dargli animo di
assaltare gli altrui regni. Per questo specialmente si fece
quella legge, e perchè non mancassero danari da cambiare
ai cittadini, e da dispensarsi dal re quando fosse
108
necessario. Tal re era temuto dai cattivi e dai buoni amato.
Ma come narrerei tali cose ai sordi? Ai sordissimi,
anzi, soggiuns’io; nè giudico, per dire il vero, che si diano
tai consigli ove non sono accettati. Come potrà entrare
nell’animo loro un parlare tanto insolito, essendo del
contrario persuasi? Questa scolastica filosofia può esser
grata in un famigliare parlamento tra gli amici, ma nei
consigli dei principi, ove si trattano gran cose con grande
autorità, queste cose non hanno luogo. Perciò, disse
Rafaello, non ha luogo appo i principi la filosofia. Non
diss’io questa filosofia scolastica, che si crede potersi
accomodare ad ogni cosa: ma v’è un’altra filosofia più
civile, la quale secondo le cause e i tempi difende acconciamente
la ragion sua con riputazione. Questa bisogna
che tu usi. Altrimenti rappresentandosi la commedia
di Plauto, ove i servi gareggiano insieme, se tu vestito
da filosofo, entrassi in scena, e narrassi qualche sentenza
della Ottavia(12), ove Seneca disputa con Nerone, non
sarebbe meglio che avessi taciuto, che recitando cose
aliene, aver fatto una tragicommedia? Avresti corrotto la
presente favola, mescolandovi cose diverse, ancorchè
fossero migliori. In quella favola che ritrovi, portati meglio
che puoi; nè ti devi porre a turbar quella, quantunque
ti venga a memoria di un’altra che sia più piacevole.
Così è nella repubblica e nei consigli dei principi. Se
non puoi al tutto estirpare le sinistre opinioni, nè provvedere
ai vizj già posti in uso, non pero si debbe abbandonare
la repubblica; siccome nè anche la nave agitata
dalla fortuna, quantunque tu non potessi raffrenare il fu-
109
ror dei venti. Non si debbe ancora replicare un parlar insolito,
sapendo come non fia ricevuto negli animi che
sono del contrario persuasi; ma biasgna andare per lungo
circuito, e sforzarsi di condurre a buon porto quello
che si tratta. Nè potendo ridurre le cose a bene, studia
almeno che siano men cattive, perchè non possono esser
le cose al tutto buone, se non sono tutti buoni, e questo
io non aspetto fin a molti anni. Con quest’arte, rispose
egli, altro non farei, che, volendo medicare l’altrui furore,
con gli altri impazzirei. Perchè volendo ragionare il
vero, sono astretto a ragionare di queste cose in tal guisa.
Non so se si appartenga al filosofo di ragionare il falso,
ma a me certo non appartiene; benchè quel mio parlare,
come che fosse a quelli forse men grato, tuttavia
non mi penso che si debba giudicare al tutto insolente ed
inetto. Ma s’io narrassi quello che finge Platone nella
sua repubblica, ovvero gl’istituti che fanno da dovero
gli Utopiensi nella loro; quantunque fossero, come sono
in vero, migliori, tuttavolta potrebbero parere alieni da
questi costumi, perchè qui sono le possessioni divise tra
privati, ed ivi comuni. Ma non potrebbe il mio parlare
esser ingrato se non a coloro, che avessero seco disposto
di andare a rovina, perchè dimostra i pericoli, e ci ritrae
da quelli; altrimenti qual cosa vi fu che non sia da dire
convenevolmente ove ti piace? Se si debbono tralasciare
tutte le cose sconcie, e le introdotte da rei costumi degli
uomini; bisogna che noi cristiani dissimuliamo assai
cose, le quali Cristo non vuole che siano dissimulate,
anzi comandò che fossero predicate in pubblico. E gran-
110
dissima parte di queste è più aliena dai presenti costumi,
che non è stato il mio parlare. Ma gli accorti predicatori,
vedendo che malagevolmente gli uomini accomodavano
i costumi loro alla legge di Cristo, acconciarono ai costumi
la legge, come se fosse una squadra di piombo, affinchè
si unissero in qualche guisa; ma per mio avviso
hanno operato che più sia loro lecito esser cattivi. E tanto
farei io a dar consiglio ai principi: perchè ovvero sarò
di parer diverso, ovvero, come dice Terenzio, aumenterò
la loro pazzia(13). Quel modo di circuire nel parlare, e
portarmi in guisa, che non potendo ridurre le cose a perfezione,
almeno studj che riescano men cattive, non
vedo che mi possa succedere. Perchè non è lecito in
quei parlamenti dissimulare nè chiuder gli occhi, anzi
bisogna apertamente confermare i pessimi consigli, e
sottoscrivere ai pestiferi decreti. Sarà come una spia e
quasi traditore colui che loderà malignamente i rei consigli.
Nè mi soccorre cosa alcuna, con la quale possa
giovare chi entra fra quei consiglieri, i quali più agevolmente
corromperebbono un uomo da bene, che essi si
emendassero. Perchè sono nella maligna usanza corrotti
e guasti; laonde sei astretto con la tua innocenza colorire
l’altrui pazzia, senza però che ti riesca di poterli ridurre,
che si mutino in meglio. Perciò Platone con bellissima
similitudine rende ragione perchè s’astengano i savi dal
maneggiar la repubblica: perchè vedendo il popolo per
la piazza sparso esser dalla pioggia bagnato, nè potendo
a quello persuadere che si ritiri al coperto; e giudicando
vana impresa uscire allo scoperto e bagnarsi, ricorrono
111
essi al coperto, riputandosi aver fatto assai, di essersi ritratti
in luogo sicuro, poichè non possono sanare l’altrui
pazzia. Quantunque o Moro (per dire circa quello ch’io
sento la verità) ove sono le possessioni de’ privati, ove il
tutto si misura coi danari; ivi a fatica, per mio avviso, è
possibile che si maneggi con giustizia una repubblica e
con prospero successo. E tienti per certo, che non si fa
cosa alcuna giustamente ove le cose ottime vengono in
mano di pessimi: ovvero che sia felicità ove il tutto si
divide tra pochi; i quali non però stanno molto comodamente,
essendo gli altri nelle miserie. Perciò volgendomi
per la mente gli ottimi, prudentissimi e santissimi
istituti degli Utopiensi, i quali con sì poche leggi governano
le cose loro tanto acconciamente, che la virtù ha il
suo premio; e tuttavia, fatte le cose uguali, tutti ne hanno
in copia: paragonando ai loro costumi quelli delle altre
nazioni, che sempre ordinano nuove leggi, nè mai ne
hanno fatto abbastanza; nelle quali nazioni ognuno chiama
suo quello, che può avere, nè si possono ordinare
tante leggi, che siano sufficienti per acquistare, conservare
o conoscere il suo dall’altrui; il che manifestano le
infinite liti, che non mai hanno fine: considerando io
meco stesso queste cose, non mi maraviglio che Platone
non si degnasse di far legge a coloro, che non accettavano
quelle, con le quali ogni cosa si fa comune. Previde
quell’uomo prudentissimo quella esser unica e sola via
alla salute, che si faccia un’ugualità de’ beni esterni, la
quale come si può conservare, ove ciascuno ha di proprio?
Perchè traendo ciascuno a sè quanto può, dividen-
112
dosi i pochi ogni gran tesoro, e lasciando agli altri la povertà;
avviene che una parte sembri dell’altra più degna,
la qual però è rapace, malvagia e inutile; ed opprime gli
uomini modesti e semplici, i quali con industria cotidiana
sono più benigni verso la repubblica, che verso loro
stessi. Io mi rendo certo che non si possano trattare le
cose dei mortali, nè distribuire con giusta ragione e con
felicità, ove non sia al tutto levata via la proprietà. E che
durando quella, buona parte e la migliore degli uomini
non possa schivare la povertà e l’infelicissima miseria,
la quale io confesso che si può allegerire, ma non al tutto
annullare. Se fosse ordinato che niuno avesse più che
certo numero di campi, e una tal determinata somma di
danari; e se vi fossero leggi che il principe non fosse
troppo ricco, nè il popolo insolente; che non si cercassero
i magistrati, nè si vendessero, nè fosse di necessità
maneggiarli con spesa, onde poi si dà occasione di ricuperare
i danari con frodi e rapine, o è forza preporre i
ricchi a quegli ufficj a cui non dovriano preporsi che i
saggi; tai leggi variano come le medicine, che possono
porger ristoro al corpo, già guasto per infermità, ma non
sanarlo, riducendolo al suo primo stato. Nè vi è di questo
speranza alcuna, mentre che ognuno possiede di proprio;
anzi volendo sanare una parte farai incrudelire la
ferita dall’altra, perchè una s’inferma con la sanità
dell’altra, non potendosi aggiugnere all’una, che
all’altra non si levi. A me, diss’io, pare il contrario, che
non si possa vivere comodamente, ove sono tutte le cose
comuni. Come avranno tutti abbastanza i bisogni loro,
113
quando ciascuno si ritragga dalla fatica non essendovi
dalla necessità astretto? E il fidarsi dell’altrui industria
fa l’uomo negligente. Ma essendo gli uomini dalla povertà
stimolati, nè potendo tenere per proprio ciò che
guadagnano con industria e sudori, non seguono di necessità
uccisioni e sedizioni tra loro; levata via specialmente
l’autorità del magistrato, la quale non può aver
luogo appo tali uomini, che non sono in cosa alcuna differenti?
Non mi maraviglio, Rafaello rispose, che a te
così ne paja, il quale non ne hai veduto pur un’immagine
falsa. Ma se fossi stato meco in Utopia, ed avessi di
presenza veduto i loro costumi, come feci io, che vi
sono vissuto più di cinque anni, nè mai avrei voluto partirmene,
se non era per manifestare di qua sì nuovo
mondo; confesseresti veramente non aver veduto altrove
che in quel luogo un popolo bene istituito. Certamente a
fatica mi darai a credere, soggiunse Pietro Egidio, che si
trovi in quel nuovo mondo un popolo meglio istituito,
che in questo da noi conosciuto, nel quale non sono
gl’ingegni peggiori; e penso che siano qui più antiche le
repubbliche, e più comodi trovati dal lungo uso, per tacere
di alcune cose fortuitamente scoperte, che non si
potrebbero trovare da alcun ingegno. Circa l’antichità,
rispose Rafaello, diresti altrimenti, quando avessi letto
le storie loro delle cose pubbliche, alle quali se dobbiamo
dar fede, furono prima le città appo loro, che appo
noi; ed ha potuto esser così qua come là ogni cosa a
caso o per ingegno trovata. E per mio avviso, ancorchè
fossimo più acuti d’ingegno che quelli; certamente per
114
studiosa industria loro siamo di gran lunga inferiori.
Perchè narrano le loro storie, che innanzi al venir nostro,
non aveano inteso cosa alcuna di noi, come ci chiamano,
oltrequinoziali, se non che, già mille e dugento
anni, una nave che si ruppe appo l’Utopia, ivi portata
per fortuna, ebbe sopra alquanti Romani ed Egizj, i quali
condotti al lido non più si partirono di quel paese.
Vedi come fu loro tale occasione comoda per loro industria.
Non era arte appo il romano imperio, che fosse acconcia
ai fatti loro, la quale essi non imparassero da que’
forestieri, o con acute indagini quindi non ritrovassero.
Eccoti quanto bene riuscì loro da pochi uomini portati là
da questo nostro mondo. E se per simile fortuna alcuno
di loro è stato spinto a noi, questo si è così scordato,
come si scorderanno i discendenti loro, ch’io abbia abitato
in quel luogo. E siccome essi ad un incontrarsi con
noi hanno fatto propria ogni nostra industriosa invenzione;
così penso che andrà lungo tempo, prima che pigliamo
il migliore loro istituto. E penso altresì che una sola
cosa sia cagione, che non essendo noi nè per ingegno,
nè per forze inferiori, tuttavia le cose loro sono più felicemente
amministrate, e con maggior felicità fioriscono.
Pregoti di grazia, diss’io, o Rafaello, che ci vogli descrivere
questa isola, non già in brevità, ma che ci dimostri
con ordine i campi, i fiumi, le città, gli uomini, i costumi,
gl’istituti, le leggi, ed ogni cosa che ti parrà noi voler
conoscere; cioè tutto quello, che non sappiamo. Lo
farò, disse Rafaello, molto volentieri, specialmente che
tengo il tutto in memoria: ma bisogna aver tempo. An-
115
diamo adunque a desinare, e poi piglieremo il tempo a
tua voglia. Così facciamo, rispose egli. Ed entrati desinammo,
e poi tornammo nel medesimo luogo, e comandando
ai famigliari che non ci turbassero, io e Pietro
Egidio, confortammo Rafaello che ci attenesse la promessa.
Egli adunque vedendoci attenti e bramosi di udire,
stato alquanto tacito a sedere pensando, cominciò a
parlare in questa guisa.
116
UTOPIA
DI
TOMMASO MORO
LIBRO SECONDO.
L’isola degli Utopj, larghissima nel suo mezzo, si
stende dugentomila passi, e per lungo tratto non si stringe
molto, ma ver la fine d’amendue i capi si va assottigliando:
i quali, piegati in cerchio di cinquecentomila
passi, fanno l’isola in forma della nuova luna. Questi
suoi corni, dal mare combattuti, sono distanti uno
dall’altro circa undici miglia, ed il mare, tra essi dai
venti difeso, fa come un piacevol lago e comodo porto;
di onde l’isola per suo bisogno manda le navi agli altri
117
paesi: la bocca da una parte con guadi e secche,
dall’altra con aspri sassi mette spavento a chi pensasse
d’entrarvi come nemico. Quasi nel mezzo di questo spazio
è un’alta rupe, quale perciò non è pericolosa, sopra
di cui in una torre da loro fabbricata gli Utopiensi tengono
il presidio: molte altre rupi vi sono nascoste e perigliose.
Essi solamente hanno cognizione dei canali: indi
avviene di raro che alcun esterno, che non sia da uno di
Utopia guidato, vi possa entrare; quandochè essi a fatica
v’entrano senza pericolo, non si reggendo a certi segni
posti nel lido, i quali, essendo mossi dai luoghi soliti,
guiderebbono ogni grande armata nimica in precipizio.
Dall’altra parte è un porto assai frequentato, e dove si
scende, fortificato dalla natura e con arte in tal guisa,
che pochi uomini lo possono difendere da copioso esercito.
Ma come si narra, ed anco la qualità del luogo ne
dà indizio, quella terra anticamente non era dal mare circondata.
Utopo, che le diede il nome, perchè prima si
nomava Abraxa, e ridusse coloro che l’abitavano da una
vita rozza e villesca a questa foggia di vivere umano e
civile, nel quale vincono quasi tutte le generazioni degli
uomini; preso in un tratto il luogo, tagliò quindicimila
passi di terreno, col quale era la Utopia continuata a terra
ferma, e la fece isola. Ed avendo astretto a tale opera
non solamente quelli dell’isola, ma i soldati suoi ancora,
con tanto numero di uomini, in brevissimo tempo fornì
tale impresa, lasciando stupiti i vicini popoli, i quali di
questo prima ridevano. Sono nell’isola cinquantaquattro
città grandi e magnifiche di medesima favella, istituti e
118
leggi, e quasi all’istesso modo situate, quanto il luogo
ha permesso. Le più vicine sono scostate una dall’altra
miglia ventiquattro: ma niuna è tanto lontana dall’altra,
che non vi possa andare un pedone in un giorno. Tre
vecchi cittadini e prudenti di ciascuna città ogni anno
concorrono in Amauroto(14), la quale per esser nel mezzo
dell’isola, e a tutti comoda, è tenuta la principale, ed ivi
trattano delle comuni bisogne dell’isola. Ogni città non
ha meno di ventimila passi di terreno d’ogni intorno: ed
alcune più, come sono più scostate una dall’altra. Niuna
brama di ampliare i suoi confini, riputandosi gli abitanti
piuttosto lavoratori dei campi che tengono, che padroni.
Hanno per le ville acconciamente le case, di ogni instrumento
campestre fornite: in queste vanno ad abitare i
cittadini a vicenda. Niuna famiglia rusticana ha meno di
quaranta persone, oltre due villani. Ad essa è preposto
un padre ed una madre di famiglia per età e costumi ragguardevoli,
e ad ogni trenta famiglie dassi un capo. Tornano
nella città ogni anno venti di ciascuna famiglia, i
quali sono stati in villa due anni. In luogo di questi vengono
altri venti dalla città, perchè siano nelle opere villesche
ammaestrati da quelli, che per esservi stati un
anno, sono di tali opere più esperti; e l’anno vegnente
ammaestrino gli altri, a fine che non si trovino tutti del
lavorare i campi ignoranti, e nel raccogliere la vettovaglia
non commettano errore. Benchè questa foggia di
rinnovare gli agricoltori sia solenne, acciocchè niuno sia
astretto di continuare la vita rusticana più lungamente;
nondimeno molti dilettandosi dell’agricoltura, impetra-
119
no di starvi più anni. Gli agricoltori coltivano il terreno,
nodriscono gli animali, apparecchiano le legne, e le portano
alla città per terra o per mare, come viene loro più
in acconcio, fanno nascere con mirabile artificio un’infinità
di polli, senza che covino le galline, ma con un caldo
proporzionato, e come madri gli accompagnano e governano.
Nodriscono pochi cavalli, e feroci, dei quali si
servono solamente per le imprese che si fanno a cavallo;
perchè ogni fatica di coltivare e condurre le cose loro
fanno con opera dei buoi, i quali benchè siano più lenti
che i cavalli, tuttavia sono alla fatica più pazienti, e
meno soggetti alle infermità: oltre che riescono di minor
spesa, e quando più non vagliono alla fatica, si possono
mangiare. Usano di seminare solamente il frumento, bevono
vino di uva, di pomi o di pera, ovvero l’acqua
pura, che talvolta cuocono con miele o liquirizia, della
quale hanno copia. E quantunque sappiano quanta vettovaglia
si consuma nelle città e nel contado, nondimeno
seminano di più, per darne ai vicini. Ogni istromento richiesto
all’agricoltura si piglia nella città dai magistrati,
senza costo alcuno: e molti là concorrono ogni mese alle
feste solenni. Quando è tempo di tagliar il frumento, i
preposti dei lavoratori avvisano i magistrati quanto numero
di cittadini si debba mandare, e concorrendovi tutti
a tempo, in un giorno sereno quasi tagliano tutto il
frumento.
120
DELLE CITTÀ
E SPECIALMENTE DI AMAUROTO.
Chi ha veduto una di quelle città, le ha vedute tutte;
tanto sono una all’altra simili, ove la natura del luogo lo
consente. Ne dipingerò adunque una; e benchè non importi
descrivere più questa che quella, nondimeno ragionerò
di Amauroto come più degna. La quale, per avervi
il senato, è da tutte le altre onorata; ed io ho di quella
maggior cognizione, perchè vi sono stato circa anni cinque.
Amauroto è situata in una costa di monte, ed è quasi
quadrata, perchè la sua larghezza comincia poco di
sotto dalla cima del colle, e per duemila passi si stende
al fiume Anidro(15), lungo la ripa del quale alquanto più
si stende. Anidro sorge da picciol fonte ottanta miglia
sopra Amauroto; ma dal concorso d’altri fiumi accresciuto
passa avanti Amauroto largo cinquecento passi,
ed indi poi slargandosi a seicento, mette nell’oceano. In
questo spazio di alquante miglia, tra il mare e la città,
l’acqua va e torna con molta fretta ogni sei ore. Il mare,
quando v’entra, occupa il letto del fiume per trenta miglia,
e caccia indietro le acque di quello: e alle fiate le
corrompe col salso. Ma tornando poi addietro, il fiume a
l’usato corre con dolci acque irriganti la città: ed un
ponte non di travi o legnami, ma di pietra egregiamente
121
lavorata, serve per passarlo a quella parte, che è più dal
mare lontana, acciocchè le navi possano trascorrere innanzi
a quel luogo della città senza pericolo. Hanno ancora
un’altro fiume, non già grande ma tranquillo e piacevole:
il quale sorgendo del monte, ove la città è fabbricata,
passa per mezzo di quella, e mette nell’Anidro.
Gli Amaurotani hanno tolto dentro nella città la fonte di
questo fiume, che non era molto lontana, e fortificatola,
acciocchè non potessero i nimici divertire l’acqua o corromperla.
Indi con cannoni di pietra cotta derivano
l’acqua alle più basse parti: ed ove per il luogo non si
può condurla, fanno cisterne, nelle quali si raccoglie la
pioggia, e ne pigliano i popoli il medesimo comodo. Il
muro largo ed alto cinge la città con torri e rivellini: la
fossa secca, ma larga e profonda, e con spine e siepi, da
tre bande circuisce le mura; e dalla quarta il fiume serve
per fossa. Le piazze sono fatte acconciamente e per condurvi
le cose necessarie, e perchè siano sicure dai venti:
gli edificj non vili e tirati al dritto, quanto è lungo ogni
borgo, con le case a rimpetto una dell’altra: le fronti dei
borghi hanno tra loro una via larga venti piedi. Dietro le
case, quanto è largo il borgo, è l’orto largo e rinchiuso
dalle muraglie di dietro dei borghi: ogni casa ha la porta
di dietro e davanti, la quale si apre agevolmente in due
parti, e si chiude da sè stessa: ognuno vi può entrare.
Tanto hanno ogni lor cosa comune, che ancora mutano
le case ogni dieci anni. Fanno gran stima degli orti, nei
quali piantano viti, frutti, erbe e fiori con grande ordine
e vaghezza. Gareggiano i borghi uno con l’altro di aver
122
orti più belli: nè hanno cosa, della quale piglino più diletto
e comodo, che di questi; dei quali pare che avesse
più cura il loro autore, che di qualunque altra cosa. Perchè
dicono Utopo da principio aver descritto questa forma
della città, lasciando poi la cura di ornarla ai discendenti.
Nelle loro istorie da quel tempo, che fu presa
l’isola, che comprende anni mille settecento e sessanta,
le quali conservano molto diligentemente, leggesi, che
le case erano basse come tuguri, fatte di ogni sorta di legnami,
che potevano avere: le pareti lutate, e la coperta
di strami levata nel mezzo. Ma ora le case hanno tre palchi,
i muri di selice o mattoni con calce incrostati, e ripieni
di rottami. I tetti piani e rassodati in guisa, che non
portano pericolo del fuoco, sono coperti di piombo per
tollerar le piogge. Le finestre di vetro, che hanno bellissimo,
li difendono dai venti; usano ancora a questo tele
sottili unte d’olio lucidissimo o di ambra; e indi hanno
più chiara luce, e sono dal vento meglio difesi.
123
DEI MAGISTRATI.
Ogni trenta famiglie si eleggono ogni anno un magistrato,
detto da loro anticamente Sifogranto, ed ora Filarco.
Quello, che è preposto a dieci Sifogranti con le
loro famiglie, si nomava Traniboro, ed ora Protofilarco.
I Filarchi, che sono dugento, giurano di eleggere principe
quello, che giudicheranno di comune utilità, e così
danno voti segreti per uno dei quattro, che sono proposti
dal popolo e si pigliano dalle quattro parti della città,
uno di ciascuna. Questo magistrato dura in vita, purchè
non venga in sospicione di voler tirannizzare. I Tranibori
si eleggono ogni anno, ma non li mutano senza causa.
Tutti gli altri magistrati sono annuali. I Tranibori ogni
terzo dì, e talvolta più spesso, vengono a consiglio col
principe circa le cose della repubblica, e se v’è pure
qualche controversia l’achetano. Chiamano ogni dì in
senato due Sifogranti per ordine: ed hanno per legge che
niuno statuto sia di valore, del quale non sia prima stato
trattato tre dì nel consiglio. Gli è pena la testa a trattare
di cose pubbliche fuori del senato, acciocchè non potesse
il principe ovvero i Tranibori ordire una congiura, ed
opprimere il popolo con tirannia, e mutare lo stato della
repubblica. Perciò ogni cosa importante va al consiglio
de’ Sifogranti, i quali ragionatone con le loro famiglie,
ne consigliano tra loro, e del loro parere avvisano il se-
124
nato. Talvolta nel consiglio trattasi di tutta l’isola. Usano
i magistrati di non ragionare sopra cosa alcuna quel
giorno, che essa viene proposta, ma la differiscono nel
seguente: a fine che pensandovi sopra, deliberino quello
che sia alla repubblica profittevole, e non si abbiano a
pentire della loro risoluzione, come poco considerata.
125
DEGLI ARTEFICI.
L’agricoltura è comune arte a maschi e femmine, e
niuno è di quella inesperto. Tutti dalla fanciullezza
l’imparano; parte in iscuola, ove se ne danno i precetti;
parte nei campi alla città più vicini, ove sono condotti
quasi a giuocare, acciocchè non solamente veggano
l’arte, ma piglino occasione di esercitare il corpo. Oltre
l’agricoltura, a tutti, come dicemmo, comune, ciascuno
impara un’arte, o di muratore, o di magnano, o di legnajuolo,
o a lavorare di lana o di lino, perchè non è appo
loro altro artificio, nel quale si occupino molte persone.
Le vesti sono di una forma, eccetto che variano quanto
basta a discernere il sesso, ed i maritati dai non maritati.
Questa usano per ogni età; ed è vaga da vedere, e comoda
all’estate ed al verno. Ogni famiglia fa le sue vesti,
ed ognuno impara alcuna di quelle arti; non solo i maschi,
ma le femmine ancora, le quali perchè sono men
robuste, si danno alla lana e al lino, lasciando ai maschi
le arti faticose. La maggior parte impara l’arte del padre:
tuttavia se alcuno ad altra arte s’inchina, egli impara
l’arte della famiglia, nella quale viene adottato; il che si
fa per opera del magistrato insieme col padre di quella.
Se uno, imparata un’arte, brama d’impararne un’altra,
parimente se gli concede: e poi esercita qual più gli aggrada,
se la città non ha più bisogno di una che
126
dell’altra. L’officio de’ Sifogranti è specialmente di
provvedere, che niuno stia ozioso, ma eserciti con sollecitudine
l’arte sua; non però dalla mattina per tempo
sino allo sera, che è miseria estrema, ed usasi in ogni
paese, eccetto che appo gli Utopj. I quali di ventiquattr’ore
tra il dì e la notte sei ne assegnano al lavoro;
tre avanti desinare, dopo il quale riposano due ore, ed
indi tre altre, appresso alle quali cenano. Annoverando
la prima ora dopo il desinare, verso l’ottava vanno a
dormire, e dormono otto ore. Il tempo, che avanza tra le
opere e il desinare, ognuno lo dispensa a suo modo, pure
in opere virtuose: e molti si occupano in lettere. Leggesi
ogni dì innanzi giorno, e vi vanno specialmente coloro,
che sono eletti allo studio. Ma vi concorrono assai altri
maschi e femmine, come è il desio loro. Se alcuno, a cui
non aggrada lo studio, vuole in questo tempo esercitarsi
nell’arte sua, niuno lo vieta; anzi viene lodato, come
persona utile alla repubblica. Dopo cena stanno a diporto
un’ora, la state nei giardini, e l’inverno nelle sale, ove
mangiano. Ivi cantano ovvero ragionano. Non sanno
giuochi di fortuna e perniciosi. Ma usano due giuochi,
non dissimili a quello degli scacchi: uno è il contrasto
dei danari, nel quale un numero vince l’altro numero:
nell’altro le virtù combattono coi vizj. In questo giuoco
accortamente si può vedere la discordia tra essi vizj , e
la loro concordia contra le virtù; quali vizj a quali virtù
si oppongano; con quali forze combattano apertamente;
con quali macchine da traverso resistono; con quali ajuti
le virtù vincano le forze de’ vizj; con quali arti ribattano
127
ogni loro sforzo, e con quali modi una parte resti vittoriosa.
Ma perchè non pigliate quivi errore, bisogna considerarvi
attentamente. Potreste pensare che essi lavorando
solamente sei ore, patissero disagio delle cose necessarie,
il che non avviene; anzi lavorando appena quel
tempo, guadagnano quanto fa loro bisogno ad ogni comodo,
ed anche di più: e questo potrete comprendere,
considerando quante persone appo le altre nazioni stiano
oziose. Primieramente quasi tutte le femmine, che sono
la metà del popolo: ed ove le femmine si affaticano, ivi
gli uomini ai danno al riposo. Quanta turba di preti e religiosi?
I ricchi e nobili con le copiose famiglie dei servi,
spadaccini e parassiti. Aggiugnivi i furfanti che si
fingono infermi, per dapoccagine, e troverai che picciol
numero apparecchia quello, che da tutti gli uomini si
consuma. Considera in questi quante arti non necessarie
si fanno per servire alla vita lussuriosa, dalle quali si piglia
gran guadagno. Se i pochi, che lavorano, fossero divisi
nelle poche arti al vivere umano più comode, la vettovaglia
sarebbe a sì vil prezzo, che gli uomini avanzerebbono
assai oltre il lor vivere. Se consideri quei che
esercitano arti inutili, e che stanno oziosi, vivendo delle
altrui fatiche, comprenderai quanto poco tempo basterebbe
per guadagnare quanto fosse opportuno non solo
al vivere, ma eziandio alle voluttà con avvantaggio ancora,
il che si vede manifestamente nell’Utopia. In tutta
la capitale e nel contado non sono cinquecento tra uomini
e donne, che stiano in ozio, e siano gagliardi. I Sifogranti
istessi, benchè siano per le·leggi dal lavoro esenti,
128
tuttavia affaticano, per invitare col loro esempio gli altri
a far lo stesso. Sono pure esenti coloro, i quali commendati
dai sacerdoti al popolo, vengono per segreta ballottazione
dei Sifogranti applicati agli studj. Quelli che in
essi non riescono, sono rimandati ad imparare alcun’arte;
ma avvien sovente all’incontro, che qualche
meccanico, a quelle ore che non lavora, fa tanto profitto
in lettere, che viene levato dall’arte e posto nell’ordine
dei letterati. Di quest’ordine de’ letterati si eleggono i
sacerdoti, i Tranibori ed anco il principe, nomato anticamente
Barzane, ed ora Ademo. L’altra moltitudine, non
oziosa, nè occupata in esercizj inutili, fa in poche ore
grandi opere; tanto più ch’essa ha d’uopo in molte arti
necessarie di minor fatica che le altre genti. Perchè altrove
il figliuolo, non curando di mantenere quello che
ha fabbricato suo padre, lascia venire gli edificj a tale,
che il suo erede è astretto a rifare con gran spesa quello,
che si poteva prima con poco ristorare. E alcuni sontuosi,
non contentandosi della casa fabbricata da un altro,
ne edificano una nuova, e lasciano andare quella in rovina.
Ma nella repubblica Utopiense, così bene ordinata,
di raro si edifica di nuovo, anzi si prevede ad ogni mancamento,
che possa avvenir nelle case, prima che avvenga.
Così durano lungamente gli edificj con poca fatica;
laonde non hanno i muratori molte volte che fare, se non
squadrano legnami e lavorano le pietre, per aver la materia
ad ordine di fabbricare quando fa mestieri. Vedi
quanto poca fatica usano nell’apprestarsi il vestire.
Quando sono al lavoro, usano vesti di cuoio o di pelle, e
129
queste durano anni sette; quando vanno in pubblico, si
mettono sopravvesti, che cuoprono quelle sì rozze, e le
usano tutte di un colore nativo nell’isola. Così i panni di
lana meno costano appo loro, che presso le altre nazioni.
Il lino poi, che meno vale, è più in uso; e si considera in
esso solamente la candidezza, come nella lana la mondizia;
nè si apprezza più il filo, perchè sia più sottile. Così
ognuno si contenta di una veste quasi per due anni,
quandochè altrove non hanno abbastanza gli uomini di
quattro, di cinque, e neanco di dieci di seta e di lana. Ma
gli Utopiensi, avendo abito che li difende dal freddo,
non sono astretti desiderarne più; quando che ivi niuno è
dell’altro più ornato. Pertanto esercitandosi in vili arti,
avviene che in poche ore guadagnano assai; e quanto
avanza loro dal vivere dispensano a ristorare le opere
pubbliche. E quando non fa bisogno di questo, per pubblico
editto lavorano ancora meno. Non vogliono i magistrati
occupare i loro cittadini alla fatica contra lor voglia;
quandochè l’istituzione della loro repubblica a questo
mira specialmente, che quanto per le pubbliche necessità
è lecito, si diano alle occupazioni intellettuali, in
cui pensano che consista la vera felicità.
130
DEL COMMERCIO TRA I CITTADINI.
È ragionevole che si dichiari in che guisa i cittadini
hanno commercio insieme, e trattano le loro bisogne.
Essendo la città composta di famiglie, essi le fanno
grandi col maritar le figliuole. Perchè vanno le giovani
maritate in casa dei mariti, ma i figliuoli maschi e i discendenti
rimangono nella famiglia ed ubbidiscono al
più vecchio, al quale si sostituisce un altro per età prossimo,
se egli mancasse di giudizio. Ma perchè la città
non venga meno di cittadini, nè cresca oltre modo, vietasi
che niuna famiglia (perchè in ogni città ne sono seimila,
non contando il senato) abbia meno di dieci o più
che sedici fanciulli, poichè negli adulti non si può tener
misura. E fassi questo agevolmente, dando nelle famiglie
più rare quei figliuoli, che nascono nelle più copiose;
e quando crescono oltre modo, mandandoli nelle altre
città meno popolose. Quando poi moltiplicano per
tutta l’isola, inviano colonie ai luoghi vicini, ove siano
larghi terreni non coltivati dagli abitatori; cui pigliano in
compagnia a vivere con le loro leggi, se si contentano. E
se ne contentano facilmente, perchè i coloni coi loro
buoni istituti rendono fertile il terreno, il quale forse era
giudicato sterile e maligno. Ma se non vogliono abitare
con loro, li cacciano da quei confini, che si prendono. E
credono aver causa giustissima di guerreggiare e trattar
131
da nemici coloro, i quali non lasciano lavorare ad altri
quel terreno, che ad essi avanza, e di cui si possono nodrire
molti. Se alcune città loro tanto si scemano di uomini,
che non vi si possa supplire dalle altre (il che a
memoria loro è accaduto solamente due fiate per la pestilenza)
richiamano i cittadini dalle colonie, per far
l’isola loro popolosa; volendo piuttosto disfare le une,
che lasciar venir meno le altre. Ma torno alla foggia del
viver loro. Il più vecchio è preposto alla famiglia, le mogli
servono ai mariti, e i figliuoli ai padri, ed universalmente
i minori ai maggiori. Ogni città si divide in quattro
parti eguali, e nel mezzo di ciascuna è una piazza,
ove ogni famiglia porta i suoi lavori, e li dispone per ordine
in certi granaj. Ogni padre di famiglia piglia di qui
ciò che fa bisogno ai fatti suoi, senza prezzo alcuno;
quando che hanno copia di ogni cosa, nè alcuno teme
che gli manchi, e si contenta solamente di quanto gli fa
mestieri. Essendo manifesto che dove non è il timore di
dover mancare delle cose necessarie, nè superbia di volersi
aumentare di ricchezze soverchie (le quali cose
fanno l’uomo avido e rapace; il che non avviene agli
Utopj), ivi è un vivere tranquillo. Evvi il mercato dei
cibi, ove si portano erbe, frutti, pane, pesci, carne di
ogni animale, e questo fuori della città vicino al fiume,
ove si possono lavare le immondizie. Gli animali sono
uccisi e lavati per mano di famigli, onde non si contaminino
i cittadini, parendo loro che la umanità e clemenza
all’uomo naturale, con tali uccisioni a poco a poco venga
meno. Nè lasciano introdurre nella città cosa alcuna
132
sporca o fracida, acciocchè non si corrompa l’aria, e
indi nasca pestilenza. Ogni borgo ha certe spaziose sale,
distanti ugualmente una dall’altra, e con i loro proprj
nomi. In queste abitano i Sifogranti; e le trenta famiglie
a loro commesse, quindici da un lato e quindici
dall’altro della loro dimora, ivi hanno a venire a mangiare
in comune. Quelli, a cui spetta di apparecchiare i
cibi per ciascuna sala, vengono in piazza a chiedere i
cibi per quante persone si trovano avere. Hanno special
cura degli infermi, i quali sono governati in pubblici alberghi.
Perchè mantengono fuori della città quattro stanze
tanto capaci, che pajono quattro picciole città, onde
vi stiano molti infermi acconciamente, e i contagiosi
possano tenersi dagli altri lontani. Sono queste stanze ad
ogni comodo degli infermi artificiosamente fabbricate, e
tanta diligenza vi si usa e assidua cura di medici, che
ognuno infermando, si contenta piuttosto di esser governato
in tai luoghi, che nella casa propria: ma niuno vi si
manda contra sua voglia. I cibi, secondo l’ordine dei
medici, sono assegnati ai dispensieri, che li dividono tra
quelli di ciascuna sala. Se non che si ha riguardo al principe,
al pontefice, ai Tranibori, agli ambasciatori e agli
stranieri, i quali peraltro vi si veggono di raro, e a cui si
provvede altresì di certe stanze a sufficienza fornite.
Concorrono ad ora di mangiare a suono di tromba di
metallo tutte le famiglie raccomandate ad un Sifogrante,
eccetto gl’infermi che giacciono negli alberghi o nelle
proprie case. Benchè, soddisfatto alle sale; non si nega il
cibo della piazza a chi lo chiede, sapendosi di certo che
133
questo non faccia senza causa ragionevole. Perchè quantunque
non sia vietato ad alcuno il mangiare in casa; tuttavia
niuno vi sta volentieri, non essendo tenuta per cosa
onesta, anzi sembrando pazzia pigliar la fatica di apprestare
un magro desinare, potendo trovarlo delicato nella
sala. Ivi i servi ministrano in quelle cose, che sono di fatica
o di qualche sporchezza; e le femmine cuocono i
cibi ed apparecchiano il convito. Mangiano le famiglie a
tre tavole o più, come porta il numero loro, i maschi colla
schiena al muro, e le femmine di fuori; acciocchè volendosi
levare per qualche disconcio, come suole avvenire
alle gravide, non turbino gli ordini; ed anco possano
andare a rivedere le balie, che stanno in una stanza sempre
col fuoco e l’acqua monda, per governare i bambini
a voglia loro, Ognuna latta i suoi figliuoli, se non è impedita
da infermità; e quando avviene questo, le mogli
dei Sifogranti agevolmente proveggono di balia. Perchè
quelle che sono atte a far questo, si afferiscono spontaneamente;
massime che tutti le commendano di clemenza,
e quegli che da alcuna è lattato, la riconosce per madre.
Nella stanza delle balie stanno i fanciulli da cinque
anni in giù. Gli altri sinchè sono all’età di maritarsi, e
maschi e femmine, servono alle tavole; e chi non può
servire sta presente con sommo silenzio. Mangiano
quello che loro viene sporto da quei che seggono, senza
avere ora alcuna assegnata al loro desinare. Nel mezzo è
la prima tavola a traverso del cenacolo, dalla quale si
mirano tutte le tavole. A quella seggono il Sifogrante e
la moglie, e due de’ più vecchi. Seggono a quattro a
134
quattro per tutte le tavole. Se in quella sifogranzia è
tempio alcuno, il sacerdote e la moglie di quello seggono
a tavola col Sifogrante. Si pongono d’amendue le
parti i più giovani, di poi i vecchi, di maniera che si trovano
insieme di età dissimili, acciocchè la gravità e riverenza
dei vecchi raffreni i giovani da ogni sconvenevole
atto o parlare. Le vivande più dilicate sono portate
primieramente ai più vecchi, i luoghi dei quali sono ragguardevoli:
di poi si serve agli altri ugualmente. I vecchi
dispensano a chi loro piace quei delicati cibi, dei quali
non era tanta copia, che se ne potesse dare a tutti. Così
vengono onorati i vecchi, e nondimeno il comodo a tutti
perviene. In ogni desinare e cena si legge brevemente
qualche cosa, che vaglia a formare i costumi. Da questa
lezione i vecchi pigliano occasione di onesti parlamenti,
ma sollazzevoli e grati. Non però tanto sono prolissi nel
parlare, che non vogliano udire ragionare i giovani; anzi
a studio li provocano, per comprendere nella libertà del
convito la prontezza e disposizione di ciascuno. Il desinare
è di corto tempo, perchè si va al lavoro; ma la cena
tengano più lunga, perchè segue poi il dormire, che giudicano
molto efficace per il digerire. Non cenano senza
canti, e copia di frutti o confezioni; fanno profumi odoriferi;
spargono unguenti, e non risparmiano cosa alcuna,
che possa rallegrare il convito: non parendo loro che
sia vietata alcuna voluttà, purchè non ne riesca qualche
incomodo. In questa guisa vivono nella città: ma in villa,
ove sono le famiglie una dall’altra lontane, tutte
mangiano a casa propria, nè manca loro cosa alcuna,
135
perchè viene ad esse portato di quello che si mangia dagli
altri nella città.
136
PELLEGRINAGGI DEGLI UTOPIENSI.
Se alcuno brama di vedere qualche suo amico che stia
in altra città, oppure la città stessa, ottiene facilmente licenza
di andarvi dai suoi Sifogranti e Tranibori, purchè
non sia qualche bisogno dell’opera sua. Mandasi alcun
nunzio con un’epistola, che significa aver egli licenza di
andarvi, e gli assegnano il giorno del ritornare. Se gli dà
un carro con un servo pubblico, che guidi e governi i
buoi. Se non ha femmine in compagnia, rimanda il
carro, per non aver seco tale impedimento. Quantunque
nulla porti con sè; alcuna cosa, tuttavia, non gli manca
per viaggio, perchè ovunque si trova, è in casa sua.
Stando in un luogo più che un dì, ciascuno ivi esercita
l’arte sua, ed è trattato umanamente dagli artefici a lui
simili. Se alcuno da sè stesso, senza la licenza in iscritto
del principe, è trovato andare fuori dei suoi confini, e
viene pigliato, è come fuggitivo ridotto nella città, ove
si vede gravemente punire. Se di nuovo commette tale
errore, è punito con servitù. Nondimeno ognuno può andar
diportandosi per i campi della sua regione, avendone
licenza dal padre, e consentendolo la moglie. Ma in qualunque
villa perviene, non gli è dato mangiare, se prima
non fa quant’opera è tenuto innanzi desinare o innanzi
cena. Con questa legge può ciascuno andare per i campi
tra i suoi confini; perciocchè tanto gioverà alla città,
137
quanto se fosse in quella. Vedete già quanto sia loro vietato
lo stare in ozio, senza niun colore di darsi alla dapoccagine.
Non hanno magazzini da vini nè di cervogia,
nè luogo pubblico da meretrici, niun luogo da nascondersi,
niun ridotto di vizii; anzi la presenza di tanti occhi
fa la fatica onesta parer necessaria. Al costume di questo
popolo segue di necessità l’abbondanza, la quale tra tutti
si divide, e così non può essere tra loro alcun bisognoso.
Nel senato amaurotico ove (come dicemmo) ogn’anno
concorrono tre di ogni città, essendo manifesto che una
città abbia copia di qualche rendita, della quale un’altra
sia bisognosa, si provvede che la copia di una supplisca
alla povertà dell’altra senza prezzo alcuno. Anzi la città
che della sua copia avrà ajutato l’altra, senza pigliar da
quella cosa alcuna, ricorre ad una terza per qualche oggetto,
di che ella ha bisogno: quantunque non le abbia
dato il minimo che. Così tutta l’isola è come una sola
grande famiglia. Poichè è provveduto agli interni bisogni,
il che non giudicano aver fatto, se non si assicurano
per due anni, essendo incerta la raccolta del seguente;
quanto avanza, cioè gran copia di frumento, miele, lana,
lino, zafferano, porpore, veli, cera, sevo e cuojo, ed anco
animali portano ad altre regioni, alle quali donano del
tutto la settima parte, in pro degli indigenti, ed il rimanente
vendono per mediocre prezzo. Di questo commercio
riportano a casa non solamente le merci, delle quali
hanno bisogno nell’isola, che è per lo più il ferro, ma
eziandio buona somma d’argento e di oro. E da tale continua
consuetudine sono di tali cose mirabilmente copio-
138
si. Perciò non fanno differenza dal dare in credenza a
toccare il danaro, anzi hanno il più in crediti. Benchè
fanno pubblici istromenti, e vogliono che vi concorra
l’autorità dei luoghi, ove danno in credenza, e questa riscuotendo
a tempo i danari dai debitori, li mette
nell’erario e ne cava la usura fin a che gli Utopiensi li
dimandano; i quali non mai riscuotono di quelli la maggior
parte, non parendo loro cosa giusta pigliare dagli
altri quello, di che essi non si accomodano, e i debitori
pigliano frutto. Quando avviene che vogliano prestare
ad altra città danari, li pigliano da quella, che è loro debitrice;
e ciò pur fanno accadendo guerreggiare, al che
riservano tutto quel tesoro, che tengono nell’erario per
servirsene negli estremi pericoli, e subiti casi (specialmente
quando soldano con grossi stipendii soldati esterni,
i quali più volentieri mettono in pericolo, che i loro
cittadini) perchè sanno di certo che gl’inimici ancora si
sogliono comperare con danari. A quest’effetto conservano
un tesoro inestimabile, non già come tesoro; ma mi
vergogno narrare in che modo lo tengono, temendo che
non mi sia creduto, specialmente che io non lo crederei
a me stesso, se cogli occhi proprj non l’avessi veduto.
Ed è necessario che ogni cosa sia meno credibile, quanto
ella è dai costumi di chi la sta ad udire lontana: benchè
l’uomo prudente forse meno si meraviglierà, vedendo
i loro istituti tanto dai nostri dissimili, se ancora l’uso
dell’oro e dell’argento più si accomoda ai loro costumi,
che ai nostri. Certamente non usando essi il danaro, ma
tenendolo per quei casi che forse non avvengono mai,
139
l’oro e l’argento non è più stimato di quanto merita per
sua natura, cioè a giudizio di tutti è inferiore del ferro, il
quale a noi è tanto necessario, quanto il fuoco e l’acqua.
E già veggiamo l’oro e l’argento non aver dalla natura
virtù alcuna, della quale non possiamo mancare; se non
che la sciocchezza umana l’ha tenuto in prezzo, perchè
si trova di raro. Anzi la natura come pia madre ha posto
negli occhi di tutti quelle cose, che sono ottime, come
l’aria, l’acqua e la terra, ed ha nascosto quelle che poco
giovano. Se essi rinchiudessero questi metalli in una torre,
potrebbe il popolo sospettare che il principe od il senato
ne pigliasse qualche comodo, ingannando in qualche
guisa il popolo. Se poi ne facessero vasi, quando venisse
occasione di volerne far moneta per pagare i soldati,
forse spiacerebbe a molti privarsi di quei vasi che
usato avessero ai loro comodi. Essi per provvedere a tali
cose, hanno, siccome nelle altre cose, trovato una via
molto simile ai loro istituti, e dai nostri dissimile, la
quale non sarà facilmente creduta, se non dagli uomini
esperti. Essi bevono in vasi di terra e di vetro bellissimi,
e fanno vasi da immondizie e da orinare d’oro e
d’argento, ed anche catene e ceppi. A quelli che sono infami
pongono in dito, e attaccano alle orecchie anelli, o
catene d’oro al collo, e con oro cingono ad essi il capo.
Così pongono ogni loro studio che l’oro e l’argento
appo i lor popoli sia vilipeso. Così avviene che questi
metalli tanto grati alle altre nazioni, sono tanto vili appo
gli Utopiensi, che perdendoli tutti, non parrebbe loro di
aver perduto un danaro. Raccolgono nei lidi perle, e nel-
140
le rupi diamanti e piropi, i quali non vanno cercando,
ma avendoli trovati, li puliscono. Con questi ornano i
fanciulli, i quali si gloriano di tali ornamenti, e ne divengono
arroganti; ma poichè sono cresciuti, e veggono che
solamente i fanciulli usano di simili inezie, senza essere
dai padri ammoniti, per vergogna le lasciano, siccome i
nostri, poichè sono grandicelli, gittano le noci, i giocherelli
e simili inezie. Quanti diversi effetti partoriscono
negli uomini questi diversi istituti, non mai mi è paruto
vedere tanto manifestamente, quanto negli ambasciatori
degli Anemolii(16). Questi erano giunti ad Amauroto,
mentre ch’io mi vi trovava: e perchè venivano a trattare
di gran cose, tre cittadini di ogni città aveano precorso il
loro arrivo; e parimente gli ambasciatori delle genti vicine,
venuti prima. I quali sapendo i costumi degli Utopiensi,
che non onorano gli abiti sontuosi, e poco apprezzano
l’oro, anzi è tra loro biasimato, usavano di presentarsi
in vesti quanto meno potevano sontuose. Ma gli
Anemolj, ch’erano popoli lontani, e aveano poco commercio
cogli Utopiensi, intendendo come tutti vestivano
rozzamente, si diedero a credere, che facessero questo
per povertà, onde più arroganti che savi determinarono
di mostrarsi come Dei cogli abiti ornati, e movere i miseri
Utopiensi a meraviglia. Così entrarono nella città
tre ambasciatori con cento in compagnia vestiti a varj
colori, e molti di seta. Gli ambasciadori, cbe erano nobili
nel paese loro, aveano manti e collane d’oro, anelli
d’oro pendenti dalle orecchie, ed altre collane pendenti
dai capelli con gioie, e perle lampeggianti: ed in somma
141
erano ornati di quelle cose, che sono appo gli Utopiensi
o supplicj de’ servi, o biasimi d’uomini infami, ovvero
inezie di fanciulli. Era un giuoco mirare come si mostravano
arroganti, quando faceano comparazione dal loro
ornamento al vestire degli Utopiensi, perchè tutto il popolo
si era ridotto in piazza. Considerate ora quanto si
trovarono ingannati della loro speranza, e lontani da
quello che imaginavano di ottenere. Questo loro ornamento
fu giudicato cosa vergognosa dagli Utopiensi, eccetto
da pochi, i quali per giuste cause erano stati a vedere
altre nazioni; per il che salutando per signori ogni
minimo servo di quelli, pensarono che gli ambasciatori
fossero servi: e non gli onorarono punto. Avresti veduto
i fanciulli che avevano gettato le perle e le gioje, quando
le videro pendere dai capelli degli ambasciatori, mostrargli
alle madri dicendo: Eccoti o madre quello sciocco,
che usa perle e gioje come se fosse un bambino. La
madre da dovvero diceva: Taci figliuolo, perchè forse
colui è un buffone degli ambasciatori. Altri biasimavano
quelle catene d’oro con dire che erano tanto sottili, che
un servo le potrebbe rompere, e tanto larghe, che se le
potrebbe levare dal collo e fuggire. Gli ambasciatori stati
ivi due giorni, e vedendo quanto a vile vi era tenuto
l’oro, anzi più biasimato appo gli Utopiensi, che non era
appo loro in prezzo: e mirando le catene e i ceppi di un
servo fuggitivo, nei quali era più oro ed argento, che
non valeva ogni ornamento di tutti tre, deposero ogni lor
vago portamento, del quale prima andavano arroganti.
Poichè parlarono cogli Utopiensi, compresero come si
142
maravigliavano che un uomo potesse mirare una gioja
lampeggiante, al quale fosse lecito di mirare le stelle e il
il sole: e che alcuno si riputasse più nobile per il filo di
lana più sottile, quando che quello pure è stato portato
da una pecora, la quale perciò non è più che pecora. Si
meravigliano ancora che l’oro di sua natura così inutile
tanto venga stimato dalle altre genti, che l’uomo, per
causa del quale l’oro è in pregio, sia meno stimato che
l’oro; in tanto che alcuno rozzo e stupido tenga in servitù
molti nomini dabbene e savi, solamente perchè possede
molti danari. I quali se per fortuna o per qualche sottilità
delle leggi fossero condotti in mano del peggior
servo di quello, sarà egli astretto farsi servo del suo servo,
solamente per questo mutamento di posseder danari.
Mi meraviglio ed abbomino quelli che danno ai ricchi
quasi gli onori divini, non perchè loro siano obbligati,
nè debitori, ma solamente perchè sono ricchi, benchè
non sperino, vivendo quelli, aver pur un danaro de’ tanti
che possedono, conoscendoli miseri ed avari. Queste e
simili opinioni hanno bevuto gli Utopiensi parte col latte
nella fanciullezza, parte negli istituti della repubblica, i
quali da ogni inezia sono molto alieni, e parte dalla dottrina.
E benchè non molti sono in ciascuna città esenti
dalle fatiche ed applicati alle lettere, cioè quelli soli che
dalla fanciullezza mostrano acuto ingegno, e l’animo inchinato
alle buone arti; tuttavia tutti i fanciulli vengono
ammaestrati nelle lettere e buona parte del popolo maschi
e femmine occupano in istudj quelle ore che avanzano
loro da lavorare. Imparano le scienze nella loro fa-
143
vella, la quale è copiosa di parole, soave ad udire, e innanzi
ogn’altra fedelissima interprete dell’animo. Questa
istessa, benchè in molti luoghi corrotta e diversa, in
ogni parte di quel clima è in uso. Prima che vi andassi,
non avevano pur udito il nome di quei filosofi, che sono
di qua illustri; nondimeno essi hanno trovato in musica,
logica, aritmetica e matematica quasi le istesse cose, che
trovarono i nostri antichi. Ma siccome ragguagliano
quasi in ogni cosa gli antichi, così nelle nuove invenzioni
di logica sono molto inferiori: perchè non hanno niuna
regola delle restrizioni, amplificazioni e supposizioni
trovate acutamente nella logica, che tra noi dai fanciulli
s’impara. Le seconde intenzioni tanto sono dal loro discorso
lontane, che non possono comprendere l’uomo in
comune ed universale, quantunque noi l’abbiamo fatto
grande come un gigante e quasi lo mostriamo a dito. Ma
nel corso delle stelle e movimento dei cieli sono peritissimi;
ed hanno trovato stromenti di figure diverse, colle
quali comprendono a pieno i movimenti del sole, della
luna e delle stelle, che sono nel loro orizzonte. Non sanno
cosa alcuna dell’amicizia ed inimicizia delle stelle,
nè dell’astrologia indovinatrice, anzi ingannatrice. Conoscono
molto avanti le piogge, i venti e le tempeste per
certi lor segni. Ma circa le cause di tutte le cose, del corso
e salso del mare, ed in somma dell’origine e natura
del cielo e del mondo, dicono parte come i nostri filosofi;
parte son come quelli di vario parere. Circa la filosofia
morale, disputano delle stesse cose come noi. Ragionano
dei beni dell’anima, del corpo e degli esterni; se
144
tutti si possono chiamar beni, o solamente quelli
dell’animo. Disputano della virtù e della voluttà, ma la
principale controversia tra di loro è in qual cosa consista
la vera felicità dell’uomo, ovvero se consista in più
cose. Ma inchinano più del giusto a credere che nella
voluttà consista il viver felice. E si servono a questo della
religione, la quale però appresso di loro è grave e severa:
nè mai disputano della felicità, che non uniscano
insieme alcuni principj tolti dalla religione e dalla filosofia.
Senza i quali pensano che la ragione umana sia
tronca e debole ad investigare la vera felicità. Quei principii
sono tali; che l’anima è immortale, nata per benignità
di Dio alla felicità; che alle virtù e buone opere
nostre sono assegnati i premj, ed alle scelleragini i supplici.
Benchè tali principj vengano dalla religione, tuttavia
pensano che siano con ragioni e fondamenti umani
condotti a crederli, ed a concederli, e levati via questi,
confermano arditamente, che ciascuno quantunque stupido
è astretto di cercare la voluttà a dritto e a torto: e solamente
ha da mirare che un minor diletto non impedisca
il maggiore, onde ne segua qualche affanno, che annulli
l’avuto solazzo. Perchè il seguire la virtù, così
aspra e malagevole, e non solamente cacciar da se il vivere
soave, ma sofferire ancora spontaneamente i dolori,
non porta frutto alcuno, se dopo morte non ne segue alcun
premio, avendo passato la vita miseramente: e questo
giudicano estrema pazzia. Tuttavia non pongono la
felicità in ogni voluttà, ma solamente nell’onestà; perchè
la natura è tratta a quella, come ad un sommo bene
145
dalla virtù, nella quale sola la parte avversa mette la felicità.
Questi dicono che la virtù è un vivere secondo la
natura, e che siamo creati a questo disposti. E che segue
la natura colui, il quale nel bramare e fuggire le cose ubbidisce
alla ragione, la quale primieramente muove gli
animi umani ad onorare la divina maestà, alla quale siamo
tenuti dell’essere, e per cui siamo capaci della felicità;
secondariamente ci ammonisce e desta, che cerchiamo
di vivere lietamente con minore ansietà che si può, e
che ajutiamo gli altri ad ottenere questo bene, per la naturale
compagnia che è tra noi. Niuno mai ha seguito
tanto rigidamente la virtù, nè dato si è tanto ostinatamente
alle fatiche e vigilie, ch’egli non sia stato pronto
ad alleggerire le altrui miserie, ed a commendare per
cosa umana che l’uomo studj a giovare all’uomo, e mitigando
i travagli di quello, ricondurlo dalle miserie a vita
tranquilla e sollazzevole. E perchè non debbe la natura
istigarci che facciano lo stesso ufficio verso noi stessi?
Perciocchè o la vita sollazzevole e gioconda è cattiva, e
non solamente non devi porgere ajuto ad alcuno di ottenerla,
anzi quanto puoi devi privarne ciascuno, come di
cosa perniciosa e mortifera; o è buona, e tanto più devi
procurarla a te stesso, a cui non meno sei tenuto di provvedere
che agli altri. Dicono adunque: la natura ci assegna
la vita gioconda, cioè la voluttà, come un fine di tutte
le opere nostre; e vogliono che il viver secondo la natura
sia il vivere virtuoso. Ma invitandoci la natura ad
ajutarci l’un l’altro (il che fa ella meritamente, quando
che niuno è di tanta dignità, che la natura si pigli cura di
146
lui solo, perchè essa porge il seno a tutti quelli, ai quali
ha dato una forma comune) essa stessa veramente ti ammonisce,
che non procuri i tuoi comodi con l’altrui incomodo.
Vogliono adunque che si osservino le convenzioni
fatte tra privati uomini, ed anche le pubbliche leggi
fatte da buono principe, o da un popolo che non sia oppresso
da tirannia, le quali assegnano il modo a comunicare
i comodi e godere le voluttà. Gli è poi gran prudenza
se, non offendendo queste leggi, si cerca il proprio
comodo; ed è singolare pietà studiare al comodo universale.
Ma egli è strana e spiacevole ingiuria volersi pigliare
solazzo con altrui dispiacere: ed è singolare benignità
spogliare se medesimo di qualche sollazzo per accomodarne
altri; il che tuttavia riporta comodo uguale al
danno che se ne sente. Perchè viene con beneficj ricompensato;
e la coscienza dell’opera buona, con la memoria
della carità e benevolenza di coloro ai quali hai fatto
benefìcio, porta all’animo più diletto che non avrebbe
dato quella voluttà corporale, dalla quale ti sei astenuto.
Finalmente (come la religione persuade all’animo umano)
Iddio con perpetua allegrezza ricompensa una breve
voluttà. Così vogliono che si considerino le operazioni
nostre, e tra queste le virtù, mirando finalmente alle voluttà,
cha sono della felicità il fine. Chiamano essi voluttà
ogni movimento o fermezza di animo e di corpo, nel
quale l’uomo dalla natura guidato si diletta di trovarsi.
Nè senza causa vi aggiungono l’appetito della natura.
Perchè siccome non solamente il sentimento, ma la dritta
ragione segue ogni cosa, che è per natura gioconda,
147
alla quale non si vada con ingiuria altrui, nè perdendo
maggior solazzo, o incontrando fatica; così quelle cose
reputano inutili alla felicità, che sono dagli uomini contra
l’ordine di natura reputate dolci: anzi le tengono per
nocive, quando che avendo una fiata occupato l’uomo,
tanto lo adescano con falso diletto, che non lo lasciano
pigliar piacere dei veri solazzi. Sono veramente assai
cose, che di loro natura non hanno alcuna soavità, anzi
non poca amaritudine; ma per il diletto dei tristi piaceri
non solamente sono annoverate tra le più gioconde voluttà,
ma eziandio tra le principali cause della vita nostra.
Tra queste sorta di falsa voluttà annoverano la soddisfazion
di coloro, i quali per esser meglio vestiti, si reputano
migliori; nel che pigliano doppio errore, riputando
migliore la loro veste, che l’altrui, e se medesimi degli
altri più degni. Qual maggior dignità ha il filo di lana
più sottile che il grosso, considerando l’uso della veste?
Tuttavia molti si tengono da più, per esser più pomposamente
vestiti, e si sdegnano, quando non si veggono stimare
più che gli altri; il che è una sciocchezza considerando
quanto sia vano l’onore dagli abiti causato. Che
natural diletto porge, che alcuno si cavi la beretta, o pieghi
le ginocchia ad onorarti? Ti gioverà forse questo a
levarti il dolore del capo o dei ginocchi? Quanto soavemente
impazziscono in questa falsa imagine di voluttà
coloro, che si tengon nobili, per esser nati da progenie,
la quale per molte età sia stata ricca, quando che non conoscono
altra nobiltà. Benchè non si tengono men nobili,
quantunque non sia lasciata loro da’ maggiori alcuna
148
facoltà, ovvero essi l’abbiano consumata. A questi si aggiungono
coloro che si dilettano di gioje, e si reputano
Dei, quando avviene che ne abbiano qualcuna di gran
prezzo, e molto stimata a sua età. Non la comprano legata
in oro, anzi la vogliono nuda, e con sicurtà che sia
buona, tanto temono di essere ingannati. Nondimeno
all’occhio umano tanto diletta una gioja fina quanto una
finta, non discernendo una dall’altra. Dovrebbe tanto
valere la gioja fina come la finta appresso di te, che non
sei in questo giudizio differente da un cieco. Che diremo
noi di coloro che conservano soverchie ricchezze solamente
per mirarle a lor solazzo? Godono essi la vera felicità,
oppure si trovano ingannati da falsi diletti? Ma
quei che nascondono il tesoro, il quale forse non più vedranno,
stando in pensiero di non perderlo, lo perdono.
Mettendolo sotterra, ove nè a te nè agli altri può servire,
nondimeno tu ti rallegri poichè hai nascosto il tesoro: e
stai con l’animo sicuro. Se alcuno però te lo rubasse dieci
anni prima che tu morissi, ove tu ignori un tal furto,
che nuocerebbe esso per tutto questo spazio alla tua felicità?
Fra gli amatori di vane allegrezze annoverano gli
Utopiensi i giuocatori di dadi o di carte, i quai giuochi
solamente per nome conoscono, e parimenti i cacciatori
e gli uccellatori, e dicono: Che sollazzo è gettare i dadi,
poichè gettandoli spesso l’uomo dovrebbe saziarsi? non
è piuttosto un fastidio udir abbajare i cani? che maggior
diletto è veder un cane seguire la lepre, che un cane
l’altro cane? perchè veramente si vede la velocità del
correre a questo ed a quel modo. Se ti diletta veder stra-
149
ziare ed uccidere quell’animaletto, dovresti piuttosto
moverti a pietà mirando la lepre impotente, fuggitiva, timida
ed innocente esser stracciata dal cane gagliardo,
feroce e crudele. Così gli Utopiensi hanno rifiutato al
tutto quest’esercizio del cacciare, come arte conveniente
ai beccaj, la quale hanno commessa ai servi. Anzi giudicano
che il cacciare sia di quella la più infima parte, stimando
le altre piu utili ed oneste, quando si ammazzano
gli animali per la necessità del vivere umano, laddove il
cacciatore solamente si piglia piacere della morte del
misero animale. Il qual desiderio pensano essi che nasca
da un animo alla crudeltà disposto. Queste ed altre cose
innumerabili, delle quali gli uomini altrove pigliano diletto,
sono appo gli Utopiensi sprezzate, come di niuna
soavità. E benchè piacciano al volgo, il quale pervertendo
la natura, reputa dolci le cose amare: siccome le femmine
gravide, le quali tengono la pece ed il sevo per più
dolce che il miele, perchè hanno corrotto il gusto; il
quale però non può mutare la natura di niuna cosa, e
specialmente della voluttà. Fanno diverse specie di voluttà;
alcune assegnano al corpo, alcune all’anima.
All’anima danno l’intelletto e quella dolcezza che nasce
dal contemplare la verità. Vi si aggiunge la gioconda
memoria di aver vissuto bene. La voluttà del corpo dividono
in due forme, e la prima, secondo essi, è quella che
diletta il sentimento e ristora le parti che sono in noi da
calor naturale consumate, il che si fa col cibo e col bere.
Perchè evacuandosi il corpo nel mandar fuori le cose soverchie
scaricando il ventre, o generando, o levando il
150
prurito in qualche parte è di mestiero che sia riempiuto.
Evvi un’altra voluttà, che non dona ai sentimenti nostri
cosa alcuna da loro bramata, nè di alcuna li priva, ma
solamente con occulta forza porge loro diletto: come è
la musica. Mettono un’altra forma di corporal voluttà, la
quale consiste nel quieto e tranquillo stato del corpo: e
nomasi da tutti sanità. Questa, non essendo da qualche
dolore afflitta per se stessa, diletta senz’altro sollazzo
esteriore. E quantunque essa non si mostri così manifestamente
ai sentimenti, come la voluttà del mangiare e
del bere, tuttavia tutti l’hanno per grandissima voluttà, e
gli Utopiensi la tengono per fondamento di ogni sollazzo,
senza il quale ogni voluttà è nulla. Perchè mancare
di dolore senza sanità, è piuttosto uno stupore che un
sollazzo. Quella opinione che dice la sanità non essere
voluttà, perchè non si sente, se non con qualche esterno
movimento, è da loro al tutto rifiutata. Anzi tutti concordevolmente
affermano la sanità essere una speciale e
primaria dilettazione. E dicono: se nella infermità è il
dolore, mortal nemico della voluttà, perchè non sarà nella
quiete della sanità una giocondezza singolare? Non
fanno differenza che si dica l’infermità istessa esser dolore,
ovvero il dolore essere l’infermità, perchè ne riesce
la medesima sentenza. Ma se la sanità è la voluttà istessa,
ovvero necessariamente partorisce voluttà, come il
fuoco produce caldo; veramente ad ogni modo segue,
che la ferma sanità riesca una vita gioconda. Oltre di
questo dicono, quando mangiano ristorarsi col cibo la
sanità, la quale per la fame cominciava ad indebolirsi; e
151
quando è tornata al solito vigore, sentiamo la giocondità
del mangiare, tanto maggiormente, quanto la sanità è
più robusta. Così appare esser falso quello che taluni asseriscono,
che la sanità non si sente. Il che non può avvenire
in uomo che non sia stupido, e per conseguente
non sano. Abbracciano adunque primieramente quelle
voluttà dell’animo (che sono appo loro le principali) le
quali sanno che nascono da virtù e dalla buona coscienza.
Ma pongon la sanità innanzi ad ogni altro corporeo
diletto. Nè vogliono che si brami il mangiare ed il bere o
altra voluttà, se non per conservare la sanità. Perchè non
sono tali cose da loro istesse gioconde, ma in quanto
mantengono la sanità. Però debbe il savio piuttosto cercare
di non essere occupato dall’infermità, che bramare
la medicina; di tener lungi i dolori, che d’aver bisogno
di voluttà, le quali si conviene temperare. Se alcuno per
esse si tiene beato, egli è astretto di confessare che allora
sarà felicissimo, quando da fame, sete, pizzicore sarà
travagliato, le quali cose veggiamo manifestamente esser
sozze e misere. Queste adunque sono le meno sincere
voluttà, le quali ci avvengono solamente per medicare
ai contrarj dolori; perchè col diletto di mangiare si accompagna
la fame, e con legge non uguale. Perchè il dolore
tanto è più lungo, quanto è maggiore; e nascendo
innanzi al piacere, non si estingue se non insieme col
piacere. Stimano essi poco queste voluttà, se non quando
la necessità li stringe di usarle. Nondimeno godono
queste ancora, e ne ringraziano la natura madre, la quale
adesca con soavità i suoi figliuoli a quello che era ne-
152
cessità che si facesse. Con quanto fastidio vivremmo, se
avessimo a cacciar la fame e la sete con pozioni e veleni,
siccome cacciamo le altre infermità? Ma abbracciano
lietamente la bellezza, le forze e la destrezza, come doni
giocondi e propri della natura. Gli altri solazzi che per le
orecchie, per gli occhi e per le nari passano all’anima, i
quali sono proprj dell’uomo (perchè niuno animale considera
la bellezza del mondo, nè sente gli odori, se non
quanto fa mestiero per discernere il cibo, nè si diletta
della varietà de’ suoni) questi dico volentieri accettano.
In tutti però tengono tale misura che il maggior sollazzo
non sia dal minore impedito. Ma sprezzare la bellezza,
diminuire le forze, mutare la destrezza in pigrizia, estenuare
con digiuni il corpo, fare ingiuria alla sanità, e rifiutare
gli altri sollazzi dalla natura a noi concessi, se
non fosse per giovare alla repubblica, reputano una
sciocchezza, e che questo nasca da un animo crudele e
ingrato alla natura, i cui beneficj rifiuta, come sdegnandosi
di essergliene debitore, e specialmente facendosi
questo per una vana ombra di virtù, ovvero per sopportare
con minor dispiacere le avversità, le quali forse non
mai verranno. Questo è il loro parere circa la virtù e la
voluttà, e se Dio non ne inspira ad essi un migliore, credono
che non se ne trovi altro più saggio. Non mi occuperò
a disputare della verità della loro opinione, perchè
non lo concede il tempo; ed io mi sono posto a narrare
gl’istituti degli Utopiensi non a difenderli. E siano questi
decreti quali si vogliano, io tengo di certo che non si
trovi più degno popolo, nè repubblica più felice. Sono di
153
corpo agile e vigoroso, e di maggior forze che non promette
la loro statura, la quale però non è picciola. E
quantunque il loro terreno sia mal fertile, e l’aria poco
sana, tuttavia con temperato vivere si mantengono contra
l’aria, e con l’industria vincono la terra di maniera,
che in niun luogo vengono più copiosi ricolti, nè animali
meglio nodriti, ed i corpi umani più vivaci e meno alle
infermità soggetti. Perciò non vedrai solamente fare da
loro quelle opere, che fanno i lavoratori altrove per vincere
la malignità del terreno. Anzi ivi si vede una selva
cavata dalle radici ed un’altra piantata altrove; nel che
non si è considerata la fertilità del terreno, ma il comodo
di condurre i frutti, le legne o altre cose al mare o al fiume,
ovvero alle città. Sono gli Utopiesi gente benigna e
piacevole, che ama il riposo: e quando fa mestieri, paziente
della fatica, specialmente negli studj che ornano
l’animo. Essi avendo da me inteso delle lettere e dottrina
de’ Greci, perchè delle cose latine altro non commendano,
che le storie ed i poeti, si mostrarono molto bramosi
ch’io di quelle lettere gli ammaestrassi. Così io cominciai
a legger loro, piuttosto, acciò non credessero
ch’io schivassi la fatica, che io ne sperassi frutto alcuno.
Ma avendo letto alquanti giorni, la loro diligenza mi
diede ardire che non sarebbe vana la mia sollecitudine.
Perchè cominciarono a scrivere le lettere, pronunciare le
parole, e mandarle con tanta prestezza a memoria, che
mi parve cosa miracolosa: e molti per ordine del senato
furono destinati a questo studio, cioè quelli del numero
de’ studenti, che erano di più acuto ingegno e di matura
154
età. Così in tre anni leggevano speditamente ogni autore
greco, purchè non fosse corrotto il libro. Ed essi, per
mio avviso, tante agevolmente impararono quelle lettere,
perch’io credo che derivassero dai Greci; quandochè
nella loro favella, che è persiana, sono molte parole greche,
specialmente nel nominare le città ed i magistrati.
Io la quarta fiata che navigai alla volta loro, mi posi nella
nave buon numero di libri in luogo di mercanzie;
avendo meco disposto di non tornar mai, piuttosto che
tornar presto. Così lasciai a quelli molte opere di Platone
e di Aristotile, e Teofrasto delle piante, ma troncato
in più luoghi. Perchè essendo tenuto con poca cura nella
nave, una scimia ne cavò fuori alquante carte, e stracciatele
giuocando, le avea sparse qua e là. Hanno in gramatica
Costantino Lascari; non avea portato meco Teodoro
Gaza, nè altro dizionario che Esichio e Dioscoride. Tengono
carissimi i libretti di Plutarco, e si dilettano delle
piacevolezze di Luciano. Dei poeti hanno Aristofane,
Omero, Euripide e Sofocle in forma piccola di Aldo.
Degli storici, Tucidide, Erodoto ed Erodiano. In medicina
Tricio Arpino mio compagno avea portato alcune
opere di Ippocrate, e il Microtecne di Galeno, i quai libri
tengono in gran pregio. E quantunque meno sono bisognosi
della medicina che qualunque altra nazione, tuttavia
è presso di loro onorata più che in altro paese, perchè
l’annoverano tra le parti principali ed utilissime della
filosofia; ed investigando le cose di natura con l’ajuto
di questa, si danno a credere non solamente di prendere
gran diletto, ma eziandio di aggradirsi sommamente
155
all’autore e artefice di quella. Pensando ch’egli (come
fanno gli altri artefici) abbia posto innanzi agli occhi
dell’uomo, il qual solo ha fatto di tal cognizione capace,
questa macchina, acciocchè la consideri: e che più gli
sia caro l’uomo, che considera con ammirazione le degnissime
opere sue, che colui, il quale, come animale
senza intelletto e stupido, non si cura di contemplare
questo mirabile spettacolo. Così gl’ingegni degli Utopiensi
nelle lettere esercitati vagliono mirabilmente a
trovare le arti utili ai comodi della vita. Ma sono a noi
debitori di due, cioè di imprimere libri e fare la carta
bambacina; benchè in buona parte da loro stessi ne vennero
a perfetta cognizione. Perchè mostrando loro le lettere
di Aldo impresse in tale carta, e ragionando dello
stampare libri, intesero assai più oltre di quello, che dicevamo,
niuno di noi essendo molto esperto nè dell’una
nè dell’altra. Essi di subito fecero congettura come si
potessero fare cotali arti: e perchè scrivevano per addietro
in pelli, in scorza ed in papiro, tentarono subito di
fare la carta e stampare. Nè riuscendo bene a principio,
fecero tante fiate l’esperienza, che appresero alfine ciò
che desideravano; e se non mancassero loro copie,
avrebbero già stampato assai libri greci. Ma non hanno
altri libri che i sopraddetti, e di questi hanno stampato
gran numero. Ognuno che sia di singolare ingegno, ovvero
che abbia veduto buona parte del mondo, il quale
pervenga a loro per mirarne gl’istituti, è accolto benignamente,
perchè odono volentieri ciò che si fa negli altri
paesi. Pochi mercanti vi vanno. Che altro vi possono
156
portare, che ferro? e che vorrebbero portar via altro che
oro? Ma essi vogliono in persona condurre altrove le
cose loro, per aver cognizione degli altri paesi, e non si
scordare la perizia del navigare.
157
DEI SERVI.
Non tengono per servi quelli che sono presi in guerra,
ancorchè fosse fatta da loro, nè i figliuoli dei servi, nè
alcuno che serva appo altre nazioni, i quali possono
comperare; ma quelli che per qualche mancamento sono
da loro dannati alla servitù, ovvero altri di esterne nazioni,
che sono lor dati a tale supplicio, per qualche delitto;
il che avviene sovente, e molti ne hanno per vilissimo
prezzo. Tengono questi servi in continua fatica, ed in catene,
ma trattano i loro proprj più duramente, giudicando
che siano incorreggibili e degni di più grave supplicio,
poichè essendo tanto egregiamente nodriti alla virtù;
non si hanno potuto raffrenare dal vizio. Evvi
un’altra sorte di servi, quando alcuno di altra nazione
avvezzo alla fatica, povero e di bassa condizione elegge
di servir loro. Questi (eccetto che danno ad essi alquanto
più fatica) trattano benignamente, e li tengono poco
meno che per loro cittadini. Se alcuno vuole partirsi (il
che di rado avviene) non lo tengono contra sua voglia,
nè lo mandano via senza doni. Gl’infermi, come dicemmo,
trattano con gran carità, non tralasciando cosa alcuna
circa le medicine ed il governo del vivere, che vaglia
a rendere a quelli la sanità. Se alcuno è incurabile, tenendogli
compagnia, parlando con lui, e servendolo allegeriscono
la sua calamità. Che se l’infermità sua è di
158
perpetuo dolore, i sacerdoti ed il magistrato lo confortano,
che essendo già inetto agli ufficj della vita, molesto
agli altri e grave a se stesso, non voglia sopravvivere
alla propria morte, e nodrire seco la pestifera infermità:
e che essendogli la vita un tormento, non dubiti di morire:
anzi che, avendo buona speranza, liberi se stesso da
sì acerbo carcere, o si lasci dagli altri liberare(17); e che
farà opera da prudente, quando che le calamità saranno
da lui lasciate morendo, non i comodi: oltre che seguendo
il consiglio dei sacerdoti interpreti degli Dei, farà
opera santa e pia. Coloro che sono a questo persuasi, ovvero
con astinenza finiscono la vita, ovvero dormendo
sono uccisi. Ma non ne fanno morire alcuno contra sua
voglia, nè mancano di servirlo nell’infermità parendo
loro che questa sia onorata cosa. Ma se alcuno si uccide
senza il consentimento dei sacerdoti e del magistrato,
egli senza esser sepolto viene gettato in una palude. Le
femmine non si maritano innanzi degli anni dodici, ed i
maschi dei sedici. Se il maschio o la femmina sono trovati
a lussuriare innanzi al matrimonio, vengono puniti
gravemente, e privati in perpetuo del matrimonio medesimo,
ove il principe non si muova a pietà di perdonar
loro tal fallo. Il padre e la madre di famiglia, sotto il governo
dei quali avviene tal mancamento, sono infamati,
come poco attenti al dover loro. E il motivo di tanta severa
punizione è il prevedere che pochi si mariterebbero
volentieri, per non vivere tutti gli anni con una sola, e
non tollerar le molestie del matrimonio, quando fossero
avvezzi a liberi piaceri. Nell’eleggere le mogli tengono
159
un modo a mio parere ridicoloso, ma riputato da loro
prudentissimo. Una onesta matrona mostra la vergine, o
vedova che sia, nuda allo sposo; e parimente un uomo di
gravità mostra il giovane nudo alla giovinetta. E biasimando
io questo costume come inetto, essi all’incontro
risposero che si meravigliavano assai della pazzia delle
altre genti, le quali nel comperare un cavallo, ove si tratta
di pochi danari, vanno tanto cautamente che lo vogliono
vedere senza sella, acciocchè sotto quella non
avesse qualche piaga, e in elegger la moglie, la quale
può dare o sollievo o dispiacere mentre che dura la vita,
sono tanto negligenti, che si contentano di veder la donna
quasi tutta coperta, anzi di non vederne che il volto: e
tuttavia potrebbe essa nascondere qualche diffetto, pel
quale non mai si vorrebbe averla presa. Nè tutti sono di
tanta sapienza, che mirino solamente ai costumi; anzi
nei matrimonj dei savi uomini, le doti del corpo fanno
più grati i doni dell’animo. E veramente tale bruttura
potrebbe nascondersi sotto gli abiti, che la moglie sempre
fosse odiosa al marito; ed a questo si debbe provvedere
con leggi, prima che segua l’inganno, quando che
essi soli di tutte quelle nazioni sono contenti di una sola
moglie, nè si scioglie il matrimonio se non per l’adulterio,
o per altra intollerabile molestia. In tali casi il senato
concede all’innocente di rimaritarsi, ed il colpevole resta
infame e privo in perpetuo del matrimonio. Non vogliono
che la moglie non colpevole sia ripudiata contra
sua voglia, ancorchè cadesse in qualche calamità del
corpo; parendo loro una crudeltà, che si abbandoni la
160
persona, quando ha maggior bisogno di consolazione;
perchè la vecchiezza, che porta con se infermità, ed è
l’infermità stessa sarebbe dalla compagnia abbandonata.
Avviene alle fiate, che i conjugi non si confacendo dei
costumi, e trovando amendue con chi sperano di vivere
più soavemente, si separano, e rimaritansi, con l’autorità
però del senato, il quale non ammette il divorzio, se prima
non ne conosca e non ne fa dalle proprie donne investigare
le cause. Ed anco si rende difficile a questo, acciocchè
non si speri di mutar facilmente il matrimonio.
Gli adulteri si puniscono con durissima servitù: e se alcun
di essi non era celibe, si concede che, i conjugi offesi,
ripudiati gli adulteri, si maritino insieme, ovvero con
altri. Ma se quello che è offeso, tanto ama l’offensore
che non voglia fare divorzio, non gli è vietato di mantenere
il matrimonio, purchè voglia seguire nell’opera il
dannato. E sovente è avvenuto, che la sollecita pazienza
dell’innocente ha ottenuto la libertà al colpevole. Ma chi
adultera dopo questo perdono, è punito nella testa. Alle
altre colpe non si assegna determinato supplicio, ma secondo
il mancamento segue il supplicio più o men grave
come pare al senato. I mariti castigano le mogli, i padri i
figliuoli, se non fosse qualche enorme mancamento, che
si dovesse punire pubblicamente. Ma quasi tutte le gravi
colpe sono punite con servitù, il che non meno spiace
agli scellerati, ed è più comodo alla repubblica che ucciderli,
perchè giovano più con la fatica che con la morte,
e con l’esempio continuo ammoniscono gli altri a guardarsi
da simili colpe. Se in tale stato sono perversi ed
161
inobbedienti, allora come bestie indomite gli uccidono. I
pazienti non sono fuori di speranza, che tollerando i travagli
e le fatiche, e mostrando che più loro spiaccia il
peccato, che la penitenza non siano francati o venga loro
mitigata la servitù per autorità del principe o suffragi del
popolo. Non meno puniscono chi ha provocato alcuna
persona a lussuria, che se avesse commesso l’errore; parendo
loro che la volontà determinata a peccare, ancorchè
non possa venire ad effetto, sia degna dello stesso
supplicio. Si pigliano piacere de’ buffoni, ma non è lecito
far loro ingiuria. Nè gli danno in governo a chi non si
diletta delle loro facezie, temendo che non siano ben
trattati. Non si concede il farsi beffa d’alcuno, che sia
tronco o sciancato, parendo sconvenevole schernire quel
vizio, che è venuto nell’uomo senza sua colpa. Siccome
tengono per da poco chi non ha cura di conservarsi la
bellezza naturale, così biasimano quelli che con belletti
studiano di aumentarla; avendo per certo che la bontà
dei costumi assai più vale a render grata la moglie al
marito, che alcuna bellezza corporale. Non solamente si
rimangono dalle sceleragini per tema dei supplicj, ma
sono invitati alle virtù con egregi onori. Rizzano nella
piazza statue agli uomini, che per la repubblica hanno
fatto qualche degna impresa, acciocchè si conservi la
memoria delle opere illustri, ed i loro discendenti siano
alla virtù incitati. Chi cerca di avere alcun magistrato ne
viene privato al tutto. Vivono assieme amichevolmente,
perchè i magistrati non sono terribili; si chiamano padri,
e si portano da padri; ed i popoli gli onorano spontanea-
162
mente. Il principe non è dagli altri conosciuto per diadema
o corona, ma per un manipolo di frumento, che gli
viene portato innanzi, ed il pontefice per un torchio.
Hanno poche leggi, e biasimano gli altri popoli, che empiono
di leggi e d’interpreti smisurati volumi. Parendo
loro che sia iniquità obbligare a tante leggi l’uomo, che
non si possono leggere, e tanto oscure, che non siano intese.
Non ammettono avvocati, anzi vogliono che ognuno
in giudizio dica la sua ragione, perchè in tal guisa si
disputa meno, e meglio si cava la verità senza ornamento
di parole. Il giudice sollecitamente spedisce ogni causa,
e favorisce agli ingegni semplici contro i malvagi ed
accorti: il che a fatica si può osservare appo le altre nazioni
tra tante dubbiose leggi. Appo loro ciascuno è giureconsulto,
perchè hanno pochissime leggi, e commendano
sommamente la più semplice interpretazione, che
loro si dia. Perchè la sottile interpretazione non può esser
da tutti intesa; il che è contra la intenzione delle leggi,
le quali si danno, acciocchè siano a tutti manifeste. I
popoli vicini, che sono liberi, ma dei quali molti hanno
sofferto la tirannia, mossi da queste virtù, dimandano
dagli Utopiensi i magistrati per un anno, ed anco per
cinque; e quando hanno fornito il loro ufficio, li rimandano
onorevolmente, e ne conducono degli altri. Ed in
vero questi popoli ottimamente provveggono alla loro
repubblica, la cui salute o rovina dipende dai costumi
dei magistrati, nè potevano fare miglior elezione. Quandochè
sono gli Utopiensi di una tale costanza, che non si
piegano a prezzo alcuno, ed avendo da ritornare alla pa-
163
tria, non hanno occasione di far ingiustizia, massimamente
che non conoscendo quei cittadini, non possono
da alcuno agevolmente esser persuasi di contravvenire
al giusto. Questi due mali, amore ed avarizia quando
hanno potere nei giudizj, pervertono ogni giustizia, ed
indeboliscono ogni nervo della repubblica. Gli Utopiani
chiamano compagni quei popoli, ai quali danno magistrati,
ed amici quelli a chi hanno fatto beneficj. Essi
non fanno con altre genti confederazioni, le quali tanto
sovente appo altri popoli sono fatte e rinovate. Perchè si
hanno da fare, dicono essi, confederazioni alcune, bastando
ad amicarsi l’uomo la comune natura, la quale
non giovando, che potranno più valere le parole? Sono
in questo parere, perchè le convenzioni e patti tra principi
in quei paesi, poco fedelmente si osservano. Ma in
Europa e specialmente dove regna la fede di Cristo, si
conservano inviolabilmente le confederazioni, parte per
giustizia e bontà dei principi, parte per riverenza e timore
dei sommi pontefici; i quali, siccome non commettono
cosa alcuna, che contravvenga alla religione, così comandano
che gli altri principi mantengano le loro promesse,
e con scomuniche severissime sforzano i contumaci
a serbare la loro fede. E meritamente in vero tengono
per biasimo vituperevole, che non si osservi fede
nelle confederazioni da coloro, che specialmente si nominano
fedeli(18). Ma in quel nuovo mondo tanto dal nostro
distante, quanto sono ancora i costumi dissimili,
non si fidano di confederazioni, quando che non si possono
fare con tante cerimonie e sagramenti, che non si
164
trovi nelle parole qualche calunnia postavi a studio, e
non vi si occulti un uncino da eluderle. Ed è singolar
cosa che se trovano simili accortezze o inganni nei contratti
degli uomini privati, li dannano come sagrileghi e
degni di morte quegli stessi consiglieri de’ principi, i
quali si gloriano d’essere stati autori delle fraudolente
confederazioni, acciocchè si potessero rompere. Indi avviene,
che non vi sia altra giustizia, se non l’umile e plebea,
e molto inferiore dalla regale maestà. Come se vi
fossero due giustizie, una del volgo umile e bassa, la
quale avvinta con molti nodi, non ardisca levarsi, l’altra
dei principi alta e magnifica, alla quale tanto sia lecito
quanto loro piace. Io credo che gli Utopiensi non facciano
alcuna confederazione perchè i principi di quel paese
tanto sono a contravvenire ad ogni loro promessa disposti:
tuttavia, se vivessero in queste parti, muterebbero
proposito. Benchè essi giudicano, ancorchè fossero osservate
le confederazioni ottimamente, che non sia bene
il farle; perchè si potrebbero tenere per nemici quei popoli,
che sono divisi con un rivo o con un colle, non
avendo tra loro tai segni di parti, ed indi guerreggiare
insieme. Anzi fatte le confederazioni, non si stringe però
l’amicizia, e resta la licenza di saccheggiare, non avendosi
per imprudenza potuto porre nella confederazione
ogni cautela sufficiente a ribattere l’ingiuria. Ma essi
all’incontro giudicano che non si tenga alcuno per nemico,
dal quale non si abbia ricevuto ingiuria. E che basti
la compagnia naturale in luogo di confederazione: per-
165
chè gli uomini più volentieri e con maggior fermezza si
uniscono cogli animi, che per confederazioni o parole.
166
DELLA GUERRA.
Gli Utopiensi hanno sommamente in abominazione la
guerra, come cosa d’animali, di cui però niuno così lungamente
guerreggia, come l’uomo: nè tengono altra
cosa più biasimevole, che la gloria acquistata coll’armi.
E quantunque si esercitino nella milizia non solamente i
maschi ma le femmine ancora a certi giorni, per non essere
al combattere inetti, quando fosse il bisogno; tuttavolta
non si mettono a guerreggiare inconsideratamente,
ma solo per difendere i loro confini, o per liberare dalla
tirannia e servitù qualche misero popolo. Benchè talvolta
porgono ajuto agli amici, non solamente perchè si difendano,
ma eziandio perchè ricompensino le avute ingiurie.
Questo però fanno, essendone dimandato loro
consiglio, prima che si venga alle armi, ed ove sia provata
la causa per giusta; cioè quando gl’inimici di quelli,
facendo correrie, abbiano cqndotto via il bottino, e ridomandato,
non l’abbiano voluto rendere. Ma guerra più
atroce intraprendono, quando i loro mercanti sono maltrattati
o calunniati ingiustamente appo le altre nazioni.
Tale fu quella che fecero, poco avanti la nostra memoria,
pei Nefelogiti(19) contra gli Alaopoliti(20), i quali
avendo maltrattato i mercanti dei Nefelogiti sotto colore
di osservare le loro leggi, furono con la guerra, sanguinosa
però d’ambe le parti, di maniera afflitti, che molti-
167
plicando le calamità, caddero in servitù de’ Nefelogiti
medesimi; perchè gli Utopiensi combatterono per questi,
e non per proprio interesse. Così gli Utopiensi prendono
atroce vendetta delle ingiurie fatte agli amici anco
nei danari, ma non tanto fieramente vendicano le proprie:
perchè se gli uomini loro per qualche inganno perdono
i beni, purchè non sia lor fatto violenza nei corpi,
si contentano che si soddisfaccia al danno e più non tengono
commercio con quella gente che gli offese. Non
che meno curino i loro cittadini che i loro confederati,
ma perchè i mercanti di questi, essendo ingannati, perdono
del proprio avere, laonde sentono maggior danno;
e i cittadini Utopiensi altro non possono perdere che dei
beni della repubblica, i quali si mandano ad altri paesi,
quando avanzano loro, ed indi quasi niuno ne prova disagio.
Perciò reputano che sia una crudeltà voler punire
con morte di molti quel danno, dal quale niuno sente incomodo
nel vivere o nella vita. Ma se alcuno dei loro
cittadini viene ferito o morto ingiuriosamente, sia per
consiglio pubblico o privato, mandano ambasciatori a
dimandare i colpevoli, e, non essendo loro dati, movono
guerra contra quel popolo a cui appartengono. I colpevoli,
che sono lor consegnati, ovvero uccidono, o tengono
per servi. Si vergognano e pentono della vittoria sanguinosa,
parendo loro di aver comperato troppo caro le
mercanzie, ancorchè fossero di gran prezzo. Si gloriano
di aver vinto i nemici con arte o con inganno; di questo
trionfano pomposamente e ne rizzano un trofeo: ed allora
si vantano arditamente quando hanno vinto con
168
quell’industria, con la quale l’uomo solamente può vincere,
cioè con le forze dell’ingegno, il che reputano
un’egregia virtù. Dicono essi: i leoni, gli orsi, i lupi, i
cinghiali, i cani e le altre bestie combattono con le forze
del corpo; ma siccome assai di quelle ci vincono per valore
e ferocità corporale, così noi le superiamo tutte con
l’ingegno e con la ragione. Nel loro guerreggiare mirano
di ottenere quella cosa, per cagion della quale hanno
mosso guerra; e se alcuno ad essi resiste, ne fanno così
atroce vendetta, che gli altri per l’avvenire non ardiscono
contrapporsi. Propostosi uno scopo, in breve ne vengono
all’effetto, avendo però l’occhio principalmente
piuttosto a schivare il pericolo, che a farsi gloriosi. Perciò,
intimata la guerra, fanno porre segretamente molti
scritti col bollo pubblico nei luoghi più frequenti dei nemici,
dando a sperare gran premio a chi ammazza il
principe, e minore in proporzione per la testa degli altri,
che proscrivono, cioè i consiglieri, i quali dopo il principe
sono autori delle ostilità. Ma danno doppia ricompensa
a chi li presenta vivi, ed anco invitano con larghe
promesse gli stessi proscritti ad andare contra i loro popoli,
e perdonano a quelli ogni passato fallo. Così gl’inimici
in breve tempo hanno sospetto di tutti gli uomini,
nè si fidano tra loro medesimi, laonde si trovano in gran
pericolo e timore. Ed è più volte avvenuto, che buona
parte di essi, e tra questi il principe, siano stati traditi da
coloro, nei quali aveano maggiore speranza. Tanto facilmente
vengono spinti ad ogni sceleraggine gli uomini
coi doni, i quali sono dati dagli Utopiensi in questi casi
169
senza misura alcuna, perchè considerando a quanto pericolo
li confortano, studiano di ricompensarneli con la
copia dei beneficj. Perciò promettono, ed attendono poi
con effetto, non solamente gran somma d’oro, ma eziandio
grandi rendite in luoghi sicuri appo gli amici. Questa
foggia di apprezzare e mercare il nemico, biasimato
appo le altre nazioni, e riputato di animo vile e crudele,
appo loro è tenuta per gloriosa impresa. Poichè si credono
in questo prudenti, che forniscono guerre grandissime
senza venire a conflitto, e pietosi, perchè con la morte
di pochi salvano la vita di molti, che morirebbero nei
fatti d’arme, parte dei cittadini, parte dei nemici, dei
quali hanno quasi tanta pietà come dei loro proprj, sapendo
che non vengono alla guerra spontaneamente, ma
spinti dal furore dei loro principi. Se loro ciò non riesce,
seminano e nodriscono discordie tra nemici, dando speranza
di ottenere il regno al fratello del principe, o a
qualcuno che vi possa aspirare. Quando non valgono
queste sedizioni, eccitano i popoli vicini a guerreggiare
contra i nemici con mostrare loro qualche ragione, che
abbiano nel paese di quelli, e promettendo di favorirli
danno ad essi danari copiosamente. Ma di rado vi mandano
i loto cittadini, i quali tengono tanto cari, che non
ne cangierebbero uno col principe della parte nemica.
Danno l’oro e l’argento più facilmente; perchè lo conservano
a questo effetto, nè vivrebbero meno comodamente
ancorchè lo dispensassero tutto. Ed anco, oltre le
ricchezze che tengono in casa, hanno infinito tesoro, che
loro debbono molte nazioni. Mandano però alla guerra
170
soldati di alcuna di quelle, e specialmente dei Zapoleti(
21). Questo popolo è lontano dall’Utopia cinquanta miglia,
verso oriente, orrido, rusticano e feroce, il quale
abita le selve, dove ancora è nodrito. Gente dura, atta a
patire il freddo, il caldo e la fatica, senza alcuna delicatezza,
non si dà all’agricoltura, nè studia come si vesta o
fabbrichi; solamente governa gli animali, e vive di cacciagione
e di rapina. Nata al combattere, brama la guerra
studiosamente, offerendosi per vil prezzo a chi la ricerca.
Non ha per sostentamento della vita che questa
sola arte, con la quale si cerca la morte; ma serve fedelissimamente
e virilmente a chi l’assolda, obbligandosi
sino ad un certo giorno, con patto che passato quello
possa andare al soldo del nemico: tuttavia ritorna per
poco maggior prezzo. Si fanno poche guerre che non vi
sia di questo popolo d’amendue le parti. Così avviene
che i parenti e gli amici, soldati da questa e da quella
parte, concorrano insieme a mortale uccisione, scordandosi
dell’amicizia e del parentado, solamente mossi dal
ricevuto stipendio, al quale sì avidamente mirano, che
potendo aver un danaro di più al giorno, passano alla
parte nemica. Tanto sono immersi nell’avarizia! la quale
però non giova punto ad essi, perchè consumano a vivere
lussuriosamente in breve tempo quanto hanno acquistato
col sangue. Questo popolo serve nella guerra agli
Utopiensi contra chiunque essi vogliano, perchè gli danno
maggior stipendio, che altri possano dargli. Siccome
gli Utopiensi cercano gli uomini dabbene per accomodarsene;
così pigliano gli uomini malvagi, per servirsene
171
alla guerra, e quando fa mestieri, con gran promesse gli
spingono a grandi pericoli; laonde spesse volte una gran
parte di loro non torna a dimandarne l’eseguimento. Gli
Utopiensi però le attendono fedelmente a quelli, che rimangono
vivi, per accenderli a simili imprese. Nè si pigliano
cura se ne muojono gran numero, parendo loro di
giovare alla natura umana, ove potessero purgare il
mondo della feccia d’un popolo tanto scelerato e malvagio.
Dopo questa mandano le squadre di quei popoli, pei
quali combattono, e dietro ad essi la gente degli amici,
che porge loro ajuto. Finalmente vi aggiungono i loro
cittadini, dei quali uno, che sia per virtù illustre, fanno
di tutto l’esercito capitano. A costui sostituiscono due, i
quali, vivendo egli prosperamente, siano uomini privati;
ma morto lui, o rimanendo prigione, uno di loro gli succede
come per eredità. Così secondo il caso aggiungono
un terzo, acciocchè pericolando il capitano (come avviene
nella guerra) non si turbi tutto l’esercito. Di ogni città
si ammaestrano i soldati, che spontaneamente vogliono
militare; perchè niuno è mandato fuori alla guerra mal
suo grado; avendo per cosa certa, che l’uomo timido, oltre
che non si porterà virilmente, darà timore agli altri.
Movendosi però guerra contro la patria, mettono nelle
navi quelli, che sono timidi, purchè siano di corpo gagliardi;
e li mescolano con uomini arditi e valorosi, ovvero
li collocano sulla muraglia in guisa, che non possano
fuggire. Così la vergogna dei suoi, l’aver l’inimico a
fronte, ed il non poter fuggire, fa che vincono il timore:
e l’estrema necessità spesse volte si muta in virtù. E sic-
172
come niuno è tratto a guerra estrema contra sua voglia,
così confortano e con lodi incitano le mogli a seguire i
mariti, e nel conflitto le pongono vicino ad essi, e
d’intorno i figliuoli ed altri loro prossimi, i quali sono
mossi dalla natura a porgersi ajuto inseme. Il marito che
torna senza la moglie è biasimato; così il figliuolo perduto
il padre: indi avviene che se il nemico non fugge, si
combatte fino allo sterminio. Perchè, siccome schivano
quanto possono di venire a fatto d’arme, e conducono a
quest’effetto soldati forastieri; così quando sono astretti
di combattere vi corrono tanto arditamente, quanto prima
studiosamente lo hanno schivato. Non s’infuriano da
principio, ma a poco a poco pigliano vigore, con animo
fermo di morire piuttosto, che dare le spalle. Quella sicurezza
delle cose al vivere necessarie, senza l’affanno
dei loro discendenti (il che in ogni luogo indebolisce gli
spiriti generosi) fa gli Utopiensi di animo altiero, e che
si sdegna di esser vinto. Si fidano ancora nella perizia
che hanno nella guerra; ed anco le dritte opinioni e i
buoni istituti della repubblica che hanno imparati dalla
fanciullezza, aumentano in essi la virtù; con la quale
non tanto sprezzano la vita, che la gettino, nè tanto
l’hanno cara, che, richiedendo onesta causa di esporla
alla morte, se la vogliano avaramente e con biasimo
conservare. Quando più fiera in ogni parte arde la pugna,
alquanti giovani congiurati mirano ad uccidere il
principe nemico, ora a faccia aperta, ora con inganno, di
lontano e d’appresso, con lunga e continuata squadra,
sostituendosi ognora i più freschi agli stanchi. E di rado
173
avviene, se non fugge, che non rimanga morto o prigione.
Se sono vittoriosi, non attendono ad uccidere inimici
che fuggono, ma piuttosto li pigliano, Nè mai tanto li
perseguitano che non tengano sempre una squadra in ordinanza,
e piuttosto li lasciano fuggire che guastare i
proprj loro ordini, avendo a memoria che molte fiate,
essendo rotto il campo avverso, i vittoriosi spargendosi
qua e là, e lasciando pochi per retroguardia, hanno dato
occasione al nemico di farsi di vinto vittorioso. Non saprei
narrare se siano più astuti a disporre le insidie o più
accorti a schivarle. Alle volte penserai che fuggano,
quando sono più ostinati di non fuggire, nè si può a segno
alcuno indovinare quando da dovero si dispongono
di farlo. Perchè sentendosi in disvantaggio nel numero,
o per sito del luogo, si levano di notte tacitamente o fingono
qualche astuzia, ovvero di giorno si partono, ma
con tal ordine, che non è minore pericolo assalirli quando
se ne vanno, che quando stanno fermi. Fortificano i
loro alloggiamenti con larga e profonda fossa, nè si servono
in questo dei vili servi; anzi i soldati di lor mano la
cavano, gettando la terra dentro, eccetto quelli, che per
ogni subito caso stanno armati alla guardia. Così, adoperandovisi
tanto numero, fortificano gran campo in pochissimo
tempo. Usano arme a pigliare i colpi ferme, e
non inette da portare e muovere, in tanto che non
gl’impacciano nuotando. Perchè tra gli ammaestramenti
della milizia si avvezzano a nuotare armati. Per arme di
lontano usano le saette; e sono a lanciar quelle ove disegnano
gagliardi ed esperti, non solamente i pedoni, ma
174
eziandio i cavalieri. Da presso non usano spade, ma accette,
che tagliano e pungono acutissimamente, e col
peso ancora sono mortali. Fanno certe macchine, le quali
tengono nascoste finchè fa mestiero di usarle, onde
non siano piuttosto di ludibrio che di vantaggio; e mirano
a farle tali che agevolmente si possano condurre e girare,
come porta il bisogno. Osservano le tregue tanto
santamente, che essendo ancora ingiuriati non le violano.
Non saccheggiano il paese nemico, nè ardono le biade;
anzi a loro potere non le lasciano calpestare dai pedoni,
nè da cavalieri, facendo presupposto che crescano
per loro. Non uccidono alcuno disarmato, se non è qualche
spia. Difendono le città che loro si rendono, e non
devastano quelle che pigliano a forza, ma uccidono solamente
coloro, che non lasciavano che si arrendessero,
e gli altri, che le difendeano, fanno servi. Ma non offendono
la turba inetta a guerreggiare. Danno parte dei beni
dei dannati a coloro, che persuadevano che la città si
rendesse; ed il rimanente, che si vende, donano ai compagni
venuti loro in ajuto. Niuno di loro piglia cosa alcuna
del bottino. Finita la guerra, non prendono dagli
amici quello, che vi hanno speso, ma da quelli che sono
vinti: per questa causa parte riscuotono danari, parte si
appropriano alcuni terreni, dei quali i popoli vinti pagano
loro ogni anno certe rendite, che fra tutte ben montano
a più di settecentomila ducati. Mandano in que’ luoghi
alcuni lor cittadini per camerlinghi, acciocchè vivano
magnificamente e vi stiano come nobili: tuttavia ne
riportano buone somme nell’erario, ovvero le prestano
175
a’ popoli vinti, nè le riscuotono, se non quando lo ricerca
il bisogno: e di raro tutte intere. Di tali campi assegnano
parte a quelli, che fanno per loro qualche pericolosa
impresa, com’è sopra detto. Se alcun principe apparecchia
di assalire con armi il loro paese, con grande
esercito gli vanno subito contra fuori dei loro confini;
per non guerreggiare nel proprio paese: nè mai vengono
a tanta necessità, che accettino nell’isola ajuto alcuno
dagli amici.
176
DELLE RELIGIONI
DEGLI UTOPIENSI.
Sono varie le religioni, non solo per l’isola, ma per le
città ancora. Altri onorano il sole, altri la luna, altri alcuna
delle stelle erranti. Alcuni venerano per Sommo Dio
qualche uomo, che sia stato egregio per virtù. Ma la
maggior parte, i più prudenti dico, non adora alcuna di
queste cose; ma pensa che vi sia una occulta, eterna, immensa
ed inesplicabile divinità, sopra ogni capacità
umana, la quale con la virtù non con la grandezza si
stenda per questo mondo, e tal Dio chiamano Padre. Da
lui riconoscono l’origine, l’aumento, i mutamenti ed il
fine di tutte le cose, ed a lui solo danno i divini onori.
Gli altri tutti, benchè adorino cose diverse, in questo parere
concorrono, che vi sia un sommo Dio, il quale abbia
creato il tutto, e con sua prudenza lo conservi, e
chiamanlo in loro linguaggio Mythra(22). Ma discordano
in ciò, che uno afferma che questo sommo Dio sia una
cosa, ed alcuno un’altra. Affermano però che quel sommo,
il quale tengono per Dio ha il governo del tutto. Ma
tutti a poco a poco si scostano dalla varietà delle superstizioni,
e concorrono in quella religione, che con più
ragioni ed evidenza si prova. E già sarebbero tutti di una
religione; se non che ogni disgrazia che loro accade nel
177
mutare, si pensano che ad essi sia mandata dal cielo per
castigo, e che quel Dio, il quale vogliono abbandonare,
si vendichi di questa loro empia intenzione. Ma poich’io
predicai loro il nome di Cristo, la dottrina di quello, i
miracoli e la costanza di tanti santi martiri, che spontaneamente
vollero spargere il sangue; e come tante nazioni
si sono a lui convertite, mirabilmente vi s’inchinarono,
ovvero per divina inspirazione, ovvero che parve
loro tal via molto simile alla loro religione. E valse questo
assai, perchè avevano compreso che la foggia del lor
vivere piaceva a Cristo, e che i veri cristiani avevano
monasteri, molto simili ai loro istituti. Sia però avvenuto
per qual caso si voglia, molti si convertirono alla fede
cristiana, e vollero essere battezzati. Ma poichè di noi
quattro, che ivi eravamo, gli altri due essendo morti niuno
era sacerdote, quei popoli ancora desiderano avere
sagramenti, cui s’appartien di ministrare solamente ai
sacerdoti; e disputano sovente se sia lecito, senza commissione
del pontefice, eleggere sacerdote uno di loro: e
già stavano per eleggerlo, ma non ancora l’avevano fatto,
quando io mi partii. Quelli che ancora non hanno appreso
la fede cristiana, non biasimano chi la crede. Se
non che uno di nuovo battezzato, cominciò ardentemente
(quantunque io lo ammoniva che tacesse) a commendare
il culto di Cristo, e dannare ogni altra setta, chiamando
empj coloro, che adoravano altro che la santissima
Trinità, e degni del fuoco eterno. Costui fu preso,
non già come violatore della religione, ma come colui,
che aveva levato nel popolo tumulto: allegando gli anti-
178
chissimi loro istituti, che ognuno possa tenere qual religione
più gli piace. Gli Utopiensi avendo inteso i primi
abitatori dell’isola essere stati circa la religione di pareri
diversi, e considerando che le varie sette, combattendo
tra loro, aveano dato ad essi occasione di vincerli tutti,
fecero un editto che ognuno potesse tenere qual religione
più gli aggradiva all’animo; e se alcuno bramava di
tirare l’altro nella sua, con modestia e ragioni studiare a
persuaderlo, ma non usare in questo alcuna violenza o
ingiuria: e chi contendeva di ciò importunamente, era
punito con esilio o con servitù. Fecero gli Utopiensi tale
statuto, non solamente per conservare la pace, la quale
con la contenzione, e con l’odio si estingue, ma eziandio
pensando che piacesse a Dio il culto vario e diverso, e
che perciò ispirasse varj riti a questo ed a quello. Giudicarono
quindi che non fosse convenevole voler con forza
e minacce costringere alcuno a credere quello, che tu
credi per vero. E quantunque una fra le differenti lor religioni
fosse vera; tuttavia vollero che i cittadini venissero
a quella persuasi con modestia, sperando che la verità,
quando che sia, debba rimaner vittoriosa. Laddove,
contendendosi con arme, gli uomini ostinati potrebbono
con le loro vane superstizioni opprimere la vera religione,
come avviene che i frutti vengono affogati dalle spine.
Mossi da tali ragioni lasciarono libero ad ognuno di
credere quello, che più gli piaceva. Solamente vietarono
che niuno affermasse, le anime morire coi corpi, e che il
mondo fosse governato a caso, senza previdenza divina,
tenendo anzi per fermo che, dopo questa vita, fossero
179
puniti i vizj e premiate le virtù. Chi nega, quindi, tali
cose, è tenuto peggio che bestia, volendo rassomigliare
l’anima umana alla pecore; nè lo reputano loro cittadino,
come colui, il quale (non essendo da timore raffrenato)
sprezzerà ogni buon costume ed istituto. Ed è da credere
ch’egli contraffaccia di nascosto alle leggi, o studi
di annullarle, per servire al suo appetito, non avendole
in riverenza, nè sperando o temendo cosa alcuna dopo
questa vita. A chi tiene tale opinione non danno onore
alcuno, nè magistratura; così è lasciato da parte, come
uomo inetto e da poco. Non però viene punito, giudicandosi
che non sia in potere di alcuno credere quello, che
gli piace; e neppure è forzato con minacce a tener segreto
il suo parere, fingendo di credere come gli altri. Gli
vietano però il disputare di quella sua opinione, specialmente
appo il volgo. Ma confortano gli uomini di gravità,
ed i sacerdoti che ne ragionino, sperando che tale
pazzia debba essere vinta dalla ragione. Altri in gran numero
tengono che le anime ancora delle bestie siano immortali,
ma delle nostre men degne e non nate ad eguale
felicità. Tanto sono persuasi dell’immensa felicità delle
anime nostre, che piangono gl’infermi e non i morti, se
non quelli, che veggono mal volentieri lasciare questa
vita. E questo hanno per cattivo augurio, come se l’anima
senza speranza di bene alcuno, spaventata dalla propria
coscienza, temesse il supplicio. E pensano che non
piaccia a Dio l’andare di colui, il quale non corre volentieri
quando è chiamato, ma sta ritroso. Se veggono alcuno
morire in questa guisa, se ne smarriscono, e lo por-
180
tano a seppellire tacitamente, e pregano Dio che perdoni
alla sua dapoccagine. Niuno piange quelli, che muojono
lietamente, e con buona speranza; anzi seguendone le
esequie cantando, raccomandano affettuosamente le loro
anime a Dio, e ne ardono i corpi con riverenza piuttosto,
che con rammarico. Rizzano una colonna, ove sono
scolpite le lodi del defunto, e tornati a casa, ricontano i
costumi e la vita di quello, e specialmente commendano
la sua morte. Tengono che tale commemorazione di
bontà sia ai vivi uno stimolo alla virtù, e gratissimo culto
ai defunti, dandosi a credere, che questi invisibilmente
si trovino presenti a simili parlari. Perchè non sarebbero
felici, quando non potessero andate ove piace loro,
e sarebbero ingrati, se non bramassero di rivedere i loro
amici, a cui erano uniti con rispondente carità, la quale,
essendo uomini dabbene, piuttosto debbe essere accresciuta,
che scemata. Credono adunque che i morti pratichino
tra’ vivi, mirando quanto si fa e dice. Perciò si
mettono arditamente alle imprese, fidandosi di tali ajuti;
e portando onore alla presenza dei loro maggiori, si
guardano dal commettere cosa disonesta anche segretamente.
Sprezzano gli augurj e le altre superstizioni
d’indovinare, le quali sono appo le altre nazioni tanto riputate.
Onorano quei miracoli, che vengono senza ajuto
alcuno di natura, come testimoni della divina presenza;
e nelle grandi cose con pubbliche supplicazioni studiano
a placare Dio. Pensano che contemplare le cose di natura
sia un culto a Dio gratissimo. Molti ancora mossi da
religione sprezzano le lettere, non si danno a contempla-
181
re cosa alcuna, ma solamente pensano di acquistare la
felicità perpetua con buone operazioni. Così altri servono
agl’infermi, altri riconciano le vie, altri purgano le
fosse, altri rifanno i ponti, cavano sabbia e pietre, conducono
nella città legne e frutta, altri tagliano alberi e li
segano: e, come fossero servi, si pongono volentieri ad
ogni impresa difficile, strana o sozza, la quale dagli altri
per la fatica o pel fastidio è lasciata. Travagliano continuamente,
perchè gli altri riposino, non biasimando però
alcuno che viva altrimenti. Questi quanto più si portano
da servi, tanto vengono dagli altri più onorati. Ma sono
di due sorta. Alcuni vivono casti, non mangiano carni di
animale alcuno, e lasciano da parte ogni diletto con speranza
della vita futura, e non pertanto sono sani e prosperosi.
Altri dati parimente alle fatiche, si maritano per
eseguir l’opera della natura, e generar figliuoli alla repubblica.
Non fuggono quei sollazzi che non li ritirano
dalle necessarie occupazioni. Mangiano carni d’animali
di quattro piedi, dandosi a credere, che con quel cibo si
mantengano più robusti al lavoro. Gli Utopiani tengono
questi per più prudenti, e quelli per più santi. Ma quando
più apprezzano il celibato che il matrimonio, e la vita
austera che la deliziosa, li beffano: nondimeno dicendo
che sono mossi a questo da religione, gli onorano; perchè
si guardano sommamente di non dannare la religione
di alcuno. Essi chiamano questi tali Butreschi, che
appo noi significa religiosi. Hanno sacerdoti di vita santissima,
ma solamente tredici per ogni città, secondo il
numero dei tempj. Quando vanno alla guerra ne condu-
182
cono seco sette, e ne creano altri sette in luogo loro, finchè
si torna; e allora gli ultimi accompagnano il pontefice,
sinchè per morte dei primi succedono al sacerdozio.
Sono eletti dal popolo, come i magistrati, segretamente,
acciocchè non nascano odj tra loro; e dal loro collegio
vengono sagrati. Questi sono preposti ai divini misteri.
Hanno cura delle religioni, sono giudici dei costumi, ed
è biasimato colui, che sia da essi ripreso. Siccome è loro
ufficio ammonire i malfattori, così ai magistrati conviensi
di castigarli. Solamente scomunicano gli ostinati,
il che è appo loro sommamente biasimevole, e tenuto
per grave supplicio. Perchè temono l’infamia e la religione;
oltre che non sono sicuri del corpo, perchè se tardano
a pentirsi, e soddisfare ai sacerdoti, sono puniti
dai magistrati. Questi sacerdoti ammaestrano i fanciulli,
avendo egual cura a formarli nelle lettere, che nei buoni
costumi. E pongono ogni studio che imparino buone
opinioni, e piglino desiderio di essere utili alla repubblica,
acciocchè gli animi giovanili in questo formati,
nell’età virile siano disposti a mantenere lo stato comune,
il quale solamente vien meno pei vizj che nascono
da sinistre opinioni. Danno ai sacerdoti elettissime mogli
del popolo loro: fanno sacerdotesse ancora le femmine,
ma di rado, se non sono vedove, o di età matura.
Sono più onorati i sacerdoti appo gli Utopiensi, che qualunque
magistrato, e se commettono qualche rea opera,
non vengono puniti da alcuno, ma lasciati al divino giudizio,
ed alla propria coscienza. Perchè non par loro giusta
cosa di toccare con mano mortale colui, che è a Dio
183
sagro. Questo costume possono osservare agevolmente,
perchè eleggono sacerdoti quelli, che sono di ottima
vita. I quali di rado cadono nei vizj, vedendosi con tanto
favore eletti, perchè osservino la virtù. E se pure avviene
che pecchino, come accade nell’umana natura, tuttavia
perchè sono pochi, e senza potestà alcuna, non si
teme che possano a modo alcuno infestare la repubblica.
E ne fanno pochi, acciocchè sia tale dignità più ragguardevole:
e perchè tengono che sia difficil cosa trovare
gran numero di buoni, che possano esserne degni. Questi
e dai loro popoli e dagli stranieri sono molto onorati,
il che per mio avviso è cagionato da ciò, che facendosi
alcun fatto d’arme, essi separati dagli altri stanno in ginocchione
vestiti coi sagri abiti, e con le mani al cielo
levate; pregano prima per la pace, e poi per la vittoria al
loro popolo, senza spargimento di sangue d’amendue le
parti. Vincendo la propria, corrono nelle squadre, vietando
l’uccisione degli sconfitti, e ciò basta a salvarli;
anzi tanta è la riverenza verso di essi, che il solo tocco
delle ondeggianti lor vesti difende le persone e le cose
da ogni bellica ingiuria. Perciò sono in tanta venerazione
appo le estere nazioni, che molte fiate hanno salvato
non meno i nemici dalle mani dei proprj cittadini, che
questi dalle mani de’ nemici. Alle volte è avvenuto
ch’essendo sconfitto il campo loro, e mettendosi i nemici
a saccheggiare, sopravvenendo i sacerdoti, è stata raffrenata
l’uccisione, e fatta la pace con onesti partiti. Non
mai si trovò gente alcuna tanto feroce e cruda, la quale
non abbia onorato il corpo di quelli, come sagrosanto ed
184
inviolabile. Celebrano gli Utopj solennemente il primo e
l’ultimo del mese, e parimente dell’anno, il quale dividono
secondo il corso della luna. I primi giorni chiamano
Cinemerni, e gli ultimi Trapemerni, cioè prime feste,
ultime feste. Hanno egregi tempj non molto lavorati,
ma, com’era necessario nel loro picciol numero, capaci
di uno assai maggiore. Sono questi alquanto scuri, per
consiglio dei sacerdoti, perchè la molta luce distrae i
pensieri nostri, e la mediocre li raccoglie, e fa l’uomo
alla religione più dedito. Benchè siano di varie forme,
nondimeno tutti sono alla religione accomodati quasi ad
una comune foggia. I sagrificj particolari di ciascuna
setta sono celebrati nelle case particolari. I pubblici poi
si fanno con tal ordine, che nulla derogano ai privati.
Così non tengono nei tempj alcuna imagine degli Dei,
acciocchè possa ognuno liberamente imaginarsi Dio in
qual forma più gli piace. Chiamano Dio solamente per
questo nome Mythra: e tutti per questa voce intendono
la natura della divina maestà. Non si fanno orazioni, le
quali non si possano pronunciare senza offendere le altre
sette. Concorrono al tempio nelle ultime feste al vespro
e digiuni, per rendere grazie a Dio di aver passato
quel mese prosperamente. Il giorno appresso, che è la
prima festa, concorronvi la mattina a supplicare felice
successo per il mese che segue. Nelle ultime feste prima
che si vada al tempio, le mogli innanzi ai mariti, i figliuoli
ai padri si mettono in ginocchione, chiedendo
perdono di ogni mancamento: così ogni odio nascosto o
dispiacere nato tra loro si estingue, e si trovano ai sagri-
185
ficii con animo candido e puro. Perchè temono di intervenirvi,
non avendo l’animo da ogni odio ed ira purgato.
I maschi vanno alla destra parte del tempio, e le femmine
alla sinistra, ed ogni padre e madre di famiglia si
mette innanzi a tutti i suoi, per vedere i gesti di coloro
che hanno in governo, e poterli correggere da ogni errore,
che commettessero. Attendono che i giovani stiano
vicini ai vecchi, acciocchè non si diano a cose puerili se
stanno tra fanciulli o garzoni; parendo loro che in quel
tempo debbano, col levare la mente a Dio, essere incitati
alla virtù. Non sagrificano animali, dandosi a credere,
che la divina clemenza non si plachi con sangue od uccisione,
avendo quella dato la vita agli esseri perchè vivano.
Ardono incenso, ed altre cose odorifere, e portano
assai torchi. Non già che non sappiano come tali cose
niente vagliono a placare la divina natura; neanco le
orazioni degli uomini: ma piace loro questo culto senza
nocumento alcuno; e con tali odori e lumi si sentono
muovere a divozione verso Dio, e diventare più pronti
ad onorarlo. Il popolo nel tempio si veste di bianco, ed i
sacerdoti di varj colori, ma non di preziosa materia; perchè
sono le lor vesti quasi ricamate non di pietre preziose,
ma di varie penne di uccelli, in tal modo disposte,
che l’opera oltre ogni stima più assai vale, che la materia.
Dicono ancora che in quel variare di penne sono
compresi alcuni segreti misteri, l’interpretazione dei
quali imparata dai sacerdoti, che diligentemente l’insegnano,
fa loro comprendere i divini beneficii, che ricevono,
e quale pietà debbano usare verso Dio ed il pros-
186
simo. Quando il sacerdote ornato esce del santuario, tutti
si piegano con la faccia in terra, con tanto silenzio,
che muove agli animi timore, come se Dio fosse presente.
Poichè sono stati alquanto in terra, ad un segno del
sacerdote medesimo si levano, e cantano a Dio laude
con musicali stromenti, di forma assai differenti da quelli,
che si veggono appo noi, ma nel suono alcuni più, alcuni
meno soavi, che i nostri. Ci vincono però di gran
lunga in questo, che ogni lor musica, o con organi, o con
voce umana imita, ed esprime gli affetti naturali, e si accomoda
alla materia, sia orazione supplicatoria, lieta,
placabile, turbata, lugubre o sdegnata, e rappresenta in
tal guisa il sentimento, che gli animi di tutti sono a quello
disposti ed accesi. In fine dei sagrifizii tutti ad una
voce dicono certe parole col sacerdote, le quali, benchè
siano pronunziate in comune, ognuno può applicare a se
medesimo. In queste riconoscono Iddio autore della
creazione e del governo, e di tutti gli altri beni; e di tanti
beneficj gli rendono grazie, ma particolarmente che siano
nati in repubblica felicissima, ed abbiano religione, a
loro parere, d’ogni altra più vera. E se pigliano errore in
questo, pregan Dio che inspiri loro la miglior via, offerendosi
pronti a seguirla; ma se la repubblica loro è ottima,
e la religione verissima, dia ai medesimi costanza a
perseverare in quella, e conduca tutti gli uomini alla medesima
foggia di ben vivere, e nello stesso parere circa
la religione, se però non si diletta più di tanta varietà per
la sua inscrutabile sapienza. Supplicano poi che li riceva
a se dopo la morte, e che questa non sia crudele, nè stra-
187
na. Fatta quest’orazione, di nuovo si piegano in terra, e
poco appresso levati vanno a mangiare: il rimanente del
giorno consumano in giuochi ed esercizj militari. Vi descrissi,
quanto più veracemente mi è stato possibile, la
forma di quella repubblica, la quale non solamente giudico
ottima, ma eziandio sola, che possa con ragione esser
chiamata repubblica. Perchè altrove si ragiona veramente
del pubblico comodo, ma si attende al particolare.
In questa da dovvero si mira al ben pubblico, lasciando
al tutto da parte ogni proprio utile. Chi è nelle altre repubbliche,
ancorchè siano fiorite e prospere, il quale
non tema di morirsi per fame, se non procura piuttosto i
suoi privati comodi, che il pubblico bene? Ed anco la
necessità nelle altre repubbliche strigne l’uomo a far
questo. Nella Utopiense, ove ogni cosa è comune, niuno
teme di patire, purchè siano pieni i granai pubblici. Perchè
ivi non si distribuisce con malvagità, nè vi è alcuno
povero; e quantunque niuno posseda in particolare, tutti
sono nel pubblico ricchi. Perchè veramente, non avendo
pensieri circa l’acquistare particolarmente, menano lieta
vita con tranquillo animo. Non istanno in pena del loro
vivere, non sono con domande continue dalle mogli travagliati,
non temono che i figliuoli impoveriscano, nè di
indotare la figliuola stanno in pensiero. Anzi sono sicuri
del vivere felice dei figliuoli, nipoti e d’ogni lor discendente,
ed anco di se stessi, perchè primieramente si
provvede a chi non può più lavorare, come a quelli che
lavorano. Ardirà alcuno di comparare l’equità di altre
genti, le quali a mio parere non ne tengono ombra alcu-
188
na, con l’equità di questa repubblica? Che equità è quella
che un nobile ovvero orefice od usurajo, oppure qualunque
altro che non opera cosa alcuna, ovvero ogni cui
fatto è poco necessario alla repubblica, si acquisti il vivere
dilicato e splendido; quando che un servo, un lavoratore
de’ campi, un fabbro, un carrettiere con tanta fatica
diurna e notturna, che non la patirebbero i buoi, si
guadagna parcamente il vivere, quasi peggiore che quello
degli animali? Perocchè questi non lavorano tanto assiduamente,
nè stanno in timore delle cose avvenire; ma
gli altri sono afflitti dalla poco fruttuosa fatica, e pensando
alla povertà, che aspettano in vecchiezza, restano
vinti dal dolore. Poichè vedendo di non poter tanto guadagnare,
che basti loro di giorno in giorno, perdono ogni
speranza di riporre cosa alcuna pel futuro. Non è ingiusta
quella repubblica ed ingrata, la quale dà liberamente
tanti doni ai nobili, agli oziosi, agli artefici de’ vani diletti,
agli adulatori, e non provvede ai lavoratori di terreno,
ai carbonai, ai servi, ai carrettieri ed ai fabbri, senza
i quali non può stare alcuna civil società? Anzi essendosi
delle loro fatiche servita, mentre che erano giovani,
poichè invecchiano, li lascia di disagio morire in estrema
povertà. Che dirò come i ricchi pigliano ancora del
salario diurno dei poveri, non solamente con violenza o
frode, ma con pubbliche leggi? Considerando adunque
tutte le repubbliche, che ora fioriscono, così mi ami Dio,
che non veggo altro, che una congiura di ricchi, la quale
tratta dei proprj comodi. Sotto nome di repubblica ricercano
essi ogni modo ed arte, con la quale possano fare
189
grandi acquisti, e tenerseli senza timore; di poi come
con piccioli salarj aver le fatiche dei poveri, e servirsene
a loro voglia. Questi trovamenti de’ ricchi sotto colore
di repubblica diventano leggi. Tuttavia que’ pessimi uomini,
poichè hanno con insaziabile appetito diviso tra
loro ciò, che a tutti dovea bastare, sono degli Utopiensi
inferiori, quanto alla felicità della repubblica loro; dalla
quale essendo levata via la cupidigia del danaro, ogni
molestia e sceleragine è insiem rimossa. Chi non sa
quante frodi, rapine, risse, tumulti, contestazioni, sedizioni,
uccisioni, tradimenti, incantesimi puniti piuttosto
che raffrenati coi supplicj, collo sprezzare i danari se ne
vanno, e con ciò la sollecitudine, i pensieri, le fatiche, le
vigilie, ed anco la povertà, la qual sola pare che di danari
sia bisognosa? E per meglio chiarirti, pensa di qualche
anno sterile, nel quale siano morti per fame gli nomini a
migliaja, e troverai che nel fine di quella carestia era
tanto frumento nei granai dei ricchi, che avrebbe nodrito
quelli, che morirono di fame, nè alcuno avrebbe sentito
la sterilità di quel tempo. Così facilmente si acquisterebbe
il vivere se il desio di accumulare danari, non impoverisse
gli altri. I ricchi stessi, non ne dubito, ciò comprendono
e sentono che sarebbe miglior partito non
mancare di cose necessarie, che abbondare di tante soverchie.
Ed io tengo certo, che ovvero il rispetto del comodo,
ovvero l’autorità del salvator Cristo, il quale per
sua sapienza e bontà seppe e potè consigliare quello che
era meglio, avrebbe già ridotto il mondo tutto sotto migliori
leggi, se non si contrapponesse la superbia, la
190
quale si tiene felice, non pei proprj comodi, ma per gli
incomodi altrui, dilettandosi col suo pompeggiare di affliggere
i poveri. Questa serpe infernale ritarda gli uomini
dalla vera via. Ed essendo essa oggimai radicata
negli umani petti, mi rallegro che tengano gli Utopiensi,
almeno, quell’ottima forma di repubblica felicissima, e,
quanto può l’umana cognizione prevedere, ancora perpetua.
Perchè essendo tra loro estirpati i vizj dell’ambizione,
e le radici delle sette, non vi è pericolo di discordia,
la qual sola basta a rovinare le ben fortificate città.
Ma vivendo in concordia con salutiferi istituti, non potrà
l’invidia de’ vicini principi, già più volte ribattuti, crollarne
l’imperio. Poichè Rafaello ebbe così detto, quantunque
mi parevano esservi molte sconvenevolezze nei
costumi e leggi loro, non solo circa il guerreggiare, ma
ancora nella religione, e specialmente quel vivere in comune
senza danari, il qual pare che estingua la nobiltà,
la magnificenza e lo splendore, che sono per comune
opinione i veri ornamenti dello stato; tuttavia vedendolo
già stanco, e temendo di non offenderlo nel riprendere
una repubblica tanto affettuosamente da lui commendata,
lodai il suo parlare; e presolo per mano, lo menai a
cena, dicendo che ad altro tempo potremmo delle stesse
cose pensare e ragionare, il che piaccia a Dio che avvenga.
191
Fine del secondo ed ultimo libro.
192
NOTE
AL LIBRO PRIMO
E
AL LIBRO SECONDO
193
(1) Poi Carlo V imperatore.
(2) Che sonerebbe per noi contastorie, se mai a tal
nome può darsi greca derivazione.
(3) La Nuova Castiglia.
(4) Lucano, Farsaglia lib. VII, v. 819.
(5) Il testo dice: afferrò a Taprobana, (ossia Ceylan) ed
indi si rese a Calicut. Era opinion generale di que’ tempi,
che l’America comunicasse, per terra, coll’India, di cui
supponevasi formare la parte occidentale.
Nella Gujana collocavasi il famoso paese di Eldorado,
di cui vedesi nella relazione di sir Walter Raleigh con
quanta credulità i viaggiatori andassero in cerca.
(6) Quando verso la metà, e più efficacemente sulla
fine dello scorso secolo, si cominciò nell’alta Scozia a
pensare alla propagazione e al governo delle pecore, i
fittajuoli mossero gli stessissimi lamenti che quei
d’Inghilterra a’ tempi del Moro, il qual mostra di approvarli.
S’ei però, non è immune da pregiudizj economici o
legislativi dell’età sua; si guardi al suo zelo generoso
verso gli oppressi, e se ne avrà ancor più giusta maraviglia.
(7) Ciò si riferisce al cominciamento del regno di
Francesco I.
(8) Probabilmente da A”xωρoς senza luogo, senza terra.
(9) L’alterazione e falsificazione delle monete, vergogna
frequentissima d’altri tempi, or più non oserebbe riprodursi
che all’ombra d’insolito travestimento. In mez-
194
zo alle violazioni della pubblica fede, il valor delle specie
metalliche fu ai nostri giorni mantenuto dovunque
nella sua integrità. E sebben la frode non abbia fatto,
per avventura, che cangiar di forma, è pur qualche cosa,
e da saperne grado alla forza dell’opinione, l’averle imposto
certo limite.
(10) Fénélon scriveva al duca di Borgogna: “Non debbono
già tutti essere di un solo; ma un solo di tutti, onde
formare la loro felicità”.
(11) Che nel greco linguaggio è quanto dire felici.
(12) Una delle tragedie attribuite a Seneca.
(13) Adelfi, atto I, scena 2.
(14) E’ varrebbe città mal nota od oscura, stando alla greca
significazione.
(15) Sembra così detto per antitesi, poichè significa
senz’acqua.
(16) Può interpretarsi nazion vana, popolo frivolo.
(17) I dolori fisici, scrive madama Staël, le infermità
incurabili, tutte le miserie, infine, che si accompagnano
all’esistenza corporea, parrebbero cause di suicidio assai
naturali; e tuttavia mai non sono quelle, che sospingano
gli uomini, specialmente moderni, ad atto così disperato.
Le pene, che ci provengono dal corso ordinario
delle cose, opprimon l’animo, non lo rivoltano. È necessario
che al sentimento del mal, che si prova, aggiungasi
l’irritazione contro il destino, perchè si tenti liberarsene
o vendicarsene come di un tiranno………...
Mai non conviene disprezzare i doni primitivi del
Creatore, la vita e la natura. L’uomo sociale dà troppo
195
valore al tessuto delle circostanze, onde componsi la
personale sua istoria. Ma l’esistenza non è forse in sè
stessa una cosa meravigliosa?………………………...
Egesippo di Cirene, discepolo di Aristippo predicava
ad un tempo il suicidio e la voluttà. Non dovendo gli uomini,
a parer suo, proporsi altro fine che il piacere; ed
essendo difficilissimo assicurarsene il godimento, ei consigliava
la morte a chi non poteva ottenerlo. Quella dottrina
del piacere infatti è una delle più valide a giustificare
l’uccision di se stesso; ma prova insieme evidentissimamente
qual egoismo abbia parte all’atto con cui si
cerca il proprio annientamento…………..
Vi ha due maniere di sagrificar la vita, o anteponendo
ad essa il dovere, o preferendo le passioni, per cui si ricusa
di vivere, perduta che sia la speranza d’esser felici.
La qual seconda risoluzione chi mai vorrà chiamare degna
di stima? Ma l’afforzarsi del proprio pensiero in
mezzo a rovesci, che potriano abbatterci; il farsi appoggio
di sè contro sè stesso, opponendo la calma della propria
coscienza all’irritazione del proprio temperamento;
questo è ben vero coraggio, in confronto del quale ogni
altro è picciolissima cosa, e quello che dà l’amor proprio
ancor meno.
Pretendono alcuni che vi siano circostanze, in cui
l’uomo sentendosi a carico degli altri, può creder suo
debito il liberarneli. Tristissimo eppur sicurissimo mezzo
di introdurre errori nella morale è pur questo di supporre
condizioni, intorno alle quali altro non si può rispondere,
se non che sono affatto imaginarie. Qual è lo sventurato,
che mai non sia per incontrare un suo simile, a
196
cui recar possa qualche consolazione? Qual uomo è sì
infelice, che colla pazienza e rassegnazion sua non vaglia
a porgere tale esempio, che commova gli animi, e
desti sentimenti, cui nessuna lezione basterebbe ad inspirare!
(Réflex. sur le Suicide, sec. 3.),
(18) Sa ognuno quanto a queste parole del buon Rafaello
sia conforme la storia, specialmente de’ tempi
suoi. L’America gli avea ben fatto dimenticare l’Europa.
(19) Forse da Νεφελογενήϛ, e varrebbe nubigeni.
(20) Nomadi, o girovaghi o fuorusciti.
(21) Probabilmente invece di Zoepoleti, cioè venditori
della vita.
(22) Secondo Erodoto altro non era fra i Persi antichissimi
che l’Amore, principio delle generazioni e della
focondità, che perpetua e ringiovanisce il mondo. Da’
Greci e da’ Romani fu confuso col Sole, risgurdato come
“il ministro maggior della natura”.
197
Iscriviti a:
Post (Atom)